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Il paradosso del giovane conduttore

Le polemiche per il programma di Alessandro Cattelan su Raiuno nascondono in realtà una questione più grande: nei volti della tv è mancato il ricambio generazionale. E le responsabilità sono molte.

Nel 1998 fece il suo debutto sull’allora Rete A/Mtv un programma intitolato Tokusho: era una specie di talk show surreale, ideato e condotto da Andrea Pezzi, al tempo venticinquenne ma già da un paio di anni volto di punta della versione italiana della rete musicale. Fra i vari personaggi che lo circondavano, da un già istrionico Morgan al cantautore e attore Mao, c’era anche uno sconosciuto Francesco Mandelli: diciannovenne cresciuto nella provincia di Lecco, fu scelto “a scatola chiusa”, come disse poi, dallo stesso Pezzi, che lo lanciò in veste di spalla improbabile e straniante. Viso imberbe e spigoloso, Mandelli dimostrava ancora meno della sua età ma risultava al contrario “vecchio dentro”: lo straniamento stava proprio nel fatto che da quel ragazzino così gracile e innocuo venissero parole fra il saggio, il cinico e l’assurdo, in un registro molto più serioso dei suoi colleghi più grandi di lui. Per tutti questi motivi fu soprannominato il Nongiovane, o Nongio, come sarà ricordato anche anni più tardi quando divenne a sua volta uno dei vj principali di Mtv.

Oggi Mandelli, dopo anni di svariate attività (dall’esperienza de I soliti idioti con Fabrizio Biggio ad alcune tappe al cinema), è al timone di Honolulu, nuovo contenitore comico di Italia 1, mentre Pezzi, dopo diversi titoli forse meno originali presentati in Rai e Mediaset, è diventato un imprenditore in campo digital. La loro esperienza, però, e anche quest’etichetta geniale e paradossale – Nongiovane – rimangono impresse nel profondo nel tessuto anagrafico della televisione italiana, soprattutto in un momento, oggi, in cui ci rendiamo conto di una situazione altrettanto paradossale: i presentatori giovani nella tv italiana sono per lo più rari, marginali, poco redditizi. 

Non è una televisione per giovani

Da una veloce scorsa ai palinsesti delle principali emittenti il quadro è piuttosto eloquente: il sabato sera è conteso fra Maria De Filippi che ha 59 anni e Milly Carlucci che ne ha 66, campioni di ascolti come Carlo Conti e Fiorello si attestano rispettivamente su 60 e 61 anni, nel daytime dominano personaggi come Antonella Clerici (57 anni) e Barbara d’Urso (64 anni), Gerry Scotti (65 anni) e Paolo Bonolis (60 anni), mentre il mattatore di Sanremo degli ultimi anni, Amadeus, colui che ha “svecchiato” la kermesse musicale parlando a un pubblico cresciuto negli anni Novanta e molto attivo dal punto di vista degli ascolti musicali contemporanei, ha “solo” 59 anni. Sulla rilevanza del dato anagrafico di per sé si dirà più avanti, la fotografia rimane abbastanza nitida: non tutti questi conduttori parlano necessariamente ai loro coetanei, anzi nel puro spirito della tv generalista allargano il più possibile il target potenziale, ma sono comunque espressione di un sistema piuttosto conservativo.

Come da Dna stesso della tv tradizionale, i volti longevi rassicurano, diventano punti di riferimento, sono più accessibili e digeribili. Ecco che assistiamo a caselle nei palinsesti che si svuotano e riempiono con quasi sempre le stesse facce, format che continuano per anni (meglio, decenni) invecchiando assieme al pubblico e a chi li presenta. In un momento storico in cui gli investimenti pubblicitari e di conseguenza i budget produttivi si assottigliano si tende ad andare sul sicuro: stessi programmi, stessi pubblici, stessi volti e stesse alternanze in palinsesto. Fino a qualche tempo fa un decano della tv italiana come Pippo Baudo (classe 1936) si lamentava periodicamente sui giornali di come i dirigenti Rai lo considerassero ormai troppo vecchio per condurre programmi di punta e altrettanto ciclicamente era chiamato a Domenica In o in qualche prima serata amarcord. Ora questo non accade più da un po’, eppure un vero rinnovamento del parco conduttori più generale non c’è stato.

Carne fresca

Negli ultimi anni abbiamo assistito anche a grandi lutti nel mondo della televisione, proprio legati a visi a cui gli spettatori italiani erano affezionatissimi: la scomparsa di nomi clamorosi come Fabrizio Frizzi e Raffaella Carrà ha riempito di profonda commozione il pubblico, a ulteriore testimonianza della familiarità di molti nomi televisivi. A fronte di facce usuali e adorate, da quasi vent’anni in tv i protagonisti giovani, davanti alla telecamera, sono rari e spesso invece usati come token in sapienti equilibri di casting. Nel senso che compaiono in qualche talk show o nei reality in quota young, quasi espressione di un mondo lontano e alieno. Paradossalmente (perché di paradossi questa analisi è zeppa) la tv è piena di carne fresca: sono i concorrenti dei talent, che affollano, un po’ cannibalizzati, i programmi di punta giusto per il tempo di essere giudicati da vari veterani del mondo dello spettacolo e prima di scomparire in caso di mancato subitaneo successo, per lasciar spazio a concorrenti possibilmente ancora più giovani (la Gen Z è lì che avanza).

