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Un Paese per format

Dal format al factual, l’Italia è un mercato accogliente per i format internazionali. E attraverso questi si è costruita una lingua comune dell’intrattenimento nazionale.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017

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Volendo trovare un termine a quo per descrivere le più recenti evoluzioni del rapporto tra politica dei format e costruzione dell’offerta di intrattenimento da primetime per la televisione generalista italiana, si potrebbe pensare al 6 aprile 1991, con l’esordio di Scommettiamo che…? È sabato sera, e per la prima volta Raiuno sostituisce il tradizionale appuntamento festivo del varietà di produzione originale con l’adattamento di un format straniero, il tedesco Wetten, dass…? da Zdf. Il concept di base, concorrenti che si cimentano in prove stravaganti in diretta dal Teatro delle Vittorie o in esterna, intercetta ancora molto bene marche della tradizione nazionale (da Campanile sera in poi), e alla regia c’è un veterano delle produzioni Rai come Michele Guardì (ancora in tandem con Antonello Falqui negli ultimi cascami del varietà classico come Giochiamo al varieté e Al Paradise), ma questo fortunato programma (dieci edizioni fino al 2008) segna un cambiamento di prospettiva di alto valore simbolico: in qualche modo si interrompe un rapporto pluridecennale con il pubblico, basato sulla fruizione di uno “show del sabato sera” interamente originale, sia nella formula creativa sia nella valorizzazione di volti, contenuti, elementi di spettacolo pensati per soddisfare il gusto e l’esperienza nazionali.

Ancora più importante, qualche anno dopo, nel 1994, l’arrivo su Canale 5 di Stranamore: il padre dell’emotional show o people show all’italiana, straordinariamente longevo (14 stagioni ufficiali fino al 2009, sopravvissuto anche alla scomparsa del conduttore storico Alberto Castagna, e una filiazione diretta in C’è posta per te), è un adattamento dell’olandese All You Need Is Love (1992). Curiosamente già declinato in versione iberica l’anno precedente da Antena 3, come Lo que necesitas es amor, anche prima che Telecinco riuscisse a importare in Spagna il modello di entertainment di Mediaset come principale competitor privato proprio di Antena 3. E, recentemente, recuperato da Telecinco come elemento di meccanismo nel contenitore emotional All you need is love… o no, nella primavera 2017.

Un immaginario nazionale basato sui format globali

A Stranamore, soltanto per ricordare i titoli più rilevanti, hanno fatto seguito Non dimenticate lo spazzolino da denti (Canale 5, 1995, da N’oubliez pas votre brosse à dents), Carràmba! (Raiuno, 1995, da Surprise, Surprise), Furore (Raidue, 1997, da La Fureur), Le Iene (Italia 1, 1997, da Caiga quien caiga), Chi ha incastrato Peter Pan (Canale 5, 1997, da Esos locos bajitos). Con l’esclusione dello sfortunato esordio in primetime di Fiorello (reduce del successo di Karaoke), tutti gli altri si sono rivelati show di successo: alcuni, come Carràmba!, hanno acquisito un valore iconico per la televisione italiana, altri sono in onda continuativamente dalla prima edizione (Le Iene), altri ancora sono stati oggetto di revival (Furore, Chi ha incastrato Peter Pan). Che alcuni dei programmi che hanno definito in modo più forte l’immaginario televisivo, e socio-culturale, italiano derivino da format stranieri è stupefacente solo in apparenza, se si pensa che da lì a qualche anno anche le fiction di produzione più esplicitamente indiziarie del nostro sistema-Paese sono il risultato di un adattamento da originali esteri: Un medico in famiglia (1998-, da Médico de familia, Telecinco), Raccontami (2006-2008, Cuéntame cómo pasó, Tve), I Cesaroni (2006-2014, Los Serrano, Telecinco).

