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Cultura digitale

Tiktoker per conto di Dio

Cosa succede alla religione quando incontra i balletti di TikTok e le dirette social? Da spazio pastorale a meme più o meno involontario la distanza non è poi molta. Qualche percorso di visione.

Il prete dj benedetto dal Papa, quello che fa i video-meme ed è una star di TikTok, le suore che fanno le coreografie e i fit check. Le pagine dei meme sul cattolicesimo non sono le sole a fare ironia sulla religione: per esempio, tutto il filone di video NunTok include scherzi in convento, partite a basket, giardinaggio, lip sync e balletti di suore. In un video, riprodotto più di 3,4 milioni di volte, un gruppo di consorelle dichiara le proprie preferenze: “preghiera del mattino o della sera? Avvento o Quaresima? San Pietro o San Paolo?” al ritmo di “It’s Tricky” dei Run D.M.C. Diventano spesso virali anche video generici prodotti da account personali, come quello di Suor Bethany, che ha 190 mila follower, ed è solita mandare snapchat alle sue consorelle e condividere video sulla sua giornata-tipo. Auto-proclamatasi “suora dei media”, suor Bethany, aka @srbethanyfsp, fa parte delle Figlie di San Paolo, altre suore star del web che gestiscono Pauline Books and Media, una catena di librerie e un negozio di e-commerce con biografie dei santi in stile manga, libri di preghiere, bibbie e rosari. Otto #medianuns hanno scritto insieme anche un libro, Millennial Nuns: Reflections on Living a Spiritual Life in a World of Social Media, perfetto per chi desidera scoprire come bilanciare fede e social.

Evangelizzazione social

TikTok è probabilmente la migliore piattaforma social per le persone (compresi preti e suore) che non possono restare connesse tutto il giorno. L’algoritmo rileva e rimpalla i video che funzionano, rendendo la viralità più semplice rispetto ad altre piattaforme che richiederebbero più ingegno e più impegno. Non stupisce, quindi, l’impiego di questo social per catechizzare: è probabile che gli evangelisti oggi avrebbero tutti gli account necessari per testimoniare il messaggio di Dio: come Arick Keith, pastore che va in giro, generalmente sotto la pioggia o guadando fiumi, con una croce in spalla citando i salmi e frasi di incoraggiamento come “Gesù ti ama”.

Le piattaforme consentono un coinvolgimento più attivo attraverso sondaggi, domande e risposte in tempo reale, incoraggiando la partecipazione diretta e le interazioni interpersonali: praticamente un oratorio virtuale sempre aperto e raggiungibile da ogni dove. Le vie del Signore sono infinite, e chi sta scrollando su TikTok potrebbe trovare conforto da un sacerdote che cita i Salmi a ritmo di macarena. La viralità dei trend diventa un’alleata della causa celeste.

Le indagini condotte dal Pew Research hanno riscontrato che la Generazione Z non è molto religiosa, anche se molto spirituale o legata ad altre forme di “credo”. Circa un terzo di loro non professa alcuna religione, percentuale sorprendentemente simile a quella dei Millennials. Questo dato si confronta in modo significativo con il 23% della Generazione X, il 17% dei baby boomer e l’11% della generazione silenziosa. Secondo uno studio condotto dal Barna Group, un’azienda specializzata nella fornitura di dati alle organizzazioni cristiane, la maggioranza dei membri della Generazione Z non ritiene che frequentare una chiesa sia un elemento rilevante.

Praticamente un oratorio virtuale sempre aperto e raggiungibile da ogni dove. Le vie del Signore sono infinite, e chi sta scrollando su TikTok potrebbe trovare conforto da un sacerdote che cita i Salmi a ritmo di macarena. La viralità dei trend diventa un’alleata della causa celeste.

Più di ogni altra generazione, i giovani godono di un accesso senza precedenti a informazioni e opinioni alternative, comprese quelle relative alla religione. Apparentemente, tutto quello che c’è da sapere sul buddhismo o sull’Islam è a portata di clic. Ma non è solo questo a spegnere l’entusiasmo, ci sono anche le guerre religiose. Troppo spesso i giovani vedono la religione collegata all’intolleranza e all’abuso: immagini di jihadisti islamici che massacrano coetanei ai concerti, o cristiani ultraconservatori che si oppongono ai diritti delle coppie gay. Per un giovane con una crisi di fede potrebbe essere più che sufficiente per allontanarsi dal sagrato della chiesa. 

Influencer cristiani o missionari digitali?

A evangelizzare via social non ci sono solo membri del clero. Un numero crescente di giovani – ma anche non giovanissimi – cristiani condividono online la loro vita quotidiana, chiacchierando di preghiera, digiuno e perdono dai loro salotti, dalle loro camere da letto, dalle loro automobili. I loro post raccolgono milioni di visualizzazioni su TikTok, Instagram e qualsiasi altra piattaforma social. Come quelli di Alexandra Chouabi, che ama “la moda, gli algoritmi e Cristo”. Durante il lockdown ha avuto tempo per leggere la Bibbia, una riscoperta apprezzata dai suoi follower che aspettano i suoi consigli sulla lettura dell’Antico Testamento e vanno in hype per le foto dei suoi pellegrinaggi. Morgana Augelli invece ha un profilo dove si riprende mentre canta canzoni di chiesa con il coro della sua parrocchia. Suo malgrado, i virtuosismi canori pubblicati sono usatissimi nei trend, soprattutto un classico senza tempo come “Servo per amore”. Insomma, anche influencer laici usano TikTok per fare comunità ed evangelizzare, come Maretha che organizza meditazioni live sulla Bibbia.