Come da Dna stesso della tv tradizionale, i volti longevi rassicurano, diventano punti di riferimento, sono più accessibili e digeribili. Ecco che assistiamo a caselle nei palinsesti che si svuotano e riempiono con quasi sempre le stesse facce, format che continuano per anni (meglio, decenni) invecchiando assieme al pubblico e a chi li presenta. In un momento storico in cui gli investimenti pubblicitari e di conseguenza i budget produttivi si assottigliano si tende ad andare sul sicuro.

Ma cosa frena esattamente questo rinnovamento dei volti televisivi? Forse questo è un falso problema, nel senso che non c’è una precisa volontà (di qualche direttore di rete, di qualche oscuro dirigente) di censurare chi ha meno di 50 anni. Piuttosto, ci sono nuove proposte che sono di rado testate sul tubo catodico ma sono nella maggior parte dei casi rigettate dal pubblico italiano: in un sistema televisivo sempre più povero (di soldi e di idee) ciò che non mostra di funzionare subito è abbandonato con altrettanta foga, passando subito al tentativo successivo o ancora meglio tornando nei ranghi. Salvo qualche rarissima eccezione (la più eclatante è forse Costantino della Gherardesca, anche lui estroso caso di giovane non-giovane passato con estro e caustica originalità da Markette a Pechino Express), se pensiamo alla tv degli ultimi decenni vediamo una sequela di promesse mancate: Francesco Facchinetti, fuori dal rituale super incardinato di X Factor, non è riuscito a imporsi abbastanza a lungo, mentre – per fare un altro esempio – Federico Russo è stato quasi bruciato (televisivamente parlando) dall’accoppiata con Flavio Insinna nel fallimentare Dieci cose nel sabato sera di Raiuno (era il 2016).

L’ultimo caso piuttosto clamoroso e che ha risvegliato tutto il dibattito generazionale sulla nostra tv è quello di Da grande (titolo a sua volta generazionale) di Alessandro Cattelan. Dopo i fasti rassicuranti e di nicchia di X Factor su Sky, dove ha dimostrato anche di saper forgiare a sua immagine e somiglianza un late night come E poi c’è Cattelan, il presentatore quarantenne (41enne, per la precisione) ha accettato la scommessa della prima serata di Raiuno, forse con un programma che aveva bisogno di un respiro più ampio e forse sopravvalutando la propria notorietà rispetto al grande pubblico. Risultato: due serate al 12%, che i commentatori e gli utenti dei social non hanno tardato a bollare come fallimento senza scampo. Se da una parte si può tranquillamente parlare di livore e Schadenfreude eccessivi, dall’altro è innegabile che alcuni errori tecnici e narrativi eclatanti di quello show, comunque dall’altro budget e molto “pompato” a livello di comunicazione, hanno contribuito a raggelare l’interesse verso l’effetto novità. Come al solito, però, si getta il bimbo con l’acqua sporca e un’esperienza potenzialmente dirompente (così come sicuramente migliorabile) diventa ulteriore pretesto per restare nei ranghi e rinunciare alle novità. Il caso di Cattelan è esemplare anche di un’altra faccia della medaglia: non è solo il sistema tv alla fonte che dà raro spazio ai giovani, è lo stesso pubblico a rigettare con grande rapidità ogni tentativo di eterodossia: “inadatto”, “montato”, “sconosciuto”, “egoriferito”, si leggeva sui social, senza possibilità di appello. 

Generazione Mtv

Facendo un passo indietro è interessante notare che Pezzi, Mandelli, Russo e anche Cattelan hanno qualcosa in comune: sono tutti passati per Mtv. La Mtv generation dei vj italiani è stata ricca di volti interessanti e innovativi, tutti dotati di grandi personalità e potenzialità. Oltre vent’anni dopo viene da dire che a quello slancio è seguito una specie di istinto infanticida piuttosto generalizzato: di tutti quei volti, molti hanno cambiato mestiere (Giorgia Surina è in radio, Valeria Bilello e Enrico Silvestrin recitano), altri sono risusciti a ritagliarsi posti laterali nei palinsesti (Camila Raznovich, Daniele Bossari, Marco Maccarini), altri ancora sono stati quasi tagliati fuori (in molti si chiedono perché da anni Victoria Cabello non abbia un programma, per esempio, anche se ora una buona chance verrà dalla partecipazione come concorrente alla prima edizione Sky di Pechino Express). Chi è cresciuto con i loro programmi musicali si sarebbe aspettato di vederli dove ancora oggi invece dominano i veterani. 

In un sistema televisivo sempre più povero (di soldi e di idee) ciò che non mostra di funzionare subito è abbandonato con altrettanta foga, passando subito al tentativo successivo o ancora meglio tornando nei ranghi. Se pensiamo alla tv giovane degli ultimi decenni vediamo una sequela di promesse mancate.

