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TikTok come Televisione

Ore di filmati proposti in modo casuale, che vanno a occupare il tempo di chi guarda senza particolare impegno. Challenge che si ripetono, gusti medi. E se i video di TikTok fossero la nuova tv?

In a content-based community, content is more critical than people. Douyin-TikTok was a re-creation of television entertainment for the mobile age, not a new video-first Facebook. (Matthew Brennan, Attention Factory)

Mentre mi rendevo conto di avere trascorso in un attimo circa trenta minuti con gente sconosciuta che mi spiegava in quindici secondi il senso della vita, le ultime feature nascoste di iOS, le migliori schiacciate Nba, le bizzarre lauree online viste da dietro, ho sentito come una rivelazione. Perché me ne stavo lì a guardare lo schermo, senza pensare a niente? 

Uno dei mantra recitati nelle business school è “la concorrenza che ti annienterà non arriverà dal tuo concorrente tipico, cioè da colui che osservi, che monitori in tempo reale nei benchmark, ma da qualcuno che non ti aspettavi”. Gli esempi tipici sulle slide sono Spotify per le major discografiche, Netflix per la tv (o per le sale cinematografiche), le macchinette fotografiche digitali e poi gli smartphone per Kodak, eccetera. All’origine di ogni catastrofe di business c’è sempre una combinazione di alcuni fattori: la miopia di marketing (concentrarsi ossessivamente sul proprio prodotto, o sui miglioramenti delle sue caratteristiche, come soluzione sempiterna del bisogno di consumo: chi non ricorda i contenuti “extra” nei dvd, evidenziati come imperdibile benefit?), un evento scatenante tecnologico (gli smartphone, la banda larghissima, il crollo dei costi della tecnologia in generale), e nella maggior parte dei casi un ricambio generazionale che azzera le abitudini acquisite e le convenzioni tra bisogno e soluzione.

E se fosse TikTok, e non Instagram o Netflix, a diventare una nuova tv? Forse per capirlo non dovremmo individuare la televisione come formato, ma come funzione: un servizio gratuito, passivo, a basso impegno mentale che, a noi della generazione X, faceva semplicemente trascorrere il tempo allontanando la noia. Non dovevamo scegliere, solo accendere, e fare zapping. 

Naturalmente, le business school hanno un bias evidente: i loro consigli sono sempre ex post, cioè prendono in considerazione le catastrofi che si sono verificate, e ignorano quelle previste ma che non hanno avuto minimamente luogo. In realtà, la gran parte di queste catastrofi si evolvono nel tempo in smottamenti meno pericolosi. In molti casi le nuove modalità si affiancano a quelle esistenti. I podcast non hanno sostituito la radio, nemmeno quella FM. Ma prendiamo per buona un attimo questa ipotesi: e se fosse TikTok, e non Instagram o Netflix, a diventare la nemesi della tv della generazione Z – o essa stessa una nuova tv, credendo per un attimo alle slide delle business school? Forse per capirlo non dovremmo individuare la televisione come formato, ma come funzione: un servizio gratuito, passivo, a basso impegno mentale che, a noi della generazione X, faceva semplicemente trascorrere il tempo allontanando la noia. Non dovevamo scegliere, solo accendere, e fare zapping. 

Sostituire la televisione

Ok, lo ammetto: i candidati (poi in gran parte ridimensionati) incoronati come successori della tv lineare sono stati tanti. La tv è morta, si ripete ogni tanto, ma non è vero. E ogni oggetto scintillante e nuovo ha il vantaggio di godere dell’hype dei media (esatto, come TikTok ora), e quindi potrei esserne anche io condizionato: però usiamo un attimo la molto televisiva tecnica della sospensione del dubbio, e proviamo ad analizzare cosa avvicina TikTok alla televisione (e in cosa migliora quel bisogno).

Prima di tutto, contrariamente a ciò che viene narrato, TikTok non è un social network, se non in minima parte. Non serve a connettere, se non temporaneamente, utenti tra loro. Non c’è bisogno di seguire qualcuno (letteralmente, non serve nemmeno il login). Il palinsesto di un’ora di intrattenimento è già pronto per te. La connessione tra utenti – per esempio nei commenti – dura lo spazio del video. Esattamente come chi segue un hashtag di derivazione televisiva, e fa reply o retweet ad altri che stanno seguendo la trasmissione. Finita la trasmissione, ognuno torna alle sue vite social, ai suoi network di amici e following, ai gruppi Facebook, alle chat su Whatsapp. 

Con TikTok questo avviene a velocità accelerata: swipe up e via, fai zapping verticale e cambi canale. In questo comportamento vedo un’altra analogia: quell’adrenalina derivante dal non sapere a cosa si sta per assistere. Esiste in tutti i social media, ma in TikTok è spinta al limite: mentre i social nella gran parte scelgono il contenuto tra chi segui, TikTok lo seleziona tra qualunque contenuto esistente sulla piattaforma, vecchio, nuovo, perfino in altre lingue (tanto i format, pardon, le challenge sono universali, non c’è bisogno di capire il parlato, e tanto tutto spesso è sovratitolato). La modalità lineare di consumo (in modalità passiva) più lo zapping (vado verso l’ignoto) è qualcosa che i quaranta-cinquantenni ricordano ancora bene. Che sia un pattern universale, semplicemente sfruttato, in modalità piattaforma, da TikTok?

