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Visual album

La coolness del visual album

Film per lanciare nuova musica. Star come Janelle Monàe, Kanye West e Beyoncé ne stanno facendo un oggetto di tendenza, ma la storia del genere è già molto lunga.

In un domani più prossimo di quanto vorremmo, gli esseri umani saranno considerati alla stregua di calcolatori imperfetti e, come tali, sottoposti a periodiche operazioni di pulizia della memoria. È quanto accade a Jane 57821, trascinata negli ambienti asettici della White House of Dawn dove si esegue il trattamento “Nevermind”. Al di là del vetro, due addetti in camice bianco selezionano e cancellano uno per uno i ricordi della paziente da un touch screen. Mentre sono visualizzate sul display, ci accorgiamo che ogni reminiscenza ha una canzone a mo’ di colonna sonora, la sua brava coreografia e persino qualche “glitch” elettronico a disturbare l’immagine, come in una rotazione di vecchi video musicali.

Questo è pressappoco ciò che si vede in Dirty Computer, il video da 45 minuti interpretato, diretto e prodotto da Janelle Monàe, superaccessoriata diva dell’R’n’B – colei che, per intenderci, può vantare la benedizione e collaborazione di Prince poco prima che questi abbandonasse le spoglie terrene. Caricato la scorsa primavera sul canale YouTube della Warner, ha completato l’uscita del nuovo album dallo stesso titolo con un corredo iconografico fedele all’immaginario cyber-queer dell’artista afroamericana. Lei lo chiama “emotion picture”, noi parleremo più prosaicamente di “visual album”, a indicare quell’oggetto non-identificato del mercato discografico contemporaneo che sta attirando attenzioni illustri. Si tratta, a grandi linee, di lungo o medio-metraggi prodotti e distribuiti in concomitanza con l’uscita di un LP del quale riprendono (in tutto o in parte) i contenuti musicali. Forme e finalità però possono variare caso per caso. Nel 2009 un Kanye West già pronto a sfoggiare le sue velleità da Terrence Malick in salsa hip hop si vide sforbiciare il suo Runway dalla casa discografica a 32 minuti per “sole” nove canzoni. Al contrario Trapped in the Closet di R. Kelly nacque da una suite in cinque episodi in coda all’album TP.3 Reloaded per poi assumere vita propria e prolungarsi per 33 capitoli di un “hip-hopera” che, tra edizioni in streaming e dvd, ha vissuto di continui aggiornamenti nel periodo tra il 2005 e il 2012.

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Erased memories

La casistica è folta, ma l’episodio che più ha contribuito a far parlare del visual album appartiene alla produzione di un’altra diva della black music, Beyoncé, che intorno al suo Lemonade (Columbia 2016) ha cucito un elegante cine-memoir sulla sua infanzia di nera americana, trasmesso in anteprima nientemeno che da Hbo. Quell’anno Mtv ha introdotto nel palmares dei Music Video Awards del 2016 un premio per la categoria Breakthrough Long Form Video che pareva fatto apposta per premiarla. Da allora critici e beninformati in rete e sulle testate giornalistiche hanno fatto a gara a salutare l’avvento di un nuovo linguaggio audiovisivo destinato a rinnovare i fasti del cinema sperimentale o a restituire al video musicale la centralità artistica e commerciale che ha perduto nel tempo.

È a questo punto che la nostra storia comincia ad assomigliare allo scenario disegnato da Dirty Computer, quello cioè di un futuro che mette al bando i ricordi. L’idea di un omologo visivo per il long playing musicale è tutto fuorché una novità: già nel 1991 gli stessi Video Music Awards avevano istituito un premio per il Best Long Form Video; quasi dieci anni prima, nell’82, i Grammy introducevano un riconoscimento al miglior video musicale dell’anno che contemplava anche i lungometraggi, poi confluiti sotto una voce a sé intitolata Best Video Album e, successivamente, Best Long Form Music Video. Sono tracce che l’“oggetto non identificato” che oggi pervade le piattaforme digitali aveva già fatto capolino in era analogica: è un rimosso storico, un piccolo fallimento di quella che la studiosa Amanda D. Lotz ha definito la “transizione multicanale”, il periodo che tra i tardi anni Settanta e i primi anni Novanta vede la moltiplicazione dei canali via cavo e l’introduzione di dispositivi accessori come il telecomando, il videoregistratore e le consolle per videogiochi e nuove alleanze strette tra il televisore e le altre tecnologie che abitano i nostri salotti.