La vera invasione dei format internazionali, che ha condotto all’attuale ribaltamento negli equilibri tra adattamenti e produzioni di ideazione originale, è coincisa con l’età d’oro dei reality e talent show, tra i quali vale la pena di ricordare, per salienza o eccentricità: Grande fratello (2000-2015, Big Brother, dal 2016 in versione vip), Survivor (2001, sfortunata anticipazione del modello senza collegamento in diretta né studio, totalmente finalizzato in post-produzione mediante il montaggio), L’isola dei famosi (2003, Celebrity Survivor), Super Senior (2003, straordinaria sperimentazione della coppia Pietro Sermonti-Andrea Salvadori, ma basata su un originale norvegese), La fattoria (2004-2009, Farmen), La talpa (2004-2008, De Mol), Ballando con le stelle (2005-, Strictly Come Dancing), Temptation Island (2005-), X Factor (2008-), Italia’s Got Talent (2009-, Got Talent), MasterChef (2001-, anche nelle versioni Junior e Celebrity), Pechino Express (2012, Peking Express), The Apprentice (2012-2014), The Voice (2013-2016), Tú sí que vales (2014-), Piccoli giganti/Pequeños gigantes (2016-2017), Il collegio (2017, That’ll Teach’em).

La ragione più immediata di questa progressiva colonizzazione del primetime, oltre a una generica tendenza internazionale che incontra il favore trasversale del pubblico, è contenuta nella struttura stessa dei format di talent e reality: in primo luogo il carattere di standardizzazione dei meccanismi e la modularità dei percorsi narrativi, che consente un forte tasso di ripetizione degli elementi, sia in verticale (secondo il modello che ha storicamente consentito l’adattamento dei format di game e quiz show) sia in orizzontale. Parallelamente lavora il carattere anti-nazionale delle ambientazioni: completamente neutre (dai reality di clausura alla standardizzazione degli studi/ambienti per il talent), esotico-
escapiste (i surviving reality show) o basate sulla ricostruzione di uno spazio o di un tempo non naturale o stereotipico. Sul quale inserire facilmente processi di avvicinamento alle singole realtà socio-culturali: la characterizzazione del nip, il vip come traccia indiziaria del sistema divistico (e del discorso sociale fondato sul fandom e sul gossip), l’iconicità sempre più finzionalizzata delle figure di intermediazione (conduttori e giudici).

Fuori dal territorio più codificato del genere non mancano esempi di maggiore ibridazione, in cui il processo di traduzione nazional-popolare si è inserito comunque su una scrittura precedente, spesso molto eccentrica: è il caso di La pupa e il secchione (2006, 2010, Beauty and the Geek), a suo modo geniale fenomeno di riconfigurazione dell’enciclopedia mediale, che torce l’immaginario cinematografico (e tv-seriale) del nerd fortunato in amore secondo i canoni del comico-pecoreccio nazionale, ma anche di quell’autentico fenomeno di (meta)pop culture nazionale che è Tale e quale show (2012, Tu cara me suena). Fino a un caso curioso come Tutti pazzi per la tele (2008-2009, Les Enfants de la télé) che, anche in un formato destrutturato come l’ibrido tra il talk e il varietà, e con l’obiettivo esplicito di rievocare la memoria televisiva nazionale, decide di affidarsi alla garanzia di un format già esistente.

“Garanzia” è la parola chiave per comprendere perché il sistema televisivo italiano scelga di spostarsi progressivamente dalla produzione (e ideazione) di originali a quella all’adattamento: garanzia per l’editore di un successo di pubblico già testato fuori dal mercato nazionale e poi sostanzialmente corroborato dagli ascolti di casa. La conseguenza più immediata è la sostituzione del varietà di primetime a durata stagionale con i format di cui sopra, con un numero davvero esiguo di titoli che sopravvivono dalla fine degli anni Novanta: Ciao Darwin, Scherzi a parte, I migliori anni, il duetto Ti lascio una canzone/Io canto (più debitore dello show di esibizione patemica che del format di gara), e alcuni franchise forti, come i programmi di Fabio Fazio (fuori dall’esperienza di Che tempo che fa, è il modello del contenitore/elenco, da Anima mia a Vieni via con me e Quello che (non) ho, fino agli epigoni apocrifi) o di Maria De Filippi (oltre a C’è posta per te, Amici resta l’unico format di talent totalmente originale, anche nella formula di ibridazione con i principali meccanismi di genere).

È esemplare, di contralto, la tenuta costante degli one man show, nella formula sia della serata singola (o doppia) fortemente eventizzata, sia della breve serialità a quattro puntate: in un certo senso anche lo spostamento dalla formula del varietà plurale (pur se costruito intorno a un fulcro enunciazionale centrale: il conduttore, il super-ospite), variamente articolato dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta, verso una formula centripeta (ai confini con il celebration show) o duale (dal modello host con amici/ospiti, fino alla recente gestione a due di Nemicamatissima e Laura e Paola), può essere interpretato come ulteriore esempio di distacco, o de-responsabilizzazione, editoriale da parte delle reti generaliste.

