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Storyboarding. Intervista a Davide De Cubellis

Sempre più spesso anche in Italia, tra cinema, spot pubblicitari e serie tv, si fa ricorso agli storyboard, disegni che aiutano e vincolano ciò che accade sul set. Quattro chiacchiere con chi lo fa di mestiere.

Davide De Cubellis è un disegnatore romano che ha lavorato a moltissimi progetti, anche internazionali, ma di cui probabilmente non avete mai visto le opere. De Cubellis è infatti uno storyboardista, figura che, nel mondo dell’audiovisivo (cinema, tv, pubblicità, video musicali), aiuta il regista a visualizzare e decidere, mediante i disegni, le inquadrature di una sequenza che dovrà poi essere filmata. Quello dello storyboard è uno strumento all’ordine del giorno negli Stati Uniti, ma in Italia è usato con regolarità da meno tempo, eppure è sempre più utile in un settore che lotta contro budget risicati e tempistiche stringenti. Attivo dai primi anni Duemila, De Cubellis ha un passato da fumettista e copertinista per Aurea e Sergio Bonelli, avendo firmato serie come John Doe e Martin Mystère, ma è attraverso gli storyboard che si è fatto un nome, lavorando per marchi come Toyota, Coca Cola, Gucci, Whirlpool, L’Oreal, Volkswagen, e a produzioni come Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Il racconto dei racconti – Tale of Tales, We Are Who We Are, Suburra, Gomorra, Rocco Schiavone e Christian.

Immagino che disegnare storyboard non fosse un percorso professionale a cui avevi pensato da ragazzo.

Ho scoperto lo storyboard a 19 anni, frequentando la Scuola Romana dei Fumetti. Uno dei miei insegnanti, Paolo Morales, è stato un apripista di questo settore. Con Paolo si creò un rapporto professionale che mi portò a disegnare con lui Martin Mystère per dieci anni, e così ogni tanto mi passava dei lavori di storyboard. Era come assistere uno chef che cucina: un conto è vederlo, un altro è stargli a fianco e lavorare con lui. Ho fatto di tutto, dal fumetto all’illustrazione, ma mi piace cambiare ambito lavorativo e trovo la comfort zone soffocante. Se resto una settimana su un lavoro mi viene già voglia di cambiare. Quindi lavorare sugli storyboard è diventata la mia dimensione ideale, perché i tempi di lavorazione sono nettamente inferiori a quelli di un fumetto.

Sono cresciuto guardando documentari sulla realizzazione dei film, soprattutto americani, cui si vedono libroni pieni di storyboard. Succede così anche in Italia? 

È raro che in Italia si faccia uno storyboard per tutto il film. Gli storyboard, al di là del genere, si usano se ci sono difficoltà tecniche da superare, che possono andare da vincoli spazio-temporali, perché magari puoi girare in una location per pochissimo tempo – un sottomarino parcheggiato nel porto della marina militare italiana concesso per mezza giornata, per esempio. Questo può succedere per ogni tipo di film. O per scene più complesse che prevedono stunt o effetti speciali… Ma pure stupidaggini come Julia Roberts che fa una comparsata ma si rende disponibile per una giornata sola. Allora si lavora allo storyboard per capire quali piani giri con lei, e quali controcampi o campi larghi fai con la controfigura.

Come ci si muove in casi del genere?

Una volta abbiamo fatto uno spot per Vodafone con Bruce Willis che, a quanto pare, non si voleva spostare dalla sua casa di, credo, New York, e lo spot era ambientato a Barcellona. Tutte le inquadrature strette furono girate in America, in finti ambienti spagnoli. Le inquadrature esterne e larghe, invece, furono realizzate con la controfigura a Barcellona. Lì lo storyboard, oltre a essere il classico strumento che serve all’agenzia, al cliente e alla casa di produzione per fare le riunioni, serviva per prevedere su quali tagli coinvolgere Bruce Willis.

“È creatività applicata alla necessità. Nel fumetto piazzi la macchina da presa dove ti pare, nell’audiovisivo ci sono severe regole e limiti. Quando cambi tipo di inquadratura, devi avere una solida ragione narrativa, perché cambiare inquadratura significa spostare la macchina da presa e qualche volta re-illuminare il set, quindi serve tempo e denaro”.