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Video/Disco ’80. Convergenze parallele

I think this is the way albums will go in the future: visuals with the music.

Olivia Newton John

“È ridicolo pensare di avere a disposizione due forme di intrattenimento, lo stereo e la tv, che non hanno nulla a che spartire l’una dall’altra. Ciò che stiamo cercando di fare è ‘sposarle’ perché possano lavorare all’unisono. Il nostro è il primo tentativo di dare al televisore una mansione che non sia quella da schermo per un videogame e o di canale per la trasmissione di dati. Stiamo pensando usare due tecnologie già esistenti per dare vita a una forma nuova”. Con queste parole nel 1981 Robert Pittmann, vicepresidente di Mtv Usa, introduceva le trasmissioni del nuovo canale via cavo interamente dedicato alla rotazione musicale. Ragionando con il senno di poi, la sua scommessa può dirsi vinta: per più di vent’anni l’emittente avrebbe effettivamente unito i destini dei settori discografico e televisivo in una fruttuosa convivenza, dando i natali quella “nuova forma” promozionale e artistica che chiamiamo videoclip. E se lo sposalizio tra stereo e televisore consacrato da un canale via cavo poteva nascere una radio-per-immagini, nulla impediva di pensare che la stessa unione potesse partorire anche un disco-per-immagini da far “girare” sul piccolo schermo.

Proprio nei giorni in cui Mtv inaugura le sue trasmissioni si comincia a parlare insistentemente di “videodisco” e di “televisione a 33 giri” per indicare diversi standard di registrazione ottica di suoni e immagini che impiegano l’incisione a microsolco. Dopotutto, al contrario del cinema, la musica era un prodotto che si “consumava in casa” fin dall’inizio del secolo e non c’è da meravigliarsi che alcune soluzioni proposte per la visione domestica ricordassero da vicino i famigliarissimi “padelloni” in vinile. Nel caso del Capacitance Electronic Disk (Ced), messo sul mercato dalla Radio Corporation of America nel 1981 dopo un periodo di incubazione di oltre vent’anni, si parla di un disco a 12 pollici e di relativo lettore a puntina di zaffiro (Selectavision) simile in tutto a un giradischi. I modelli concorrenti del Visc, sviluppato dalla giapponese Matsushita, e del Discovision progettato da Mca e Philips optano invece per un più avveniristico sistema di lettura tramite raggio laser mantenendo però la forma a 12 pollici e la struttura a doppia facciata. In tutti i casi, quello che avrebbe dovuto rendere il videodisco superiore alle alternative magnetiche (le videocassette Sony e Jlv erano già in commercio dalla metà degli anni Settanta) era una migliore qualità delle immagini e del suono.

