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Successi e cadute di John Lasseter

Difficile pensare qualcuno che, anche se ne sappiamo poco, abbia segnato di più il nostro immaginario per decenni. Fino a quando è finito nelle maglie del #metoo. Un racconto fatto di luci e ombre.

“Io davvero mi chiedo perché / quando tutto va bene / è già tempo di accorgersi che / tanto bene non va. […] Erano tutti amici miei / ma adesso non lo so / e sto qui a lottare per vivere”. All’inizio di Toy Story, il primo lungometraggio in computer grafica della storia del cinema, Riccardo Cocciante interpreta un testo che a quasi trent’anni di distanza sembra una sinistra profezia. A John Lasseter, l’allora men che quarantenne regista del film, in effetti in quel 1995 tutto stava andando benissimo: la sua casa di produzione di film d’animazione, la Pixar, aveva iniziato da pochi anni a produrre film per la potente Disney e lui, dopo un avvio di carriera altalenante, era considerato a Hollywood il pioniere della Cgi, o computer-generated imagery, la grafica in tre dimensioni creata artificialmente dai software che stava iniziando a conquistare l’interesse di pubblico e addetti ai lavori.

Tempi più difficili erano ancora di là da venire, anche se a causarli non sarebbe stato il pupazzetto carismatico e resistente di uno Space Ranger interstellare. Ma che differenza fa? È lo stesso cowboy Woody, il protagonista di Toy Story, a ricordare il senso della vita agli altri giocattoli, spaesati dalla prospettiva di finire in uno scatolone a prendere polvere perché il loro utilizzatore sta crescendo: “Ascoltate, nessuno verrà rimpiazzato! Stiamo parlando di Andy. Non lo dimenticate… Non ha nessuna importanza per quanto tempo gioca con noi… L’importante è che siamo qui quando Andy ha bisogno di noi! Solo questo è il nostro compito”. Il “compito” di John Lasseter, la mente geniale che a metà degli anni Novanta ha persuaso milioni di bambini a trattare con cura e rispetto amicale i propri giocattoli (ero uno di quelli), è invece stato esplorare la frontiera del film d’animazione e riscrivere il concetto di sensibilità al cinema.

Primi passi

Nato il 12 gennaio 1957 nella Hollywood che l’avrebbe reso grande, John Alan Lasseter ha una sorella gemella che l’ha battuto sul tempo per sei minuti d’orologio, Johanna, che ha dedicato la sua vita al mestiere di fornaia nella zona del lago Tahoe. Il padre Paul era il responsabile dei pezzi di ricambio di un rivenditore Chevrolet, ma a segnare la vita di John sarà la madre, Jewell Mae, docente di educazione artistica alla scuola superiore di Bell Gardens. È lei che lo incoraggia a disegnare, fin dalla tenera età: a cinque anni il piccolo John ha già vinto il suo primo concorso per giovanissimi disegnatori. I Lasseter si stabiliscono a Whittier, un sobborgo tra il caos di Los Angeles e la sprezzatura Upper Class di Orange County. John diventa presto un fanatico del disegno: crea personaggi e storie anche durante le funzioni religiose della domenica a cui si reca con la famiglia, e dopo la scuola corre a casa per non perdersi una singola puntata dei Looney Tunes o gli altri personaggi usciti dalla matita di Chuck Jones.

“Ho visto La spada nella roccia, la mamma è venuta a prendermi e le ho detto: ‘Voglio lavorare per Disney. Voglio essere un animatore’. E per fortuna lei è stata un’insegnante d‘arte per trentotto anni alle scuole superiori, per cui ha sempre supportato la mia idea di seguire questa professione”.

E poi al liceo fa il classico incontro che cambierà la direzione della sua esistenza: quello con The Art of Animation, il libro del reporter hollywoodiano Bob Thomas che racconta i primi anni di Disney e il dietro le quinte della realizzazione del capolavoro del 1959 La bella addormentata nel bosco. John ne è entusiasta. Ma in un’intervista del 1990 indicherà in un altro momento la decisione fatale, la sliding door: “È stato a una proiezione de La spada nella roccia in un cinema locale. […] Era la fine della distribuzione. Quarantanove cent. Al Cinema Wardman di Whittier. Quindi ho visto La spada nella roccia, la mamma è venuta a prendermi e le ho detto: ‘Voglio lavorare per Disney. Voglio essere un animatore’. E per fortuna lei è stata un’insegnante d‘arte per trentotto anni alle scuole superiori, per cui ha sempre supportato la mia idea di seguire questa professione”.

