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Vita digitale

La tecnologia è diventata troppo semplice da usare?

Obiettivo di molti strumenti è di aiutarci. Ma a volte le cose sono diventate fin troppo automatiche, con effetti negativi. E allora: c’è un limite alla dittatura della semplificazione radicale?

Da sempre, anche molto prima dell’era digitale, le aziende tecnologiche hanno avuto come obiettivo quello di ridurre al minimo l’attrito tra noi e i prodotti o servizi che mettevano sul mercato. Tra le altre cose, è il modo migliore per vendercene sempre nuove versioni. La semplicità non è certo un difetto, anzi, ma bisogna essere consapevoli che a ogni singolo grado di frizione eliminato cambia, in qualche modo, il nostro rapporto con l’oggetto tecnologico. Anche in maniera radicale. Per esempio: metterci in mano un telecomando con l’obiettivo di eliminare ogni distanza fisica tra noi e il televisore ha mutato completamente il nostro modo di consumare la tv e, di conseguenza, il modo di fare tv è cambiato. Nel bene e nel male, si è dovuto tenere conto che lo spettatore aveva in mano quell’arnese.

Togliere l’attrito

Adesso però abbiamo un problema. A forza di rincorrere una sempre maggiore semplicità d’uso cresce il rischio che, eliminato un ulteriore livello di complessità, per molti versi l’effetto sia il contrario di quello immaginato: rendere complessivamente le cose più difficili da gestire. Molti dei problemi che abbiamo oggi con la tecnologia – l’imbarbarimento delle discussioni online, la concentrazione dei dati personali in mano a poche grandi aziende, gli attacchi informatici – potrebbero derivare proprio dalla costante riduzione dell’attrito. È un tema molto importante, sul quale si è cominciato a riflettere solo di recente. Il giornalista Kevin Roose e l’esperto di tecnologia David Ryan Polgar hanno sollevato la questione in due articoli pubblicati sul New York Times e sulla rivista Technomy.

“La rimozione dell’attrito ha drasticamente ridotto il tempo per riflettere premiando gli impulsi immediati con la gratificazione dei ‘mi piace’ e ‘condividi’”, scrive Polgar, avvertendo che un punto di non ritorno potrebbe essere stato attraversato. E se andiamo indietro di qualche anno, come ci invita a fare Roose, forse ci ricordiamo che una delle principali modifiche di Facebook è stata quando l’azienda ha deciso che le app – Spotify o quella per giocare a Mario Bros. – una volta connesse al social network potevano postare contenuti sulla nostra timeline senza chiederci ogni volta il permesso di pubblicarli con la finestra pop-up utilizzata fino ad allora. Era il 2011, e all’annuale conferenza degli sviluppatori un giovanissimo Mark Zuckerberg spiegò alla platea che la scelta era determinata dalla necessità di creare quella che definì una “frictionless experience”. Ecco, scrive Roose, “di tutte le parole chiave della tecnologia forse nessuna è stata impiegata con la stessa filosofica convinzione come frictionless. Nell’ultimo decennio o giù di lì, eliminare l’attrito – il nome dato a qualsiasi cosa che rende un prodotto più difficile o dispendioso da usare in termini di tempo – è diventata l’ossessione dell’industria tecnologica”.

Serve trovare una complessità risolta, una smart friction, che ci fa usare in modo più consapevole l’oggetto tecnologico, che ci fa capire quello che stiamo facendo, in modo da imporci una scelta per utilizzarlo nel modo migliore.

D’altronde la “radical simplification of everything” è stata la principale fonte d’ispirazione per le aziende cresciute nella cultura della Silicon Valley, il principale punto d’orientamento nella loro corsa per conquistare il mondo: “le sole aziende e gli unici prodotti che avranno successo sono quelli che offriranno il livello più basso possibile di complessità per la massima quantità di utilità”, scriveva già nel 2012 Aaron Leevie, giovane amministratore delegato di una cloud company come Box, ammonendo che “la semplicità è diventata un virus che ti distruggerà o ti catapulterà al vertice del mercato”.