“Garanzia” è la parola chiave per comprendere perché il sistema televisivo italiano scelga di spostarsi progressivamente dalla produzione di originali all’adattamento di format: garanzia per l’editore di un successo di pubblico già testato fuori dal mercato nazionale e poi sostanzialmente corroborato dagli ascolti di casa.

Questioni produttive

Questa rivoluzione copernicana muove da una serie di concause strettamente connesse, tra le quali è difficile (e pure poco rilevante) stabilire i nessi di reciproca determinazione.

Una prima spinta viene sicuramente da un’evoluzione del sistema produttivo internazionale, che si è a poco a poco ridefinito in una mappa di soggetti sovra-nazionali e trans-nazionali: esemplare è il caso di Endemol che, ancora prima di entrare nell’orbita proprietaria di un editore italiano (Mediaset), era organizzata in una struttura reticolare che prevedeva unità autonome in tutti i principali mercati televisivi europei. A partire dagli anni Dieci l’intero universo economico che gestisce la creazione e la vendita dei format ai soggetti editoriali è stato percorso da un doppio movimento di assorbimento da parte dei grandi soggetti internazionali e di localizzazione nazionale, che ha reso sempre più semplice la circolazione dei format all’interno di grandi library di diritti che scivolano in maniera liquida attraverso i confini dei singoli Paesi. In questo modo alle società di produzione presenti sul territorio (e quindi portatrici delle competenze necessarie a un adattamento per lo specifico sistema socio-culturale) è garantita l’accessibilità diretta ai grandi bacini di titoli e format. Soltanto per il mercato italiano, oltre all’evoluzione di Endemol, si pensi al caso di Magnolia che, da piccola società nazionale e indipendente, è entrata prima a far parte della galassia Zodiak Media Group e quindi del grande universo Banijay, e parallelamente al progressivo radicamento sul territorio della britannica FremantleMedia, fino alla creazione, a partire dal 2010, di FremantleMedia Italia.

A fronte di questi grandi movimenti internazionali, il mercato italiano ha poi vissuto alcuni fenomeni peculiari. Il primo, apparentemente secondario, ma essenziale per comprendere le evoluzioni di mercato del nuovo millennio, è stato lo spostamento, nei primi anni Duemila, di alcune personalità chiave del mondo editoriale Mediaset verso più grandi realtà produttive televisive: in questo modo il principale operatore privato ha potuto trovare garanzia di assoluta competenza e conoscenza dell’identità, della mission e del target delle proprie reti anche in un sistema creativo e realizzativo esterno, invertendo la tendenza autarchica che ha sempre caratterizzato la televisione italiana, e stabilendo una nuova tendenza, immediatamente assimilata dall’operatore pubblico.

Il secondo, completamente inedito rispetto ai principali sistemi tv internazionali, è stato l’assorbimento dei talent show più specificamente competenziali da parte dell’unica piattaforma a pagamento, Sky: format come MasterChef, X Factor e Italia’s Got Talent, che tanto in Europa quanto negli Stati Uniti rappresentano l’offerta di punta dell’intrattenimento generalista (sia privato sia pubblico), sono diventati una marca distintiva dell’offerta pay, hanno definito standard qualitativi e di storytelling peculiari e hanno accompagnato in parallelo una polarizzazione dell’offerta free verso il reality show o verso un’ibridazione dei format di talent con elementi più spiccati di emotional show.

