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Politica e tv

Sulla crisi del talk, o meglio sul passaggio a un nuovo paradigma

Se c’è una certezza, è che i media seguono il pubblico, più che plasmarlo. E questo, più di tante analisi, ci spiega perché le tribune prima, e il talk ora, non bastano più.

I talk show rientrano, insieme agli altri formati di comunicazione che li hanno preceduti su piattaforme di ogni tipo e materia (la stampa, i pulpiti, le osterie, i salotti, fino ai social, gli ultimi arrivati per ora), nello scenario di una “conversazione pubblica” che incessantemente gira su se stessa su ogni tema di rilievo comunitario: dallo sport alla religione, dal sesso all’alimentazione, dallo show business alla politica. Questione oziosa, e dunque adattissima alle chiacchiere culturaleggianti, è se e quanto i media prevarichino la società in cui essi stessi si inzuppano. La parte del manipolatore è toccata di volta in volta al trono, all’altare, agli eretici che plagiano e corrompono i fedeli, alla parola scritta che banalizza freezandola l’espressività della comunicazione orale, alla stampa che imprigiona in schemi narrativi, alla televisione che alimenta la passività con la sonnolenza delle masse e intanto converte gli uomini in consumatori; e ce n’è anche per i social media, che mettendo ogni click nelle mani del navigatore ne incentivano la tendenza a frequentare solo quello che gli somiglia, il sito dei tifosi o quello dell’Isis, ed eleva a discorso pubblico i borborigmi e borbottii che un tempo restavano latenti.

Il ruolo dei destinatari

Noi però preferiamo guardare all’idea opposta: cioè che siano i “destinatari” a condizionare la comunicazione che i media rivolgono loro, e non viceversa. E che questo valga tanto sul piano dei contenuti (il famoso agenda setting) quanto sul piano dei linguaggi. E questo avviene attraverso l’azione di alcuni “stilemi”.

Il primo è quello della “notizia”. Il suo ascendente strutturale è il gesto teatrale, che sfrutta l’effetto-sorpresa (“accorrete, accorrete!”) per animare la fiammella di attenzione dello spettatore. Un gesto che funziona, da sempre, perché siamo tutti abituati a cogliere gli scostamenti dalla regolarità. Ma di quale regolarità parliamo? Esiste forse una “regolarità” naturale, che assorbiamo al contatto con la realtà? O non c’è piuttosto il sedimento dell’esperienza, che plasma storicamente i concetti e dunque il profilo di quello che è “normale” (ovvero del mondo delle “non-notizie”) aprendo automaticamente il campo alle “aberrazioni”, che sarebbero, per l’appunto, le notizie, almeno fin da quando il primo uomo ha deciso di mordere il suo cane. Insomma, se il linguaggio esprime il modo di rapportarsi al mondo, la distinzione fra notizia e non-notizia non l’hanno inventata i giornali, ma i loro lettori, che hanno cominciato a incidersi in testa qualche elemento ritornante nel guazzabuglio degli stimoli che ricevevano dai cinque sensi nuovi di zecca. I redattori non fanno altro che applicare, ubbidienti, i formati scaturiti da processi cognitivi basati sulla contrapposizione di “normale” ed “eccezionale”.

Il secondo, diffusissimo stilema, almeno dalle nostre parti del mondo, è quello per cui ogni fatto postula una causa. Il che è banalmente vero in sé, ma è impossibile da ricostruire in re, perché il più banale degli “accadimenti” proviene da fili talmente ingarbugliati che gli stessi quanti subatomici ci si smarrirebbero. Nondimeno, come l’aria ci serve per respirare, così la narrazione, il gioco delle cause e degli effetti, ci serve per non impazzire. E questo fa la fortuna delle messe in scena, comprese quelle dei narratori da video, i più sbrigativi per ragioni di audience nell’assumere punti interrogativi e volgerli dopo qualche giravolta in punti esclamativi.

Il terzo stilema è lo star system di riferimento. Come ai personaggi del mito greco, ai volti famosi si fa rappresentare, aumentata o diminuita, la realtà di noi stessi, in cui il narcisismo costitutivo delle individualità vuole vedere rispecchiati i vizi e virtù correnti. Al tempo della tv questa è roba da uomo medio, mica da semidio, sicché si contano a migliaia quelli che sgomitano per “essere notevoli” e potersi di conseguenza censire tra le celebrities, con relativi eroismi, malefatte e amori, come se fossero Zeus e Marte, per non parlar di Venere.