È anche vero che un mancato ricambio generazionale deriva proprio dal destino più contestuale delle cosiddette reti giovani. In un mercato televisivo sempre più incerto e risicato, abbiamo assistito negli scorsi decenni a un depotenziamento progressivo delle emittenti che si rivolgono a fasce d’età inferiori: Italia 1, Raidue e la stessa Mtv hanno subito grandi tagli ai budget, riempiendosi di titoli preconfezionati (serie, reality e factual di importazione), perdendo quella funzione di oasi di sperimentazione e fucina di talenti che avevano ricoperto negli anni Novanta e nei primi Duemila. Avendo aspettative di audience minori, quelle reti potevano permettersi format più audaci e volti ancora non del tutto rodati. I fautori di un lieve ricambio avvenuto negli ultimi anni (lo stesso Amadeus, ma anche Michelle Hunziker, Alessia Marcuzzi, Vanessa Incontrada, Enrico Papi, Federica Panicucci, e così via) avevano fatto in tempo a fare una lunga gavetta proprio in questi palinsesti giovanili. 

Un meccanismo inceppato

Reti musicali, giovanili, a volte satellitari: i presentatori giovani di cui abbiamo parlato finora sono cresciuti quindi in alvei protetti, con le loro precise peculiarità e originalità rispetto a quella che è considerata la tv generalista più pura. Prima di passare da Raidue a Raiuno o da Italia 1 a Canale 5, per esempio, nei decenni passati i conduttori dovevano affiancare a una rodata gavetta anche qualche timido tentativo in sordina sulle reti ammiraglie prima che gli venisse affidata la grande chance. Di recente questi passaggi intermedi sono saltati, con il risultato di proiettare volti nuovi in fasce di programmazione di cui non hanno saputo interpretare fino in fondo le ritualità e i meccanismi: non si può fare il vj di Mtv su Canale 5, così come non si può fare il late night nella prima serata di Raiuno. Che sia peccato di presunzione o volontà di portare avanti un proprio preciso progetto televisivo, non adatto però a tutte le latitudini del palinsesto, questo è tutto da definire.

Nel frattempo, mentre molte “nuove” proposte cercano una propria identità digeribile dai grandi numeri, il pubblico davvero giovane corre il rischio di disinnamorarsi progressivamente della televisione tradizionale: programmi-evento come Sanremo, esperimenti riusciti come Il collegio, certi reality di Discovery e soprattutto format d’intrattenimento “largo” come Amici testimoniano che i giovanissimi stanno ancora davanti al teleschermo, anche se spesso sono avvertiti come più difficili da agganciare con costanza e continuità, di fronte soprattutto ad alternative che paiono più istantanee come le piattaforme streaming e i social. Proprio da lì si cerca timidamente di pescare i conduttori davvero nuovi quando si vuole svecchiare qualche progetto: da Riccanza (sempre su Mtv) e dal mondo degli influencer viene Tommaso Zorzi (26 anni), che ora produrrà e condurrà Drag Race Italia su Discovery+, mentre dalle serie teen dei vari streaming proviene Ludovico Tersigni (anche lui 26 anni), erede proprio di Cattelan a X Factor. Qua e là ci sono altri timidi tentativi più “organici”, per così dire, come Serena Rossi (36 anni) e Stefano De Martino (32 anni), ma i casi non superano le dita di una mano.
Non che questa sia una tendenza sola italiana: negli Stati Uniti, per fare un esempio, lo scorso novembre è morto dopo una strenua lotta contro il cancro Alex Trebek, ottantenne conduttore dello storico quiz Jeopardy!, che aveva condotto per 37 stagioni; avendo un contratto fino al 2022, nessuno aveva pensato a un suo sostituto e ancora oggi si va avanti con guest host a rotazione. Ovviamente, in questo caso come in altri, il dato anagrafico di per sé non è così importante: ci possono essere autori e conduttori che parlano benissimo a un pubblico giovane anche se la loro carta d’identità dice altrimenti (e viceversa). Si tratta però anche di mettere in campo un modo ben preciso di percepire e raccontare il mondo, in una società in cui esiste uno scollamento sempre più grande non solo fra giovani e adulti ma anche all’interno delle stesse fasce d’età più basse (oggi 15enni, 25enni e 35enni parlano linguaggi del tutto diversi). E si tratta anche di pensare al futuro stesso della tv generalista, che resiste (e piuttosto bene) all’arrembaggio delle nuove piattaforme e dei concorrenti digitali perché di fatto ci sono ancora pubblici che sono cresciuti con essa e, invecchiando, prendono il posto dello zoccolo duro dei decenni precedenti. Ma cosa succederà quando il pubblico di riferimento dovrà essere chi la tv lineare non l’ha mai accesa? Temi questi che ovviamente sono molto più grandi di una singola generazione di conduttori, ma sui quali un discorso ampio e sensato sulla questione della rappresentatività e dell’appetibilità anagrafica andrà prima o poi fatto. In attesa del prossimo Nongiovane.


Paolo Armelli

Laureato in Lettere Moderne, prestato alla pubblicità, scrive online di libri, moda, media e altre amenità. Ha un blog (liberlist.it).

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