Il successo della fiction nordica è recente, ma perché non sia solo una bolla destinata a scoppiare ora serve cambiare passo. Produttori e broadcaster lo sanno bene.
Considerata uno dei player più all’avanguardia del sistema televisivo globale, la tv scandinava ha deciso di accettare il guanto di sfida che la continua evoluzione dei media le pone di fronte e, per difendere il suo primato di hot spot creativo, ha scelto di ripartire ancora una volta dalla fiction di produzione originale, ma per cambiare pelle, inaugurando una sorta di versione 2.0 di se stessa.
Mentre il resto del mondo continua a guardare al nordic noir come a un modello da emulare, per stilemi e per tematiche, nel corso delle ultime stagioni la Scandinavia ha invece avviato un graduale processo di rinnovamento della sua offerta scripted, che si articola sempre più attorno a due direttrici: da una parte la rielaborazione di tratti tipici del nordic noir, restando nell’alveo del crime, e dall’altra l’affrancamento totale dal genere che l’ha portata alla ribalta dei mercati globali a vantaggio di strade meno battute.
Dal nordic noir allo scandi-blue, tutte le sfumature del crime
Legata a doppio filo al successo del romanzo giallo scandinavo, la nascita del nordic noir televisivo si deve alla popolarità della serie danese Forbrydelsen (2007), che con la sua forte orizzontalità, le atmosfere algide e cupe e un’estrema efferatezza dei crimini ha gettato le basi per un modo diverso di fare crime, in netta controtendenza con gli elementi tipici del thriller americano e ha fissato, insieme alla successiva Bron/Broen, le peculiarità che sarebbero presto diventate i canoni fondativi di un genere seguito da numerosi epigoni a livello internazionale. Ma dieci anni dopo la messa in onda di Forbrydelsen e con la quarta e ultima stagione di Bron/Broen in onda da gennaio 2018, qualcosa è cambiato. Il crime scandinavo è entrato in una fase di transizione, ricorrendo a modalità e tecniche di rappresentazione alternative. Non è un caso che per le serie presentate alla fine del 2017 ai Nordic Film Days di Lubecca sia stato coniato il termine “scandi-blue”, nel tentativo di riunire sotto un’unica etichetta titoli che, pur di genere crime, si discostano profondamente dal nordic noir tradizionale in numerosi aspetti.
I titoli del nordic noir “originario” o “classico” ci hanno abituato a una struttura narrativa orizzontale, dove a innescare la trama è sempre un crimine iniziale di enorme ferocia, tanto brutale da diventare spettacolare, esemplare e memorabile. Come Trapped, dove a mettere in moto la vicenda è la scoperta di un cadavere orribilmente mutilato (un torso senza più né arti né testa) nel porto di un piccolo paese di pescatori, o Midnight Sun, prima coproduzione tra Svezia e Francia, in cui un uomo si sveglia legato alle pale di un elicottero che alzandosi in volo lo frantuma in mille pezzi. O ancora l’incipit della norvegese Monster, dove in una buca scavata nel terreno è rinvenuto il cadavere di una ragazza: tutto, dall’età, alla posizione in cui è legata, fino al candore di pelle e capelli, rimanda all’universale iconografia dell’agnello sacrificale e il delitto assume i connotati di un omicidio rituale in piena regola. Denominatore comune di tutte le storie del nordic noir classico, la spettacolarizzazione della violenza è il primo elemento da cui lo scandi-blue si discosta, scegliendo di abbandonare le storie orizzontali e i delitti efferati in favore di titoli più light dagli spiccati elementi procedural.
È il caso della svedese Before We Die, in cui la detective Hanna Svensson si imbatte in una pericolosa organizzazione criminale i cui tentacoli si estendono ben oltre il confine nazionale. La storia non inizia con uno scenografico omicidio, ma si può quasi parlare di una partenza in sordina, con Hanna che, dopo aver lasciato la casa del collega e amante, cerca invano di mettersi in contatto con lui, scoprendo a poco a poco che l’uomo stava conducendo un’indagine sotto copertura e apparentemente è scomparso. L’innesco della trama è graduale, costruito con la giustapposizione di elementi, e la serie segue un andamento più riconducibile al thriller di matrice tedesca che alle atmosfere rarefatte del nordic noir.