Tutto troppo semplice

In realtà negli ultimi anni c’è chi l’attrito nella tecnologia lo sta rivalutando, pensandolo (anche) come elemento positivo. Un veterano della Silicon Valley come John Hagel si è chiesto nel suo blog “quale tipo di attrito ci offre opportunità di riflessione e un dibattito produttivo, in modo da poter imparare più velocemente e proporre idee e approcci ancora più creativi e duraturi nel tempo?”. Una domanda che ribalta il paradigma dominante e pone un nuovo obiettivo: “ottenere il giusto equilibrio tra flusso di informazioni e attrito è fondamentale per costruire società e sistemi in grado di accelerare il miglioramento delle prestazioni senza esporci a una fragilità eccessiva, che aumenta i rischi di collasso”.

In attesa di trovare il “giusto equilibrio”, un concetto da verificare continuamente, l’esposizione a una fragilità eccessiva è una condizione in cui la cultura tecnologica delle grandi aziende sembra spingerci sempre più. Così che, una volta abituati a usufruire della nuova usabilità di un prodotto tecnologico, abbiamo difficoltà a tornare indietro, anche di un solo passo, alla sua versione precedente. In una vecchia puntata, il comico Louis C.K., ospite di Conan O’Brien, ironizzava su questa nostra mania, dandoci degli “idioti” se ci sembra insopportabile aspettare solo qualche secondo in più per connettere il nostro telefono a una rete anche se ci troviamo in capo al mondo – “Give it a second… It’s going to space! Can you give it a second to come back from space!?” – senza renderci conto davvero di quello che la tecnologia ci sta offrendo oggi rispetto al passato.

Le aziende tecnologiche sono molto abili nello sfruttare a loro vantaggio questo nostro desiderio, alimentando il bisogno di frictionless ben oltre la reale necessità. Quanto è utile entrare in un sito web o accedere a un servizio online utilizzando il nostro account Facebook o Google (cedendo così in quel momento ancora più dati personali alle piattaforme) invece di digitare un username e una password? E quanto tempo e fatica farà mai risparmiare il tasto “acquista adesso con 1-click” o i pulsanti Dash con cui Amazon ha portato in prossimità del grado zero la distanza tra noi e i prodotti da comprare?

Il punto forse non è tanto rendere la tecnologia più complicata o più semplice, ma rendere migliore il nostro rapporto con la tecnologia, renderci più consapevoli nell’usarla. Detta così, può essere un’altra banalità. Ma non c’è niente di banale nel cercare di realizzare questo obiettivo in modo concreto.

C’è, di fondo, una contraddizione sempre più evidente. Più le piattaforme abilitano un numero sempre maggiore di persone a utilizzarle – per concludere una qualsiasi operazione finanziaria o pubblicare qualsiasi cosa ci passa per la testa in qualsiasi momento in qualsiasi luogo – più la tecnologia che governa le applicazioni diventa complessa e opaca. Google e Facebook hanno dovuto ammettere, con sempre maggiore frequenza, che la loro tecnologia e i loro algoritmi sono diventati così complessi da permettere ad altri di utilizzarli in modi non previsti. Non è una contraddizione da poco perché ci dice che la “semplificazione radicale di ogni cosa” è governata da una complessità di cui non siamo più consapevoli e di cui non comprendiamo né la portata complessiva né gli effetti.

Tentativi di soluzione

In un articolo di Motherboard Justin Kosslyn, top manager di Google esperto di sicurezza informatica, ha scritto: “La filosofia di internet ha dato per scontato che l’attrito sia sempre parte del problema, ma spesso l’attrito può essere centrale nella soluzione”. Il punto forse non è tanto rendere la tecnologia più complicata o più semplice, ma rendere migliore il nostro rapporto con la tecnologia, renderci più consapevoli nell’usarla. Detta così, può essere un’altra banalità. Ma non c’è niente di banale nel cercare di realizzare questo obiettivo in modo concreto. Come? “Per esempio – tanto per citare ancora John Hagel – nel caso dei mercati di negoziazione potrebbe assumere la forma di soluzioni che richiedono una certa riflessione o più analisi prima di agire in base alle informazioni ricevute”.