John Lasseter decide di scrivere a Disney, di iscriversi a corsi di disegno. Di comprare il libro del veterano disneyano e degli studios Metro-Goldwyn-Mayer Preston Blair, On Animation, per realizzare i primi rudimentali libretti animati, aiutandosi con la cinepresa Super 8 di un amico. E poi scopre che CalArts, l’abbreviativo con cui si indica il California Institute of the Arts, sta organizzando un nuovo corso ad hoc di animazione tenuto da tre dei “Disney Nine Old Men”, le matite artefici dei successi cinematografici della casa da Biancaneve (1937) a Le avventure di Bianca e Bernie (1977). È il secondo studente a iscriversi in assoluto. Al CalArts rimarrà quattro anni, e con lui a imparare il mestiere ci saranno compagni di classe che acquisiranno un certo peso: Brad Bird (Gli incredibili, Ratatouille), John Musker (La sirenetta, Aladdin, Hercules), Chris Buck (Tarzan, Frozen) e un certo Tim Burton.

Nell’estate del 1979, la Disney è arrivata a valutare più di diecimila curricula di aspiranti animatori: ne selezionerà solo 150, assumendone poi 45. Quasi uno su mille ce la fa, ma John Lasseter, già oggetto di precoci lodi per il suo progetto universitario Lady and the Lamp (un breve sketch di una lampada che cade e non ritrova la sua lampadina), ovviamente ce la fa. In quel periodo l’animatore Disney Mel Shaw dirà al Los Angeles Times che quel ragazzo ha “un senso istintivo per il carattere e il movimento e mostra ogni indicatore di chi sboccerà qui ai nostri studios”. Parole lungimiranti, ma anacronistiche. 

Scoperte e ripartenze

Perché intanto il golden boy scopre quasi per caso il mondo dei computer: mentre lavora al Canto di Natale di Topolino, uno dei due titoli che lo vedono tra gli autori nel suo primo periodo disneyano (l’altro è il classico Red e Toby nemiciamici), gli amici Bill Kroyer e Jerry Rees gli mostrano un film in lavorazione in quel periodo, Tron, dove la Cgi fa il suo primo vero debutto in un lungometraggio. Lasseter è estasiato, e si convince presto che i computer sono la soluzione all’antico sogno proibito di ogni animatore: realizzare storie in tre dimensioni.

Con il collega character animator Glen Keane e il dirigente Thomas Wilhite realizza un primo test di una resa in computer grafica soddisfacente de Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, rendendolo presto il progetto a cui dedicarsi a tempo pieno. Poi però qualcosa si incrina nel quartier generale di Topolino: Lasseter racconterà che in un impeto di entusiasmo giovanile metterà involontariamente i piedi in testa ai suoi superiori, i quali per tutta risposta cancelleranno la lavorazione e, per bocca del responsabile del settore animazione Ed Hansen, diranno al talento precoce di levare le tende. “Beh, John, ora il tuo progetto è terminato, e con esso anche il tuo impiego ai Disney Studios”, ricorda di essersi sentito dire il futuro capo di Pixar. È il 1983, alla radio passa Thriller di Michael Jackson, i ragazzini impazziscono per He-Man, un attentato all’ambasciata americana in Libano uccide più di trecento persone, e John Lasseter deve ricominciare daccapo.

Lo fa facendosi contatti alla Lucasfilm, la casa di produzione del regista di Star Wars George Lucas, e in particolare alla sua futuristica divisione Cgi, ribattezzata Lucasfilm Computer Graphics Group. Si crea una joint venture: gli informatici della Lucasfilm gli insegnano a usare i software della grafica computerizzata, e lui insegna a loro l’animazione dei personaggi. Alla fine dell’anno produce già il suo primo corto (anzi, cortissimo: dura due minuti) in computer grafica: The Adventures of André and Wally B, un cartone animato con protagonista un simil-Topolino e un calabrone, ideato per i figli (che però ne saranno spaventati). Poi entra in pianta stabile nella squadra, trovando una nuova casa. Nel 1986 la divisione Lucasfilm Computer Graphics è comprata da un altro californiano con una certa idea del futuro, il manager di Apple Steve Jobs, e diventa un nome che oggi conosciamo tutti, dall’Alpe alle Piramidi, e dal Manzanarre al Reno, un sinonimo accettato di cartone animato di un certo tipo: Pixar. 

Toy Story è una storia coinvolgente, sensibile e che nessun bambino degli anni Novanta ha dimenticato. Il compianto Steve Jobs, lodandone le tecniche di produzione, dirà: “Non è soltanto che le immagini sembrano fighe: i personaggi prendono davvero vita, il che è il nocciolo di ciò che fa l’animazione”.