Lo scandi-blue cerca poi di alleggerire i toni tipici del crime ricorrendo a casi di puntata verticali. Su questa scia si colloca anche il progetto danese in dieci episodi Sommerdahl Murders, atteso per l’autunno 2019. Ambientata nella luminosa città costiera di Christianssund, la serie si concentra su un pubblicitario che, dopo aver trovato il cadavere di una giovane donna in ufficio, si improvvisa detective e, galvanizzato dal brivido dell’indagine, continua a fornire il suo aiuto alla polizia anche dopo la risoluzione del caso. Già nel concept è possibile individuare due elementi che muovono nella direzione del tono più leggero promesso dagli autori, stabilendo una connessione con i polizieschi light provenienti dagli Stati Uniti e, in parte, dalla Gran Bretagna: le puntate autoconclusive, che presentano ogni settimana la caccia a un nuovo colpevole e un protagonista che non ha nulla a che vedere con i “defective detective” tipici della Scandinavia. A differenza dei poliziotti del nordic noir perennemente risucchiati dal lato oscuro, che affrontano il loro mestiere come una missione tesa all’espiazione, Sommerdahl si avvicina al mondo del crimine per noia, come un’opportunità di dare una svolta alla sua vita. Nulla a che vedere con il classico fallen hero ossessionato dal passato e dal senso di colpa per i suoi fallimenti, con il vinto che incapace di costruire relazioni sociali vive rinchiuso in un isolamento al limite del patologico, anestetizzando le sue emozioni. Al contrario, c’è un pubblicitario, figura sociale e professionista della comunicazione, che risolve crimini per diletto ed è galvanizzato dalla loro soluzione. Sommerdahl raccoglie una sfida e la vince, godendo delle proprie capacità intuitive e tenendosi lontano da quel senso di dolore e tragicità quasi universali che permangono al termine di un’indagine del nordic noir tradizionale.
Il secondo punto di rottura dello scandi-blue riguarda lo stile. Il naturalismo del nordic noir è accantonato a favore di uno stile pop, iperrealista e le musiche evocative e d’ambiente sono sostituite da colonne sonore riconoscibili e, in alcuni casi, spiccatamente citazioniste. Non più setting tetri e malinconici, dove l’elemento naturale si mostra sempre implacabile e avverso, aumentando il senso di isolamento e di instabilità dei personaggi, ma scene come quelle di Stella Blomkvist, con interni e ambienti notturni in cui prevale l’uso di neon blu e fucsia: colori accesi, aggressivi e brillanti, che donano all’immagine un look stilizzato e quasi fumettistico, vicino all’iconografia di una graphic novel o una serie Marvel.
Lontano dai tradizionali crime scandinavi appare anche lo stile visuale di The Lawyer, serie svedese in cui l’avvocato Frank Nordling cerca vendetta dopo aver scoperto che uno dei suoi migliori clienti è in realtà il responsabile dell’omicidio dei suoi genitori. Se la premessa narrativa è molto nordic noir, le scelte scenografiche se ne distaccano e dai luoghi che appaiono nel primo episodio (un moderno tribunale, un ufficio legale in pieno centro, una villa luminosa dotata di piscina) si potrebbe quasi pensare a una soap di daytime più che a un thriller ambientato nel mondo malavitoso di Stoccolma. Persino un omicidio su una barca avviene in un porticciolo ben illuminato, rischiarato dai riflessi dei fuochi d’artificio.
Sotto il profilo narrativo, i titoli dello scandi-blue sono accomunati da una crescente contaminazione dei generi e dallo sconfinamento del plot nel drama familiare. In Before We Die Hanna è una poliziotta che per combattere il crimine organizzato a Stoccolma ha sacrificato tutto, anche il rapporto con suo figlio Christian, che ha fatto arrestare dopo averlo scoperto in possesso di droga. Tra i due non c’è più alcun dialogo e la donna ignora persino che il ragazzo è sfruttato dall’amante come informatore. I continui non detti tra i due e la dialettica tra tentativi di riavvicinamento e mancanza di fiducia reciproca sono la base su cui poggiano le sottotrame. Ancor prima che un crime, è una storia di legami familiari: da quelli che un matriarcato mafioso considera sacri e tenta di proteggere a tutti i costi a quelli che spingono Hanna a sottrarsi ai propri principi morali pur di lottare per la salvezza del figlio.