Alla base però è uno strumento che serve per stabilire le inquadrature o ha anche funzioni collaterali, come terreno comune per i vari reparti?

Può avere molte funzioni, è sicuramente uno strumento di enorme aiuto. Il tipo di aiuto può cambiare in base alle situazioni. Un produttore e un regista potrebbero andare alla ricerca di finanziamenti e allora commissionano lo storyboard di alcune scene per accattivare i finanziatori. Kevin Costner fece fare degli storyboard a colori di Balla coi lupi per trovare finanziatori, perché probabilmente non aveva credibilità come regista e all’epoca i western erano demodé. Altre volte è un documento di vincolo. Sul Dracula di Francis Ford Coppola, una volta storyboardate le scene, la produzione faceva siglare le pagine a Coppola perché è notoriamente spendaccione e sfora dal budget con facilità. Lo storyboard diventa una specie di contratto. Quasi sempre comunque è un documento di dialogo tra i vari capi reparto, dalla regia alla scenografia. Uno scenografo guarda lo storyboard e dice “Ah vedi, qui avete inquadrato ’sto lato del set che io non avevo pensato di costruire perché avevate detto che era solo un’inquadratura”, quindi si fa una riunione e si decide se vale la pena.

Una volta concluso il lavoro, può capitare che ti richiamino dopo aver deciso di ripensare delle scene?

Se ci sono tanti soldi si rifà tante volte, ma qui non è consueto. Poi può capitare di essere richiamati, magari per gli effetti speciali. Nel cinema può succedere qualsiasi cosa, gli scenari sono sempre variegati e bisogna essere estremamente elastici.

Vale anche per il mondo della pubblicità?

Nella pubblicità lo storyboard ha più quella funzione di vincolo contrattuale che ti dicevo. Bisogna però distinguere: in pubblicità “storyboard” è il nome generico che si dà ai disegni prodotti dall’agenzia pubblicitaria. Sono in effetti disegni di inquadrature, ma non hanno nessun contatto con un set reale, o con reali problemi di messa in scena. Servono a dare al cliente un’idea di come l’agenzia vuole affrontare il progetto. Non sono fatti in fase di produzione ma in fase creativa, e sono supervisionati da un art director. Una volta approvata l’idea, l’agenzia coinvolge la casa di produzione che trasformerà quell’idea in film. Quindi vengo tirato in ballo io, che dialogando con il regista, lavoro su inquadrature reali e produco lo storyboard, che in ambito pubblicitario si chiama “shootingboard”. Uno shootingboard è generalmente più preciso di uno storyboard cinematografico, dove il margine di cambiamento è più ampio. In pubblicità si fa il conto delle inquadrature, gli ambienti disegnati sono quelli, e si dà al cliente un’idea molto più chiara e vincolante di come sarà realizzato lo spot. Tutto ruota intorno a budget proporzionalmente più impegnativi. Un’inquadratura in più fa differenza sul costo di produzione. Capisci che uno spot è costato tanto dal numero di ambienti usati: se stai in una villa, poi al teatro, poi sulla neve e infine all’aeroporto, sai che è uno spot costoso perché sono serviti almeno due o tre giorni di riprese.

Nelle pubblicità ci sono spesso più versioni di uno spot, a seconda degli slot televisivi. Lavorate tenendo conto di tutte le possibili durate?

Sì, spesso mi chiedono i tagli per le versioni brevi. Ti faccio un esempio scemo: le campagne Conad. Quando lanciano una campagna escono gli spot da 30 o 45 secondi, dopo una settimana partono quelli da 15 secondi. Siccome gli ultimi secondi di quegli spot servono a pubblicizzare un prodotto specifico in offerta, tipo “questa settimana prosciutto cotto a…”, si usano i primi dieci secondi dello spot lungo, poi fanno fare a me un’inquadratura nuova per far vedere il protagonista che saluta il salumiere e ci si attacca l’inquadratura del prodotto.

Quindi le pubblicità le senti un po’ più tue, a livello di creazione?

Non direi. Lo storyboard in realtà è più vicino al processo creativo quando si lavora su prodotti cinematografici. Però lo storyboard è e resta solo parte di un processo di produzione. Non è detto che un ottimo storyboard si traduca poi in un’ottima scena. Non è neppure detto che uno storyboard approvato si traduca poi nell’esatto trasposto cinematografico. Molte variabili, durante le riprese, possono portare a decidere diversamente da quanto stabilito in fase di storyboard.