I format aiutano l’utente di TikTok a entrare nel gioco, a “capire le battute” (e all’algoritmo le preferenze) e soprattutto ad abbattere le barriere alla creazione, tramite un menu di idee creative gratuito e infinito. Non tutti i contenuti creati in una challenge avranno successo, faranno ridere, diventeranno hit, ma alla piattaforma ne bastano pochi, da mandare su tutti gli zapping degli utenti. Non serve l’Auditel, è tutto in tempo reale. Se non funziona, scompare. Anzi, non è mai esistito.

L’algoritmo ottimizzato per aumentare l’engagement fino a provocare dipendenza (eh sì, anche i nostri genitori ci accusavano di essere “teledipendenti”: “Stàccati da quel televisore!”) è un sapiente alchimista: mescola contenuti a cui siamo probabilmente interessati, imparando direttamente in tempi brevissimi dalle nostre scelte, irretendoti in loop di contenuto subculturale, monotematico, ultraspecifico, per poi improvvisamente farti cambiare argomento, ma – qui sta il punto – non in modo causale. L’algoritmo non serve solo per proporre ulteriore contenuto che ti piace, ma anche quello che potrebbe piacerti, ma non lo sai ancora. Ma se questo video piace tanto a qualcuno con il tuo stesso comportamento di base (non un tuo contatto), “stai a vedere che” – su TikTok siamo continuamente accuditi e testati.

Challenge e format

I format, dicevamo. TikTok produce format continuamente, come una Endemol user generated: cosa non è un hashtag/challenge come #expectationvsreality se non un format che potremmo vedere su Real Time? O #tensecondschallenge se non un gioco di trasformazione velocizzata del proprio look che potremmo vedere su Canale 5 in prima serata, con qualche vip? O l’interpretare una canzoncina come “Mille” non potrebbe essere un talent show distribuito? O l’espressione incredula di Khaby Lame non potrebbe essere un tormentone da Striscia la notizia?

When TikTok first launched, it felt like the world’s first algorithmically driven talent show. 

(Rebecca Jennings su Vox)

I format aiutano l’utente di TikTok a entrare nel gioco, a “capire le battute” (e all’algoritmo le preferenze) e soprattutto ad abbattere le barriere alla creazione, tramite un menu di idee creative gratuito e infinito. Non tutti i contenuti creati in una challenge avranno successo, faranno ridere, diventeranno hit, ma alla piattaforma ne bastano pochi, da mandare su tutti gli zapping degli utenti. Non serve l’Auditel, è tutto in tempo reale. Se non funziona, scompare. Anzi, non è mai esistito.

E i brand? Sono collaterali nell’esperienza generale, ben pochi marchi hanno una storytelling-machine in grado di superare l’ostacolo di produrre in continuazione contenuti selezionati dal ferreo algoritmo, in un ecosistema in cui “avere molti follower” è importante solo fino a un certo punto per la diffusione del messaggio. Vista la somiglianza formale, molto meglio concentrarsi sui Reels di Instagram, più prevedibili nei risultati di engagement e visualizzazioni, più direttamente proporzionali all’ampiezza del seguito social pazientemente conquistato in anni di faticoso accumulo di follower. 

Reels sembra pesare di più il numero di follower ed è un posto migliore per i brand già posizionati. TikTok, invece, sembra migliore per diffondere contenuti virali ben oltre il seguito esistente, attraverso la pagina For You: su TikTok, i follower di una persona vedranno solo una frazione dei suoi contenuti. 

(Michael Waters su Modern Retail)

Ecco che in TikTok, come nella televisione tradizionale, ognuno ha il suo spazio: i contenuti sono una cosa, e gli utenti dominano gli ascolti e la produzione, l’advertising un’altra, dove ogni brand può avere un attimo di attenzione, ma a pagamento, ma sfruttando al meglio l’algoritmo tracciante. Il “sistema [TikTok] culmina nella mediana confusa di tutti i gusti più medi della terra”, sostiene sempre Rebecca Jennings su Vox. All’algoritmo di TikTok non interessa la qualità (qualunque cosa significhi), ma il gradimento e lo share di attenzione, che sono portati qui all’estremo possibile, per personalizzazione e real time. E qui scatta l’ultimo parallelismo: anche la tv generalista ha sempre massimizzato i gusti medi, per poter arrivare a essere attraente per il maggior numero di persone possibile. Ora TikTok ci sta riprovando, con altri mezzi, utente dopo utente. Anzi, spettatore dopo spettatore.


Gianluca Diegoli

Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.

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