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Sopravvivenza seriale

Troppe Serie? Speed Watching e Altri Rimedi

Cosa possiamo fare se il tempo per vedere tutte le serie tv in lista d’attesa inevitabilmente manca? Rinunciare al compito. Oppure accelerare la visione.

Vi dico subito come va a finire questa storia. Non è uno spoiler, è quello che può succedere. A tutti. Chiara ha smesso di guardare le serie tv. Si è fatta un ultimo binge e poi – sono passati già sei mesi – nulla più. Ogni tanto scorre la lista lunghissima di serie che non ha mai terminato. Ma non prova alcun rimpianto. Ormai ha deciso. Indietro non torna.

Chiara e gli altri

Chiara, life coach pugliese trapiantata a Bruxelles, conduce una vita normale. Fa cose, incontra gente, esce la sera. Ed è sempre in affanno. I weekend finiscono troppo presto, i libri sul comodino prendono polvere. Su Facebook clicca “mi interessa” per eventi a cui sa già di non poter partecipare. E le serie? Lei è una della vecchia guardia (non nominatele mai mai mai Barney Stinson): prima le guardava per diletto, convinta di poter consumare tutto quello che voleva. Oggi invece una fitta la trafigge ogni qual volta sente parlare della nuova serie “di cui non potrai fare a meno oggi” (non “questa settimana”, o “questo mese”. “Oggi”). Apre i muri social con la circospezione di chi sa di dover rinunciare a un altro pezzetto di spirito del tempo. E intanto gli altri sembrano non avere gli stessi problemi. Riescono a conciliare lavori, famiglie, aperitivi, bambini, gattini, flame e a non perdersi neanche un episodio di niente. O almeno così dicono.

È venerdì, quel famoso servizio streaming (che non nomineremo perché ha rovinato tutto) accorcia ancora un po’ il tempo che ci illudevamo di avere, scaraventandoci addosso altre decine di episodi imperdibili. Ma nemmeno il tempo dell’annuncio e gli altri hanno già finito i compiti, e stanno già surfando sull’onda dell’ennesimo mezzo-drama-mezzo-lol adolescenziale. “Come fanno?”, mi chiede sgomenta Chiara. “Non lo so”, le rispondo. È una domanda che mi pongo anche io. Spesso. Forse hanno molte ferie arretrate. Forse sono ricchi di famiglia (“Nonna, perché non mi hai lasciato anche tu una casa da affittare su Airbnb?”). O forse c’è il trucco. C’è mica il trucco?

Decidere autonomamente come seguire la serie. Soprattutto, senza avere l’impressione di fare qualcosa di sbagliato. Accelerare, rallentare, obbedire alla dittatura della velocità. Mi chiedo se è questo quel che immaginavamo nel 2005 quando cominciò questa storia. È ancora un piacere, guardare le serie?

Confessioni

“Certo che guardo le serie mandando avanti veloce. Scrivilo pure, non ho problemi”, mi dice Alberto, filosofo, parigino d’adozione, padre di famiglia. E appassionato di serie. Come tutti, anche lui è alle prese con rimedi più o meno socialmente accettati per gestire l’abbondanza seriale. Per settimane ho assecondato i miei sospetti di persona orribile chiedendo ad amici e conoscenti se per caso non avessero atti impuri da confessarmi (“A me lo puoi dire, giuro che nel pezzo per Link cambio i nomi”). Per esempio il fatto di usare un po’ troppo liberamente il tasto fast forward per saltare le parti senza dialoghi, o accelerare la visione quel tanto che basta per evitare l’effetto Muppet. Ho ottenuto risposte forse false, ma di sicuro cortesi (“Speed watching? Mai sentito nominare”; “Io? No, io non potrei mai, io rispetto ancora la sacralità dell’esperienza ricettiva”). Alberto è il primo che lo ammette con una serenità che mi fa venire voglia di credere ancora in un mondo migliore. “Troppe serie, troppi podcast, troppi libri, troppa roba”. Lui la chiama “Sindrome Ferrante”, ovvero quella cosa che lo assale quando, per l’ennesima volta, qualcuno nomina L’amica geniale, e lui, che ancora non ha letto la quadrilogia, si ripete che deve farlo. Anche se non ne ha poi così voglia. Io lo considero l’effetto perverso (e senza ritorno) di una pressione sociale che ormai si è presa tutto il nostro tempo, quello che ci sforziamo di rosicchiare per trovare altro tempo: i film di Cannes; i libri candidati allo Strega; le newsletter del sabato mattina; le inchieste del New York Times; i dischi (o come si chiamano oggi) usciti all’improvviso la notte scorsa, senza avvertire. L’obbligo novecentesco di leggere e vedere tutto è stato rimpiazzato dall’obbligo di avere un’opinione su tutto. Non conta sapere dove andremo a finire signora mia, ma capire innanzitutto cosa vogliamo.