Ti sono capitati esempi eclatanti di questa dinamica?

Avevamo pensato a un piano sequenza tecnicamente difficile per la serie Il processo: nella scena una ragazza scendeva dalla sua macchina e si incamminava, poi da fuori campo un’altra automobile la travolgeva e inchiodava. La macchina da presa seguiva tutta l’azione e senza interruzioni si spostava su un altro personaggio, il pubblico ministero (Vittoria Puccini), che stava osservando la scena come se in quel momento fosse stata davvero lì – in realtà era la ricostruzione del pubblico ministero durante il processo – dopodiché la macchina da presa si affacciava dentro l’auto e inquadrava la guidatrice, sospetta assassina. Noi volevamo fare tutto senza stacchi, ma per realizzare scene simili le norme di sicurezza prevedono che chi è colpito e chi guida debbano essere stunt. Abbiamo coreografato azione, movimenti della macchina da presa, quinte e fuori campi, con tale sincronia da permettere lo scambio fra attori e controfigure senza interruzione filmica. Ma la scena alla fine è stata girata coi tagli perché, dopo averla provata, si è capito che alla distanza prevista la stunt era troppo poco somigliante all’attrice, l’automobile da quell’angolazione sembrava poco “lanciata” e l’impatto quindi poco drammatico. Quell’idea comunque era frutto di un dialogo con il regista.

Ecco, come ti rapporti con i registi?

Qualche volta incontri un regista con le idee molte chiare, altre volte ti capita quello che predilige il dialogo, e poi ci sono i registi alle prime armi o un po’ meno esperti, che hanno bisogno di essere accompagnati. Quest’ultimo scenario mi capita sempre più frequentemente, perché inizio a essere più vecchio di molti registi – cosa che in realtà mi rende molto felice. Aspettavo da anni questo cambio generazionale. I registi giovani hanno un’energia primordiale, sono appassionati e percepiscono gli anni di palestra che ho alle spalle, soprattutto con gli spot pubblicitari, dove non ti puoi permettere un’inquadratura in meno o in più e devi sapere come veicolare le informazioni al meglio. Al netto di qualsiasi bilancio sull’economia e l’aspetto produttivo di una scena, l’aspetto più nobile del fare storyboard è e rimane quello di aiutare il regista a chiarirsi le idee su come trasformare in immagini un testo. Qualsiasi frase, qualsiasi descrizione può essere interpretata in un milione di modi diversi, a seconda di ciò che si vuole trasmettere.

Preferisci lavorare con quei registi che ti lasciano maggiore libertà?

Dipende dalla difficoltà delle scene. Se un regista ti affida una scena significa che ti conosce o che si fida, oppure che va di fretta e deve necessariamente delegare certi aspetti del lavoro. Michele Soavi, per esempio, su Rocco Schiavone mi ha incontrato a ridosso delle riprese: non avevamo mai lavorato insieme. Ci siamo fatti una rapida chiacchiera, lui ha capito qual è il mio approccio e mi ha dato via libera per impostare alcune scene. Lì la soddisfazione è che quando vedi il girato e le scene sono esattamente come le hai pensate tu, e il regista poi ti dice “la scena funzionava, era figa e semplice da girare”, allora hai ricevuto il miglior complimento possibile. C’è sempre da considerare che non si tratta solo narrazione visiva, non è solo “creatività”: è creatività applicata alla necessità. Nel fumetto piazzi la macchina da presa dove ti pare, nell’audiovisivo ci sono severe regole e limiti. Quando cambi tipo di inquadratura, devi avere una solida ragione narrativa, perché cambiare inquadratura significa spostare la macchina da presa e qualche volta re-illuminare il set, quindi serve tempo e denaro.

Le produzioni straniere in cui hai lavorato ragionano in modo diverso?