Alcuni servizi finanziari, come la app Koho, permettono da qualche anno di attivare alcune limitazioni che aggiungono “attrito intelligente”, per esempio preimpostando un limite ai prelievi con la propria carta di credito dalla mezzanotte alle 4 di mattina il sabato sera, in previsione di possibili “colpi di testa” dopo aver bevuto qualche bicchiere in più. C’è poi chi ha inventato, ispirato da una aestethic of friction, un portachiavi come Keymoment, da appendere alla porta di casa con solo due ganci, uno per la chiave dell’automobile e l’altro per quello della bici. Se si prende quella dell’auto, il dispositivo lascia cadere la chiave della bici, imponendoci di fatto di raccoglierla. “Raccogliere la chiave – leggiamo nella scheda di presentazione – significa raccogliere la tua intenzione di prendere la bici più spesso. Spetta a voi. Si crea un momento di scelta, una scelta libera che devi fare. E sappiamo che questa scelta crea un attrito”.

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L’attrito può servire a farci tenere i piedi per terra. Anche perché “non tutto può essere semplice. Non tutto può essere facile da usare. Molte applicazioni e servizi sono necessariamente complessi”, scriveva qualche tempo fa Robert Hoekman, un UX designer in suo pezzo nell’edizione americana di Wired, ricordandoci che però “una cosa che può valere per tutti è chiara. Indipendentemente dalla complessità di un progetto, indipendentemente dal numero di attività supportate, da quanti modi diversi offrire per eseguire le stesse azioni quotidiane, ogni dettaglio può essere reso più chiaro”. Più chiaro non è necessariamente più semplice, così come trasparente e comprensibile non è per forza meno complesso.

Il punto allora non è qualcosa che è solo più facile da usare (e ci invita a essere utilizzato sempre di più), ma trovare una complessità risolta, una smart friction, che ci fa usare in modo più consapevole l’oggetto tecnologico, che ci fa capire quello che stiamo facendo in modo da imporci una scelta per utilizzarlo nel modo migliore. Le grandi aziende tecnologiche non sembrano oggi interessate più di tanto a farsi carico di questo tipo di attrito, almeno finché i problemi derivati dalla sua assenza non procurano danni ai loro conti economici. È meglio guardare altrove. E allora è interessante l’esperimento che si sta realizzando in Finlandia, dove il governo si è posto l’obiettivo di insegnare all’1% della popolazione, circa 55 mila cittadini, i concetti base dell’intelligenza artificiale. I corsi (gratuiti) non richiedono ai partecipanti alcuna conoscenza tecnologica particolare, visto che la finalità del progetto è proprio di sensibilizzare sulle opportunità e sui rischi dell’IA le persone che non hanno competenze specifiche. Come ha detto il ministro dell’economia finlandese, “non avremo mai così tanti soldi da investire per diventare un Paese leader nell’intelligenza artificiale. Ma come la usiamo può ancora fare la differenza”.
Le nuove frontiere come l’intelligenza artificiale o l’internet delle cose potrebbero, in teoria, aiutarci a fare passi avanti in questo senso, se progettate pensando a una smart friction a servizio delle reali esigenze delle persone e delle comunità che non dai dettami di una ossessiva frictionless poco consapevole della sue conseguenze. È possibile per come è strutturata oggi l’industria? Anche un semplice portachiavi intelligente, nonostante la sua tecnologia naïf, o l’adozione in alcuni Paesi di serie politiche nazionali di alfabetizzazione e media literacy (altro tema del quale molto si parla e poco si pratica) ci dicono, su scala diversa, quanto può essere fatto affinché lo sviluppo della tecnologia possa avere linee di sviluppo capaci di evolversi dalla ossessiva dittatura della semplificazione radicale di ogni cosa.


Lelio Simi

Giornalista, si occupa di innovazione, tecnologia e industria dei media (con inchieste pubblicate su il Manifesto, Pagina 99, Eastwest, Altreconomia tra gli altri). Ha scritto un libro, Mediastorm. Il nuovo ordine mondiale dei media (2021). Mediastorm è anche il nome della sua newsletter.

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