“Perché ci ostiniamo a guardare così tante serie?”, chiedo a Guillaume, autore televisivo, non ancora trentenne e zero tendenza a porsi domande. “Dici che sono tante?”, mi risponde senza farmi capire se stia scherzando o meno. “Non saprei, per me ormai è un’abitudine. Guardo tutto quello che posso, a qualsiasi orario. Con il lavoro che faccio, non posso perdermi niente”. Anche lui, sia pure con riluttanza, ammette la visione accelerata. Guilty pleasure o capolavori, poco importa. Mi nomina Westworld, iniziata perché ne parlavano tutti, perché era Hbo. Ma dopo la prima mezz’ora del pilot ha cominciato un doloroso processo di resistenza a un impulso sempre più forte: mandare avanti, “tanto qua non succede niente”. Alla fine ha ceduto, ha saltato qua e là, decidendo autonomamente come seguire la serie. Soprattutto, senza avere l’impressione di fare qualcosa di sbagliato. Accelerare, rallentare, obbedire alla dittatura della velocità. Mi chiedo se è questo quel che immaginavamo nel 2005 quando cominciò questa storia. È ancora un piacere, guardare le serie? Alberto sorride, è meno pessimista di me. “Dipende da quello che cerchiamo. Dobbiamo solo scegliere meglio i nostri consumi culturali”. Lui, per esempio, è fan delle seconde e terze visioni: “Uno dei miei passatempi preferiti è riguardare, mandando avanti a caso, Mad Men o certe comedy. Hai presente il comfort food? Ecco”. Ok, ma come si fa a non farsi travolgere da tutte queste possibilità, dal negozio di giocattoli aperto h24? “Sviluppando al meglio le nostre competenze. Andando subito al sodo delle cose. Lo speed watching serve anche a questo”, mi dice con il tono di chi sa per certo che c’è vita su Marte ma preferisce che tu lo scopra da solo per gustarti meglio la meraviglia.

Esiste dunque un unico modo di guardare una serie? Lo speed watching mette in discussione la visione lineare e passiva, l’idea del “non dover pensare più a nulla”, dal fondo di un divano che ormai ha assunto i contorni dei nostri pigiami. È solo una delle tante pratiche di riappropriazione, autodifesa necessaria in un contesto in cui tutto va a una velocità fuori controllo.

Disubbidienze

Le possibilità per gestire la velocità di riproduzione sono tante, a portata di mano: Vlc e Youtube, per esempio. Oppure Video Speed Controller, un’estensione che si applica a qualsiasi video di qualsiasi pagina internet (quindi anche lo streaming). La premessa (“We don’t read at a constant speed, and we talk much slower than we read – there is no reason why we have to listen at a constant speed and at a very slow rate”) è ambiziosa, seducente. E allora cos’è questo sottile disagio che provo mentre aspetto che finisca il download? Leggo i commenti di alcune tra le centinaia di migliaia di persone che hanno già scaricato l’estensione e la frase più ricorrente è: mi ha cambiato la vita. Addirittura.