A differenza dei poliziotti del nordic noir perennemente risucchiati dal lato oscuro, che affrontano il loro mestiere come una missione tesa all’espiazione, ora il protagonista si avvicina al mondo del crimine per noia. Nulla a che vedere con il classico fallen hero ossessionato dal passato e dal senso di colpa per i suoi fallimenti. Al contrario, c’è un pubblicitario, figura sociale e professionista della comunicazione, che risolve crimini per diletto ed è galvanizzato dalla loro soluzione.
Nella serie islandese Fangar, Linda è da sempre la pecora nera della famiglia. Accusata di aver aggredito suo padre con una mazza da baseball e averlo ridotto in coma, è rinchiusa in una prigione femminile e abbandonata da tutti. Inizialmente le motivazioni del suo gesto non sono chiare, ma presto è evidente che la ragazza conosce una terribile verità, che se da una parte potrebbe farle riguadagnare subito la libertà, dall’altra distruggerebbe definitivamente l’aura di rispettabilità della sua famiglia e la carriera politica della sorella maggiore. Il padre di Linda nasconde infatti trascorsi da carnefice e tutti i membri della famiglia apparentemente così perbene cercano di proteggere il suo inconfessabile segreto: negandolo, ignorandolo, fingendo che sia tutto a posto e screditando Linda, che insinua il contrario solo perché è drogata, pazza e violenta. Quasi come in un coro greco, a sottolineare gli elementi della storyline principale contribuiscono le vicende delle altre carcerate: donne, madri, che come Linda sono finite in galera per colpa di un sistema maschilista che le ha schiacciate e vittimizzate. Frutto di sette anni di lavoro e di numerosi colloqui diretti con le detenute della prigione di Kópavogur, la serie mira infatti a evidenziare il tema degli abusi e dei ricatti da parte degli uomini sulle donne, un argomento che, dichiarano gli autori, è fortemente sentito sul territorio islandese: “Abbiamo sviluppato la storia facendo ricerche su come gli uomini usano il loro potere per ridurre al silenzio le donne e abusare di loro. Ci sono stati vari scandali di questo tipo in Islanda. Abbiamo deciso di raccontare la storia dal punto di vista di una famiglia, con tre generazioni di donne”. Se il nordic noir classico fa dell’elemento criminale il suo nucleo, lo scandi-blue finisce per relegarlo in secondo piano e lo utilizza da pretesto per introdurre tematiche familiari, che possono veicolare a loro volta questioni di portata più ampia e universale.
Allo scopo di realizzare prodotti sempre più ambiziosi e di aumentarne la visibilità, nell’aprile 2018 i cinque gruppi pubblici nordici hanno deciso di allearsi in un importante patto di coproduzione, noto come il “patto delle Nordic 12” e finalizzato alla realizzazione di 12 serie scripted all’anno (3 per la Danimarca, la Svezia e la Norvegia; 2 per la Finlandia; 1 per l’Islanda).
Al di là del crime, una new wave scandinava
Ma c’è anche una seconda importante strada che la Scandinavia ha scelto per rinnovare la sua offerta di fiction: il totale affrancamento dal crime a vantaggio di generi in passato meno battuti. Da una ricerca di Eurodata TV sulle parole chiave più usate per descrivere la produzione scandinava nel 2017, si evince come i riferimenti al nordic noir siano in diminuzione rispetto al triennio precedente, a beneficio di commedie, drama al femminile e titoli in costume. È un fenomeno legato alla situazione delle reti pubbliche nordiche, che per fronteggiare l’aggressiva proposta di fiction proveniente da Netflix e dagli OTT locali hanno cominciato a puntare su titoli ad alto valore produttivo, capaci di imporsi e di trovare ampia distribuzione internazionale. Da qui arrivano period drama quali Our Time is Now che, attraverso i sogni e le speranze di una famiglia di ristoratori dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dipinge uno spaccato della Svezia post-bellica; o Liberty che, prendendo a pretesto le vicende di due famiglie di emigrati scandinavi in Tanzania negli anni Ottanta, affronta il tema di forte attualità delle migrazioni e dello scontro fra culture; o ancora State of Happyness, in cui sono ripercorse le vicende che nell’estate 1969 trasformarono la piccola città costiera di Stavanger da una zona sull’orlo della crisi economica in uno dei più grandi bacini petroliferi della storia, influenzando il destino dell’intera nazione norvegese.