Negli anni successivi i diversi modelli di videodisco si daranno battaglia soprattutto per accaparrarsi i diritti di riproduzione delle grandi case cinematografiche, ma la tentazione di piazzarsi sugli scaffali dei collezionisti di Lp è forte: “Ma il consumatore sarà interessato a possedere tutti i video in una sola confezione? […] Vorrà suonare e risuonare un programma videomusicale così come fa ora con un Lp?”, si chiedeva un numero di Billboard del 1981. Su questo punto le opinioni delle popstar divergono. Il partito degli scettici, rappresentato da Bob Geldolf, scommette che “la gente si stancherà della parte visiva molto prima che di quella sonora. Se dovessi guardare quel che fa un musicista per più di un’ora mi annoierei a morte” – un parere curiosamente severo da parte di chi, da lì a breve, vestirà i panni del protagonista della versione cinematografica di The Wall dei Pink Floyd e soprattutto costringerà gli spettatori da entrambe le sponde dell’oceano ad assistere a ore di diretta satellitare per il Live Aid. Sul fronte opposto, qualche tecno-entusiasta abbraccia le possibilità aperte dai nuovi mercati. Complici i successi d’alta classifica già collezionati, i Blondie riuscirono a farsi finanziare un video per ciascuna traccia del loro nuovo album Eat to the Beat (Chrysalis, 1979) raccolti e pubblicati l’anno successivo in formato Vhs e Selectavision. Lungo le dodici “fantasie visive” che ne compongono la scaletta, Debbie Harry passa dal vestire i panni della signora in nero che ringhia su The Hardest Part a quelli della bionda sciantosa di Sound-A-Sleep. Una simile prova di eclettismo ispirerà l’opera di un’altra diva del pop sintetico: Physical, edito dalla Mca in Vhs Betamax e Laserdisc, è il completamento visivo del bestseller di Olivia Newton John. Dopo aver salutato l’arrivo del “decennio di plastica” infilata nella tuta da aerobica di Let’s Get Physical, l’attrice-cantante approfitta delle capacità del Long Playing per passare in rassegna tutte le sfaccettature della sua personalità pubblica, ripescando anche i brani dalle colonne sonore anche dai recenti successi di botteghino, come Grease e Xanadu.

A quest’altezza il videoalbum funge dunque da portfolio elettronico per il divo di turno, ma lascia spazio anche a chi osa un po’ di più sul piano concettuale. Michael Nesmith, fondatore dei Monkees, il primo complesso musicale costruito a favore di telecamera, intravede nel nuovo supporto un rinnovato interesse per la musica-per-immagini e la possibilità di un ritorno in video. Si inventa quindi un “programma musicale” intitolato Elephant Parts, dove videoclip per i suoi brani inediti si alternano a sketch comici e parodie di spot pubblicitari di sua invenzione. Il progetto era già passato dalle scrivanie di vari direttori di rete come format tv, ma senza seguito; Nesmith ne fa quindi un “concept” a sé da vendere esclusivamente per i circuiti homevideo. I risultati a gli danno ragione. Elephant Parts sarà il videodisco più venduto del 1982 subito dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo e Star Wars, con tanto di riconoscimento ai Grammy Awards dello stesso anno. Per il songwriter, che a questo punto si erge a ideologo del “passaggio al video”, è una questione di selezione naturale: “Molti artisti non sembrano in grado di concepirlo come una forma d’arte. Il loro atteggiamento è incredibilmente miope. Le conseguenze dell’esplosione del video saranno enormi, e chi non reagisce ora è destinato a essere lasciato indietro”. Per tutti gli altri, in compenso, si aprono praterie sconfinate: gli addetti delle case produttrici congetturano un prossimo futuro dove, grazie al videodisco, ogni artista potrà materializzarsi olograficamente davanti allo spettatore e ogni spettatore potrà cambiare i performer sullo schermo così come cambia canale. “Supponiamo – dichiara Alvin Toffler della Rca – che io stia vedendo un videodisco dove i Rolling Stones cantano una canzone, ma che esista un altro video in cui la stessa canzone viene eseguita da un altro gruppo. In futuro potrò decidere di sostituire Mick Jagger con un altro frontman e continuare ad ascoltare lo stesso pezzo suonato da una band che ho inventato io”. Niente pare impossibile per i “visionari del disco” dei primi anni Ottanta.

Si aprono praterie sconfinate: gli addetti delle case produttrici congetturano un prossimo futuro dove, grazie al videodisco, ogni artista potrà materializzarsi olograficamente davanti allo spettatore e ogni spettatore potrà cambiare i performer sullo schermo così come cambia canale.

Supporto e formato, memoria e abitudine

Ora, se non ricordate di esservi mai accomodati in poltrona a “guardare un album” non è perché anche voi avete subito un’operazione di cancellazione della memoria come la povera Jane 57821. Più banalmente il videodisco analogico non ha mai preso piede, né come supporto per contenuti audiovisivi né come prodotto dell’industria musicale. La video-musica che tutti ricordano resta quella dei clip, secondo il modello che ha storicamente prevalso e che è stato reso popolare da Mtv; ironicamente, proprio quando quest’ultima ha smesso di essere una tv musicale in senso stretto, i video hanno preso ad allargarsi al di fuori dai palinsesti televisivi e ad allungarsi nel minutaggio.