In America usano gli storyboard dagli anni Trenta, noi dagli anni Ottanta: hanno 50 anni in più di utilizzo nel loro codice genetico, quindi sono molto più abituati. Questo vale per tutta la filiera produttiva. Per un produttore americano è normale utilizzare lo storyboard, mentre un produttore italiano, specie se anziano, è più reticente. Gli americani hanno più confidenza con il mezzo e spesso non hanno i nostri problemi di budget. La produzione tipica italiana è un costante conto della serva: si tagliano o si riscrivono spesso scene per ragioni di budget: una specie di ossessione che ti tarpa le ali.

“Al netto di qualsiasi bilancio sull’economia e l’aspetto produttivo di una scena, l’aspetto più nobile del fare storyboard è e rimane quello di aiutare il regista a chiarirsi le idee su come trasformare in immagini un testo. Qualsiasi frase, qualsiasi descrizione può essere interpretata in un milione di modi diversi, a seconda di ciò che si vuole trasmettere”.

Ti è capitato, mentre lavoravi allo storyboard, di dare dei consigli di sceneggiatura?

Se in sceneggiatura qualcosa non ti torna, ne puoi parlare con il regista; poi sarà lui eventualmente a parlarne con lo sceneggiatore o chi di dovere. Tempo fa lavorai a uno spot Lines, il cui copione prevedeva in chiusura una scena corale: un corteo di donne con palloncini rosa in mano. Segnalai alla producer che quell’immagine avrebbe chiaramente ricordato la Race for the Cure, la maratona per la lotta ai tumori del seno. Fosse stato un riferimento voluto, benissimo! In caso contrario avrebbe potuto disorientare o creare fraintendimenti, rispetto al messaggio che volevano veicolare. Mi diedero ragione e modificarono il copione. Nella nuova versione tutte sventolavano una specie di piccoli braccialetti rosa da discoteca. Il problema è che quegli oggetti assomigliavano tantissimo a uno specifico e molto riconoscibile strumento di piacere sessuale. Di nuovo, feci notare la cosa. Anche qui, non ci sarebbe stato niente di male, se il riferimento fosse stato voluto… Alla fine, l’idea del corteo di donne con in mano un qualsiasi oggetto rosa sparì dallo spot! Immagino che dire la mia rispetto alla sceneggiatura in quella specifica occasione sia servito, in un modo o nell’altro. In pubblicità capita spesso che il regista intervenga sul racconto, quindi sul testo, perché molte volte i tempi o la scrittura non funzionano. Lavorando coi registi, sono spesso coinvolto in questi “aggiustamenti di tiro”. È un classico della pubblicità contemporanea: molta creatività con molte lacune, per inesperienza, per ignoranza, per mancanza di budget. In passato i creativi erano pozzi di cultura, ora si incappa più facilmente in situazioni alla Boris. Fortunatamente i registi pubblicitari sono ancora molto capaci.

Negli spot c’è differenza di lavorazione tra quelli che si vedono in tv e quelli per altri circuiti, più prestigiosi (profumi, moda, tecnologia)?

In linea di massima la differenza è il budget. Su campagne di fascia alta, più ci si spinge verso l’ambito fashion e più è possibile che il regista venga dal mondo della moda, dallo scatto fotografico, o non abbia una vera formazione da visual storyteller. Mi è capitato varie volte di incontrare registi che fondamentalmente erano fotografi di moda. In casi simili o il fotografo è competente, e l’impostazione che dà funziona, oppure non lo è, e allora chi fa il mio mestiere deve solo decidere se lavarsene le mani e dire “disegno quello che vuoi” o cercare di instaurare un dialogo per produrre immagini che siano anche racconto. Spesso su una pubblicità di moda non si fa neanche lo shootingboard; si parte da un’idea di visualizing d’agenzia, il regista gira uno o due giorni e poi si lavora al montaggio cercando di costruire un racconto che spesso è un polpettone di immagini oniriche. La modella che corre in mezzo a un campo di fiori, per dire. È strano, più ci si spinge verso budget altissimi e più è possibile trovare gli opposti: il capolavoro o la “cagata pazzesca”.

Mentre nei prodotti di consumo larghi c’è più una linea mediana?