Sviluppare nuove competenze. Inizio con il paleolitico (l’episodio in cui Il mio amico Arnold è annoiato e va nella biblioteca del signor Drummond a leggere Orgoglio e pregiudizio. Le scene sono lunghissime, eterne: accelerare non è un’opzione, è obbligatorio). Proseguo con il finale di Parenthood che non avevo mai visto, e poi alternando comedy e drama. Una luce si accende: forse non lo farò mai con i film, o con le serie che veramente mi interessano, ma potrei aver trovato la soluzione per smaltire tutti quei documentari accatastati alla cieca dicendomi “un giorno poi”, i filmati virali e acchiappaclic in cui casco ogni volta. Cerco di capire quale velocità posso gestire senza problemi, e quanto tempo risparmiare: un minuto e trenta secondi può diventare un minuto, e allora moltiplico trenta secondi per dieci, cento, mille e così via. Ho le vertigini. Mi si aprono davanti praterie di possibilità e di efficienza inimmaginabili (forse, mi dico, è questo ciò che si prova quando si scopre di avere un superpotere). Soprattutto, diminuiscono i sensi di colpa. Se certi network televisivi accelerano in modo surrettizio la trasmissione di vecchi telefilm per inzeppare più pubblicità, perché non posso farlo io spettatore? Alberto ha ragione: cambiare serve ad acquisire nuovi talenti. Per me mandare avanti veloce è sempre stato un escamotage per eliminare la pubblicità dai programmi che registravo su Vhs (o per andare al cuore della faccenda di un qualsiasi porno). Ora invece scopro che accelerare amplia il mio spettro di possibilità: mi aiuta a ripensare il mio rapporto con il consumo, a rimanere più concentrato, a sentirmi padrone di quello che sto facendo (e a fare 9 su 9 in questo quiz per solutori abili ed esperti).

Esiste dunque un unico modo di guardare una serie? Lo speed watching, depurato da giudizi più o meno tranchant (“Vergognati, non rispetti l’opera di chi l’ha pensata” “Le pause, i silenzi sono importanti e tu rovini tutto con il tuo egoismo”), mette in discussione la visione lineare e passiva, l’idea (riportata in auge dal famoso servizio streaming che non nomineremo) del “non dover pensare più a nulla”, dal fondo di un divano che ormai ha assunto i contorni dei nostri pigiami. È solo una delle tante pratiche di riappropriazione, autodifesa necessaria in un contesto in cui tutto va a una velocità fuori controllo. Leggere i riassunti su Wikipedia. Farsi raccontare la puntata che “ieri non ho finito di vedere perché mi sono addormentato”. Guardare un episodio in metropolitana, o durante la pausa pranzo, con un tramezzino in mano e il pollice che mette cuoricini a caso su Instagram. Qual è il confine tra giusto e sbagliato? Chi l’ha detto che prima di iniziare la terza stagione di Twin Peaks dobbiamo ripassare come secchioni le prime due, e poi Fuoco cammina con me, gli extra dei dvd, le interviste agli attori e le discussioni sui forum? Magari possiamo riguardare il pilot solo per dire “Uh, guarda com’era giovane l’agente Cooper”, e il resto spingere al doppio della velocità; o fregarcene di ogni ansia da completismo e iniziare direttamente dal famoso ottavo episodio della terza stagione.

Tutto è lecito, a condizione di accettare che il territorio in cui ci muoviamo è definitivamente mutato e che non possiamo più applicare i vecchi schemi. A me è successo con il concetto di spoiler: ho cominciato a mettere in discussione il dogma del “se mi dici come va a finire ti spacco la faccia” e il resto è venuto naturale. Non voglio più vivere l’inferno del giorno dopo, l’ansia di subire un finale di stagione contro la mia volontà (“Ci tieni proprio a farmi sapere che succede a Ciro l’Immortale? Prego, nessun problema”). Speed watching, approccio zen allo spoiler, guardare episodi a caso come si faceva una volta: disubbidire significa non avere più le catene alle caviglie, non sentirsi in colpa “se non sto in pari”, avere una maggiore spendibilità sociale anche se “non sto tutte le notti sveglio ad ammazzarmi di serie”. L’era dell’abbondanza ci chiede di adeguarci: nuove competenze, nuove possibilità, nuove libertà. Anche la più estrema, la più esagerata, paradossalmente già contemplata dalla peak tv: fermi tutti, fatemi scendere. “A un certo punto mi sono accorta che le serie non mi interessavano più. E ho smesso di guardarle”. Non è uno spoiler. È successo a Chiara, può succedere a tutti.


Nico Morabito

Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.

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