Le reti pubbliche scandinave hanno inaugurato inoltre un’altra linea di produzione, a metà tra comedy e light drama, che si sta rivelando capace di travalicare i confini nazionali. A fare da apripista, qualche anno fa, è stata la teen series norvegese Skam, divenuta in breve tempo un fenomeno globale. A questa serie, che resta un unicum nel panorama della tv pubblica scandinava per la natura cross-mediale, hanno fatto seguito altri titoli capaci di ritagliarsi il proprio “posto al sole”. Si pensi alla dramedy danese Bedre Skilt End Aldrig, cui Abc negli Stati Uniti si è ispirata per la realizzazione di Splitting Up Together, o alla svedese Bonus Family, che dopo aver ottenuto in patria ascolti paragonabili a quelli del crime, è stata acquistata da Netflix e distribuita in oltre cento paesi. Il format originale, inoltre, ha ottenuto consensi tanto ampi da essere venduto per l’adattamento negli Stati Uniti, in Francia e in Germania.
Dietro al successo di questi titoli si nascondono due tendenze fondamentali: la prima è la scelta di rinunciare a un’eccessiva localizzazione di tematiche e personaggi in favore di argomenti più generali e universali (non più dunque, come in passato, storie su registi falliti costretti ad entrare nell’industria del porno per salvarsi dalla bancarotta o su cinquantenni in crisi di mezza età che decidono di prendere i voti, ma relazioni familiari, rapporti tra genitori divorziati, dubbi e problematiche adolescenziali); la seconda è la volontà di trattare anche i temi più ostici e scabrosi senza scadere mai nella retorica del servizio pubblico, in modo schietto, onesto e coraggioso, senza imbellettamenti ipocriti.
Period drama ad alto valore produttivo, spesso basati su libri di successo, e commedie/light drama facilmente esportabili o adattabili, capaci di far parlare ampiamente di sé: sono questi i due generi di riferimento su cui le tv pubbliche scandinave hanno deciso di puntare per rinnovarsi e affrancarsi dal crime. E allo scopo di realizzare prodotti sempre più ambiziosi e di aumentarne la visibilità, nell’aprile 2018 i cinque gruppi pubblici nordici (DR, SVT, NRK, YLE, RUV) hanno deciso di allearsi in un importante patto di coproduzione, noto come il “patto delle Nordic 12” e finalizzato alla realizzazione di 12 serie scripted all’anno (3 per la Danimarca, la Svezia e la Norvegia; 2 per la Finlandia; 1 per l’Islanda) da diffondere quasi in contemporanea nei cinque paesi e da rendere poi disponibili sui siti dei cinque gruppi, con accesso gratuito e illimitato per un anno.
Che si tratti di rinnovare l’approccio al crime o di puntare su generi completamente diversi, le dinamiche in atto nella tv scandinava sono chiare manifestazioni della forza di un mercato televisivo maturo, che risponde alla precisa volontà di distinguersi e mantenersi un elemento d’avanguardia. Un apripista capace di intercettare nuovi trend e di imprimervi la sua impronta, facendo della sperimentazione un marchio di fabbrica e ancora una volta ridisegnando prima degli altri le regole del gioco.
Sarah Rezakhan
Specializzata in semiotica e iconografia dei media, ha pubblicato diversi saggi su riviste specializzate e dal 2008 lavora presso l’Osservatorio Internazionale Mediaset come analista di mercati televisivi internazionali.
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