Lo spazio del factual

Il terzo aspetto riguarda un’altra forma di vacanza (sospesa tra ritardo endemico e abdicazione volontaria) della tv generalista italiana nei confronti di una delle più interessanti (e produttivamente feconde) evoluzioni di format: il factual entertainment. Ancora diversamente dalle tendenze internazionali (anche nei mercati tradizionalmente più vicini per identità editoriali dell’offerta e pubblico: Francia e Spagna), i canali Rai e Mediaset (con qualche eccezione per La7) hanno completamente mancato l’opportunità di declinare una versione più ecumenica, larga (nel target di riferimento, e negli ascolti) e, in ultima analisi, nazional-popolare di un genere per sua natura più adatto ai canali tematici o mini-generalisti, in tutte le sue forme: dal docu-reality alla docu-fiction, dal makeover allo swap, dal factual di meccanismo al mini-talent specializzato. Lasciando così ilcampo totalmente aperto ai canali nati e cresciuti con l’allargamento delle frequenze del digitale terrestre: terreno di caccia (di pubblico) – anche se a costante rischio di saturazione – del gruppo Discovery (Real Time, DMax, Nove), dopo l’iniziale ondata di acquisizione di prodotti stranieri, ha visto negli ultimi anni una proliferazione di produzioni a basso costo che, pur senza raggiungere mai risultati d’ascolto confrontabili i programmi della generalista, hanno rappresentato l’ultima rivoluzione dell’offerta tv italiana. Anche in questo nuovo frame il modello dell’adattamento (con pochi casi memorabili, per ascolti, Bake Off, o per capacità di generare discorso sociale, L’isola di Adamo ed Eva), ha prevalso sulle produzioni originali.

Tra questi programmi si registrano (pochi) esempi di particolare interesse, e in radicale controtendenza, perché in grado di creare character riconoscibili e originali, o di generare rapporti virtuosi tra costi di realizzazione e ascolti, o ancora di rendersi particolarmente disponibili all’adattamento in altri mercati: è il caso di Unti e bisunti, Alta infedeltà, Undressed o Italiani Made in China.

Al contrario, tutti i tentativi da parte delle reti generaliste di tradurre (e normalizzare) il genere con un adattamento più o meno esplicito dei format di maggiore successo internazionale si sono risolti in un sostanziale fallimento (con un’unica eccezione: Boss in incognito, progressivamente spostato dalla misura originale, e costruito intorno alla centralità spettacolare dell’host): sia seguendo una prospettiva più ludica (Tamarreide, versione localizzata della docu-reality alla Jersey Shore, o degli epigoni francesi, da Les Ch’tis a Les Marseillais, e inglesi, da Made in Chelsea a The Only Way is Essex), o spettacolare-emotivo (Extreme Makeover Home Edition), o di servizio (Fratello maggiore, sulla scia del social factual spagnolo e francese, da Hermano Major a Le Grand frère, da Operacion Momotombo a Perdidos en la tribu a Bienvenue dans ma tribu, o ancora il fortunato ma contestato Giovani e ricchi). L’unico terreno di sfruttamento fecondo del contenuto factual per un pubblico più largo e meno disponibile alla specializzazione dei linguaggi e degli oggetti si è rivelata la formula dell’aggregato: un contenitore a cornice, con conduttori che si muovono tra studio e ambientazioni in location e che introducono, commentano o interagiscono con singoli segmenti di prodotti di library internazionale, spesso presenti autonomamente nei canali tematici, o acquistati “a peso”, privilegiando la quantità disponibile (a basso costo) piuttosto della qualità. Dal campione (per ascolti e longevità) Mistero, che nel tempo ha moltiplicato il numero dei conduttori, la loro interazione e la presenza di contenuti di produzione ad hoc, fino ai vari epigoni Wild. Oltrenatura, Plastik. Ultrabellezza, Eva, Insideout, Nanuk, Archimede.

La versione 2.0, attualmente localizzata solo nel daytime, rimane l’esperimento di Detto fatto, contenitore pomeridiano da studio che assorbe i meccanismi dei format digitali (makeover, beauty, cooking, health) e li trasporta come singoli moduli nell’ambiente confortevole e confortante del salotto tv. Una dichiarazione di arrocco rispetto alla possibilità di agire autonomamente nel genere “puro” del factual, ma forse anche una dichiarazione di indipendenza e una piccola vendetta dall’obbligo di prendere il “pacchetto completo”. Un’esperienza (ancora) piccola e liminale rispetto al grande pubblico, ma che forse traccia un’inversione di tendenza: un ritorno fuori dal format. O almeno ai suoi confini.


Andrea Bellavita

Professore associato di Teorie e tecniche della comunicazione di massa e Linguaggi televisivi e crossmediali presso l’Università dell’Insubria di Varese. Redattore di Segnocinema, cura la rubrica di critica televisiva "Black Mirror" per FilmTV. È autore di libri e saggi su cinema e media contemporanei.

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