Sì, solo che la linea mediana è mediocre. Sembro un boomer ma se parli con chiunque lavori nella pubblicità, tutti ti diranno che la qualità è crollata. Il problema principale sono le agenzie, perché le case di produzioni sono piene di gente in gamba e che lavora benissimo. Se non sai “fare” (produzione), sei immediatamente scaricato, mentre la “creatività” (agenzia) è sempre opinabile. A questo si sommano nuovi problemi che prima non esistevano: budget ridotti, perdita di potere delle agenzie e clienti che impongono più facilmente le loro idee (perché i clienti scarseggiano e le agenzie hanno paura di affondare), anche se sono idee tremende. È chiaro che se arriva il produttore di salumi che ti dice di voler vedere il maiale con il grembiule da macellaio che affetta un suo simile sotto forma di mortadella, e tu accetti perché sennò rischi di perdere il lavoro, il mondo della pubblicità ne esce danneggiato.

In passato era diverso?

Negli anni Ottanta si lavorava a consuntivo. Facevi quello che volevi, poi andavi dal cliente e dicevi “vabbè, abbiamo speso tot”. Tutte le grandi campagne hanno un sapore vintage. Non faccio paragoni con l’era di Don Draper, ma indubbiamente giravano più soldi e (c’è un nesso) idee migliori. Ogni tanto penso a come sarebbe un Boris ambientato nel mondo della pubblicità… Decisamente più allucinante.

Qual è l’esperienza lavorativa di cui sei più fiero?

Ogni lavoro è un’esperienza a sé, e io cerco sempre di trovare la parte appagante. Posso dirti: un film del passato che, a parità di incubi produttivi, se ci lavorassi oggi mi divertirei molto di più, è Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Semplicemente perché ho vent’anni in più d’esperienza e mi godrei solo il bello scrollandomi di dosso le ansie.

Quello è stato anche uno dei tuoi primi lavori, se non sbaglio.

È stato il terzo o quarto film a cui lavoravo. Ero inesperto in ogni senso della parola. Ma soprattutto è stata un’esperienza “produttivamente” folle, una specie di Lost in La Mancha.

E nella pubblicità ti sono capitate episodi altrettanto bizzarri?

Una volta sono dovuto andare in Sicilia per le riprese dello spot Amaro Averna con Andy Garcia, semplicemente perché lo voleva il regista. Rarissimo, quasi impossibile, che uno shootingboard artist debba andare sul set (nel cinema accade spesso). In produzione tutti mi guardavano in cagnesco, perché dal loro punto di vista ero solo un costo in più. Proprio in quell’occasione, una mattina la produttrice dello spot mi fece una piazzata davanti a tutti. Dopo un attimo di disorientamento, capii perfettamente che tutte le cose che mi stava urlando contro in realtà erano rivolte al regista, solo che non poteva dirle direttamente a lui. Sono dinamiche grottesche che capisci solo quando ti allontani dal tavolo da disegno e vesti i panni del documentarista in esplorazione attraverso un mondo “esotico”.

Ma in quel caso la tua presenza fu d’aiuto?

Evidentemente sì, per il regista. Io posso fare riunioni al volo su Skype da ogni posto. È questione di carattere, se un regista si sente a suo agio avendo i suoi collaboratori al proprio fianco…

In tv, il fatto che una serie tv sia di Netflix, Hbo, Sky o Rai, a parte i contenuti diversi, cambia il tuo modo di lavorare?

Questo è un discorso in evoluzione. Possono esserci vincoli di edizione. Può arrivare Netflix e dirti “la serie che stiamo producendo è molto simile a quella che stanno producendo i nostri competitor, allora cerchiamo tagli diversi o una certa riconoscibilità visiva. Su ogni scena, anche se non serve, metteteci un’inquadratura larga…”. Per dirne una a caso. Certe inquadrature possono essere proprio richieste per via del tipo di dispositivo su cui si fruisce l’opera, o perché in certi Paesi si è più abituati a uno specifico linguaggio visivo. Per quanto riguarda i contenuti, all’inizio tra le emittenti c’era una grossa differenza di qualità. Quella differenza rimane ma ora un po’ tutti cominciano a capire che per costruire un prodotto competitivo e rivendibile in altri paesi bisogna osare. È un percorso lungo, ci vuole tempo per cambiare mentalità e, a fronte di un apparente momento molto prolifico, se non ci si allinea allo standard di alcuni prodotti esteri, in pochi anni rischiamo di essere tagliati fuori dal mercato internazionale. Ma l’ostacolo più grosso resta sempre l’atteggiamento italiano del voler fare miracoli senza spendere soldi.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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