Il tutto avviene con il beneplacito di Papa Francesco, che vuole ascoltare anche il “sesto continente”, quello digitale. A settembre a Roma si è tenuta l’assemblea dei missionari digitali italiani, promossa dal Gruppo sinodale “La Chiesa ti ascolta”, l’équipe che costituisce la presenza digitale del Cammino sinodale. L’evento è stato realizzato con il supporto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e della Conferenza Episcopale Italiana, con partecipanti provenienti da tutto il mondo. Come ribadisce la Relazione finale del Sinodo, nel continente digitale ci sono periferie che chiedono di essere esplorate, perché “la cultura digitale è parte integrante della missione” e costituisce “un elemento fondamentale della testimonianza della Chiesa nella società attuale”. Per la prima volta quest’anno sono intervenuti missionari digitali, tra cui José Manuel De Urquidi Gonzalez, che davanti a Papa Francesco ha sottolineato come “Per evangelizzare negli spazi digitali, non importa se sei un prete o un laico, un uomo o una donna, un giovane o un adulto. Dei 250 evangelizzatori in questa prima fase, il 63% sono laici, il 27% preti e il 10% religiosi. Ciò che conta è l’abilità di ascoltare ed entrare in dialogo”. 

Un appello all’azione anche se non si tratta solo di proselitismo o condivisione di visioni teologiche. Gli influencer cristiani sanno il fatto loro, unendo religione e marketing. Joe Navarro, in arte Joechristanguy, ha uno shop con un merchandising ispirato alle Sacre Scritture, e sulle sue felpe e i cappellini in vendita campeggiano frasi tratte dalle sacre scritture come “Only God can do it” e “Jesus is the king”.

“Per evangelizzare negli spazi digitali, non importa se sei un prete o un laico, un uomo o una donna, un giovane o un adulto. Dei 250 evangelizzatori in questa prima fase, il 63% sono laici, il 27% preti e il 10% religiosi. Ciò che conta è l’abilità di ascoltare ed entrare in dialogo”.

La teologa e spiritual counselor Barbara Marchica guida verso una crescita personale e spirituale attraverso un percorso ad hoc. Analogamente, Claudio Greco, conosciuto come Fratello Claudio, è una specie di coach che si definisce appassionato di Gesù e desideroso di sostenere chi soffre a causa della fede. La sua attività è quella di guidare l’anima dei fedeli disorientati dalle pratiche secolari e tecnologiche, come dimostra la sua guida per leggere la Bibbia che mette in guardia dalla bibliomanzia. Un fenomeno diventa rilevante anche sulla base del mercato che crea: questi account attraverso una combinazione di spiritualità e strategie di business, impiegano i mezzi digitali per diffondere messaggi religiosi, costruire comunità virtuali e in alcuni casi intraprendere attività commerciali o diventare famosi.

La religione nell’era dei social

I social media si sono trasformati in nuovi luoghi di comunicazione e divulgazione, insomma sono assimilabili ai pulpiti tradizionali. Migliaia di fedeli-follower aspettano la dose quotidiana di spiritualità digitale: per la sociologa Elena Larsen, sono religious surfers, surfisti religiosi che utilizzano internet per ottenere informazioni e connettersi con altri nel loro cammino di fede.

La religione si basa su messaggi che circolano tra i credenti e su sistemi di comunicazione che sostengono una certa visione religiosa del mondo. È per questo motivo che, come spiega Stewart Hoover, fondatore e direttore del Center for Media, Religion and Culture, religione e media sono elementi intrinsecamente connessi. Nella storia, la religione ha utilizzato diversi mezzi di comunicazione per diffondere i suoi valori fondamentali (testi sacri, discorsi e libri stampati), ma nel XX secolo la crescita delle tecnologie e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa hanno creato nuove condizioni per veicolare la religione, fino ai social.

Gli spazi in cui viviamo sono così ipermediati che internet non può essere considerato come qualcosa di astratto, non è un ambiente immateriale “altro” rispetto alla realtà materiale, ma è legato a pratiche che esistono negli spazi tangibili, che inevitabilmente finisce per modificare. Il mondo di internet è integrato nel quotidiano, basti pensare – per restare in tema di connessione tra il mondo fisico e quello virtuale – all’Angelus in piazza San Pietro, un evento (spirituale) reale, in diretta tv e sui canali social. E così la pratica religiosa è diventata un continuum che abbraccia sia l’esperienza online che quella offline. Del resto, come osserva Heidi Campbell, per alcuni credenti internet è un mezzo creato da Dio per diffondere la sua parola. I cellulari hanno cambiato il nostro modo di vivere e, per chi crede, anche di credere. La tecnologia crea comunità, estendendo la possibilità di sentire e officiare riti collettivi, civili o religiosi, analogici o digitali. Da una parte il divino, dall’altra l’umano, e in mezzo la tecnologia.


Lucia Antista

Giornalista pubblicista, scrive di cultura, arte e fenomeni digitali per diverse testate, tra cui Lampoon, Siamo Mine, Artribune e Artslife. Come autrice televisiva ha lavorato per i programmi di La7 e del gruppo Class editori.

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