Nei suoi primi anni, la Pixar è più che altro uno studio che sviluppa e vende software per l’animazione computerizzata, producendo qualche spot e alcuni cortometraggi (bisogna citare Tin Toy, un altro progetto di Lasseter, che gli vale l’Oscar al Miglior cortometraggio animato nel 1988 e attenzione: il protagonista è un giocattolo senziente). Nel 1991 però la casa inizia a produrre film per Disney, e la sua nuova stella può iniziare a brillare: dopo quattro anni di lavoro e 800mila ore al computer, nel 1995 esce nelle sale Toy Story, il film campione d’incassi dell’anno, oltre che un titolo di importanza difficilmente pareggiabile per almeno due generazioni di spettatori. John Lasseter, che ne è il regista, l’ha reso il primo film della storia del cinema interamente realizzato con l’ausilio di software di grafica. E il risultato è una storia coinvolgente, sensibile e che nessuno di noi bambini degli anni Novanta ha dimenticato. Il compianto Steve Jobs, lodandone le tecniche di produzione, dirà: “Non è soltanto che le immagini sembrano fighe: i personaggi prendono davvero vita, il che è il nocciolo di ciò che fa l’animazione”.

Ascesa e allontanamento

È l’inizio di una walk of fame senza precedenti non solo nel mondo dei cartoni animati, ma in quello del cinema in generale: negli anni seguenti John Lasseter dirigerà successi come A Bug’s Life (1998) e Cars (2006), producendo, tra gli altri, Monsters & co. (2001) e Alla ricerca di Nemo (2003). Nel 2006 rientrerà dalla finestra da cui era stato defenestrato, quando Disney decide di comprare Pixar, e diventerà il responsabile anche dei Walt Disney Animation Studios, producendo nuovi capolavori noti a qualunque latitudine: Up (2009), Toy Story 3, il primo film d’animazione a incassare più di un miliardo di dollari (2010), Frozen, il film d’animazione di maggior successo della storia (2013) e Inside Out (2015). Il nome di John Lasseter è scolpito nella pietra: degli otto lungometraggi animati che hanno raccolto più di un miliardo ai box office, addirittura cinque portano la sua firma. A Hollywood il suo volto è sinonimo di computer grafica e vertice dell’animazione per bambini.

Insomma, tutto va bene. Se non fosse che, come sa il suo cowboy Woody, “è già tempo di accorgersi che / tanto bene non va”. A novembre 2017, nel pieno dei rivolgimenti del movimento #MeToo, che espone e si ribella a decenni di molestie e comportamenti sessisti in nome della parità di genere, dei dipendenti anonimi di Pixar lo accusano di comportamenti inappropriati che comprendono “afferrare, baciare e fare commenti sull’aspetto fisico” altrui. Secondo Variety, il penchant di Lasseter per l’intimità non richiesta era così noto che la stessa Pixar si serviva di “balie che potessero mettere le briglie ai suoi impulsi”. A giugno 2018, per la seconda volta nella sua storia, Disney rendeva ufficiale che John Alan Lasseter avrebbe lasciato l’azienda, mentre lui diffondeva un comunicato non diverso da tanti altri visti in quegli anni, in cui parlava di “passi falsi” e “conversazioni dolorose” con i dipendenti.

Dopo il classico anno sabbatico passato lontano dai titoli dei giornali, il regista e produttore è diventato il responsabile di Skydance Animation, una società di effetti speciali di altra pasta rispetto ai fasti Pixar, che ultimamente abbiamo visto all’opera in titoli come Top Gun: Maverick, Mission: Impossible – Fallout e Star Trek Beyond. John Lasseter ha 65 anni, vive a Glen Ellen, in California, con la moglie Nancy, conosciuta a una conferenza di computer grafica nel 1985, conduce un’azienda vinicola familiare, la Lasseter Family Winery, ha una bizzarra collezione di migliaia di camicie hawaiane. Un’indagine interna di Skydance di qualche anno fa ha rivelato che non è stato oggetto di nessuna denuncia o segnalazione ufficiale di comportamenti inappropriati a Pixar, né ha siglato accordi riservati e risarcimenti con vittime non identificate. Viene da chiedersi se ha davvero pensato a tutto ciò che ha fatto, nel bene e nel male. Per sapere cosa gli passa per la testa bisognerebbe chiedere a una piccola equipe di personaggi colorati che abitano nei recessi psichici del suo cervello: ma anche a questo, inutile dirlo, ha già pensato lui.


Davide Piacenza

Scrive di attualità e cultura. Ha lavorato nelle redazioni di Rivista Studio, Forbes e Wired. La sua newsletter Culture Wars racconta e analizza ogni settimana i casi in cui i nuovi codici sociali e i discorsi intorno al politicamente corretto riplasmano il mondo in cui viviamo.

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