Interrogarsi sulle ragioni di questo piccolo paradosso significa andare a diversi toccare aspetti del radicale cambiamento subito dal mercato musicale negli ultimi vent’anni. Da un lato il rovello dei discografici sulla disponibilità del consumatore ad acquistare un disco-per-immagini non ha più ragion d’essere: a parziale eccezione del caso dei dvd di R. Kelly gli esempi di visual album citati sopra arrivano quasi tutti a mo’ di “gentile omaggio” da parte della casa discografica di turno, resi liberamente fruibili sui canali Vevo, YouTube e simili. Dall’altro lato c’è una promozione musicale imperniata sempre meno sul prodotto in sé e sempre di più sul “marchio d’artista”, che può e deve essere reso visibile all’infuori dai circuiti discografici. Se per pesi massimi come Kanye West o Janelle Monàe si tratta di mettere il nome in calce a due piccoli “kolossal” d’autore (dimostrando così tutta la propria forza contrattuale) altri preferiscono soluzioni a più basso profilo economico ma piazzate strategicamente – vedi i casi di Liars, Dirty Projectors e Animal Collective e altri gruppi indie di stanza a Brooklyn che al visual album sono ricorsi per accreditarsi dalle parti del cinema sperimentale e dell’arte contemporanea.

Da questo punto di vista, la scelta tra partito “concettuale” e “promozionale” che divise gli artisti di fronte dei primi anni ottanta sembra aver trovato un ideale punto di sintesi: il visual album oggi ha il fascino dell’oggetto di lusso, tanto più pregiato quanto meno è necessario, uno “spot di qualità” che solo nomi di una certa levatura possono permettersi. Possiede l’attrattiva un po’ esclusiva del contenuto (eternamente) speciale, anche perché, di fatto, non si sa bene dove contenerlo. In questo suo essere “formato senza supporto” si trova, più che la rivincita, la beffa dei profeti del videodisco, vittime di un miraggio assai diffuso tra chi tenta di immaginare il futuro dei media e che consiste nel dare per acquisito ciò che è solo tecnicamente possibile. Ma il supporto da solo non fa il formato e il fatto che esista un disco in grado di ospitare le immagini oltre ai suoni non comporta necessariamente che domani qualcuno userà il televisore come “un giradischi con schermo” Una dimostrazione inversa ma altrettanto efficace della fallacia di queste profezie sta nella sorte toccata all’Lp, dato per spacciato con l’arrivo della rete e la scomparsa dei supporti fisici, eppure virtualmente ancora vivo e vegeto – già che la stragrande maggioranza della musica pop è tutt’ora organizzata in pacchetti da dodici-quindici tracce ciascuna.

Esiste una memoria insita nelle routine di consumatori e produttori che va oltre quella del semplice supporto: non è “fissata” esternamente, ma riesce a essere inerziale e resiliente quanto basta per prevenire cambiamenti troppo bruschi – anche quando, potenzialmente, nulla osterebbe. Allo stato attuale, il visual album è una reminiscenza che riesce “nuova” proprio perché viene da una pratica mai sedimentata. Se darà adito a una nuova era videomusicale dipenderà unicamente da quanto riuscirà a filtrare la nostra quotidianità. Certo, ridurre il tutto a una “questione d’abitudine” può demoralizzare un tantino gli slanci d’immaginazione futuribile, ma in fin dei conti è proprio grazie alle nostre abitudini che, se un giorno qualcuno venisse a cancellarci tutti i dati che abbiamo registrato nei nostri supporti, potremo comunque sperare di conservare una parte importante della nostra memoria.


Simone Dotto

È assegnista di ricerca post-doc presso l’Università di Udine, dove insegna Storia e tecnica della televisione e dei nuovi media al corso di laurea triennale in DAMS. Ha collaborato per testate culturali, cinematografiche e musicali (Alias, Segnocinema, Il mucchio, Sentireascoltare) ed è autore di saggi e curatele sulla teoria e la storia del cinema, dei media sonori e delle culture dell’ascolto.

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