Il gioco meccanico dei tre stilemi è quello che manda avanti la tv e i talk show, tenendoli agganciati al senso comune corrente tranne quando, come saltuariamente capita, la società – il pubblico – si avventura in percorsi carsici che spiazzano i cuochi delle redazioni. In queste fasi i più svelti a fiutare le variazioni, i nuovi modi adatti agli ennesimi nuovi mondi, fanno scalpore e vincono al banco Auditel.

Come l’aria ci serve per respirare, così la narrazione, il gioco delle cause e degli effetti, ci serve per non impazzire. E questo fa la fortuna delle messe in scena, comprese quelle dei narratori da video, i più sbrigativi per ragioni di audience nell’assumere punti interrogativi e volgerli dopo qualche giravolta in punti esclamativi.

Breve storia del rapporto tra media e pubblico

In sostanza, se ci si imbarca a parlare del rapporto fra media e pubblico è sempre opportuno chiedersi, epoca per epoca, quale fosse il pubblico del tempo, invece di spaccare il capello in quattro sull’assetto dei media, sulle governance, sul talento degli intermediari, mezzibusti o conduttori a figura intera. Giacché è ovvio che le industrie dei media il pubblico lo inseguano, piuttosto che incaponirsi a plasmarlo. Proprie come farebbe qualsiasi fruttivendolo con le sporte che passano davanti al suo banchetto.

Basta qualche esempio. La Tribuna politica degli anni Sessanta riusciva a essere così “ordinata” perché organizzata intorno al confronto delle idee sintetizzate nelle ideologie dei partiti, che così diventavano i “narratori” del contemporaneo stadio di relazioni sociali e produttive. A esprimere tale panorama e le sue dialettiche interne si prestava perfettamente il pensare, lo scrivere e il parlare nella più classica e collaudata forma logico-sequenziale (il massimo della “narratività”), basata su gerarchie di concetti e (quindi) di “valori” agganciati alle correnti di idee, anche quando contrapposte. L’“unitevi” di Marx ed Engels rivolto ai proletari postulava una lettura condivisa del mondo da parte degli stessi contro cui l’unione avrebbe dovuto agire; e l’allora vigorosa sete di “giustizia” alimentava ogni schieramento sociale, salvo ognuno identificarla con i propri interessi. Sul piano ideale era una guerra di trincea che non consentiva il mischiarsi delle truppe, dei “nostri” e dei “loro”. E le Tribune politiche e i loro derivati (come Ring) ben si prestavano a rappresentare dando la parola ora all’uno ora all’altro, secondo lo schema della disputa: tu dici la tua, e io te la smonto per suffragare la mia che fa da contrappunto.

Di questa guerra di trincea, di queste dispute, non è rimasto nulla, perché prima la crisi petrolifera degli anni Settanta, poi il software, e ancora l’ultima globalizzazione hanno eliminato in occidente la “classe operaia”, pur continuando ovviamente a esistere gli operai in carne e ossa. E ciò che prima era cementato dalla organizzazione della produzione si è disperso in vicende individuali, sicché come l’armata di Cambise l’esercito di quei conflitti si è perso nel deserto della progressiva irrilevanza storica.

Abbiamo in cambio molti gruppi di interesse, tenuti insieme dal territorio, o dal rapporto con le casse pubbliche, o dalla gestione dei desideri di appartenenza, come le tifoserie di ogni ordine e natura. Legami concretissimi e immediati (qui è la loro forza, costituente del “populismo”). Ma proprio per questo assai friabili. Non hanno la forza di orientare la Storia, ma vanno benissimo per affollare i talk show, il genere della conversazione pubblica politica “orizzontale”, fra persone medie, che ha preso il posto della disputa tra leader. Se ne accorsero per primi Samarcanda e poi Milano, Italia, le tribune della “gente”, che per questo qualche decennio fa stravinsero rispetto al tic tac delle Tribune e all’inchiesta “chiusa” di cui si ornava il TV7 di allora.

Ma a giudicare dall’andazzo degli ascolti, anche di questa formula oggi sembra passato il tempo, come se la gente non credesse più all’incisività della pubblica conversazione, anche se affollata da se stessa. Può darsi che dietro questa ennesima crisi prema il passaggio a formati più adatti alla semplificazione personalistica, ossia alla tirannia democratica. E se questo è l’andazzo della società, state certi che i media non lo freneranno. Anzi, lo cavalcheranno, non appena avranno capito come si fa a montargli in groppa per far montare gli share.


Stefano Balassone

Vicedirettore di Raitre al fianco di Angelo Guglielmi, consigliere d'amministrazione Rai dal 1998 al 2002, è autore di numerosi libri scritti con Angelo Guglielmi e autonomamente, tra i quali La TV nel mercato globale (2000), Come cavarsela in TV (2001), Piaceri e poteri della TV (2004).

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