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Spotify alla conquista dei podcast

C’era una volta il podcast, abitudine per affezionati, spazio libero ai margini delle piattaforme. Fino a quando il colosso svedese non ha deciso di entrare nel mercato, con investimenti enormi.

Per quasi quindici anni i podcast sono stati un affare di Apple. Persino il loro nome è una crasi tra iPod e broadcasting, parola diffusa tra gli amanti del settore negli anni Zero e popolarizzata dal Guardian nel 2004 (un termine alternativo era MediaGuerrilla: ci teniamo podcast, grazie). L’aura di Cupertino ha aleggiato come un mentore, una figura paterna: iTunes, il famigerato software Apple, è stato la loro casa per tanti, tanti anni. La scelta di default per buona parte del pubblico. E proprio quando il settore del podcasting è maturato, arriva Spotify, dal nulla, a sconvolgere tutto – e a soffiare il giocattolo alla Mela.

Un medium antico e primitivo, i podcast, gratuito e libero ma anche difficile da spiegare ai neofiti, con quella via crucis di download e iscrizioni e feed Rss, relitti di un tempo così lontano. Per ascoltarli ci voleva iTunes o la famigerata applicazione iOS chiamata “Podcast”, scoglio insormontabile tra l’utente medio e il ventaglio di offerte del settore, e tanto bastava a tenere lontano i neofiti meno agguerriti. I programmini alternativi erano decine, ma nessuno di loro offriva una scorciatoia facile per l’utente medio. Ma le cose sono cambiate negli ultimi due anni. Molto. 

Cambio di passo

A vincere sull’imprinting che Cupertino teneva sul settore, non la concorrenza californiana di Google o Amazon (che comunque controlla da tempo Audible) ma Spotify, appunto, che ha recentemente deciso di conquistare tutto lo spettro dell’universo audio, senza limitarsi alla “musica”, e ha quindi puntato pesantemente sul podcasting. A comandare l’invasione di campo, il ceo Daniel Ek, algido 37enne svedese, con una mossa destinata a sconvolgere due mondi in uno: quello della musica – già tumefatto da decenni di rivoluzioni e insurrezioni, da Napster in poi – e quello, più indie e acerbo, dei “pod”.

Nel 2017, al quartiere generale di Spotify si accorsero degli ottimi numeri registrati nel mercato tedesco. Ek volò a Berlino, dove gli svelarono l’arcano: in Germania gli audiolibri sono controllati dalle etichette discografiche, che li avevano pubblicati su Spotify. Il pubblico apprezzava, compresi gli utenti free, a cui i capitoli erano sottoposti in ordine sparso e intervallati dalle odiose pubblicità.

Leggenda vuole che la grande invasione scandinava sia cominciata nel 2017, quando dal quartiere generale di Spotify si accorsero degli ottimi numeri registrati nel mercato tedesco. Numeri alti. Troppo, forse. Ek preparò le valigie e volò a Berlino, dove gli svelarono l’arcano: in Germania gli audiolibri sono controllati dalle etichette discografiche, che li avevano pubblicati su Spotify insieme al loro catalogo musicale. Il pubblico apprezzava, compresi gli utenti free, a cui i capitoli erano sottoposti in ordine sparso e intervallati dalle odiose pubblicità. “Se la gente li ascoltava nonostante tutte quelle limitazioni, è chiaro che ci fosse qualcosa di speciale”, ha spiegato Ek all’Hollywood Reporter nel 2018, a invasione già iniziata (o conclusa?).

L’anno dopo la visita berlinese, Spotify ha avvicinato Barack e Michelle Obama, proponendo all’ex first family un accordo con il servizio e mettendo un piede grande quanto la Casa Bianca nel settore. Poi, a cascata: l’acquisto del servizio Anchor, un’app gratuita pensata per produrre e pubblicare podcast, della rinomata casa di produzione Gimlet Media, responsabile di ottimi titoli quali Reply All, Homecoming (una fiction, un radiodramma insomma, diventata una serie tv di Amazon Prime Video) e Heavyweight. Mezzi tecnici, qualità, nomi grossi. Ma soprattutto: 400 milioni di dollari d’investimenti, somma che include il budget per l’enorme campus losangelino pensato per la scrittura e realizzazione di questi prodotti audio.

Fase due

Passi piccoli, passi medi. Qualche errore. Qualche nome grosso. Le cose sono proseguite così fino allo scorso maggio, quando siamo entrati nella fase due dell’invasione, con il contratto di esclusiva strappato a Joe Rogan per 100 milioni di dollari. Per chi non lo sapesse, Rogan ha 53 anni, è un comico, commentatore ed esperto di arti marziali che da anni presenta The Joe Rogan Experience, un talk show post-internet in cui parla con ospiti di gran calibro in un’atmosfera libera e poco, come si suol dire, politicamente corretta. Vi ricordate quando Elon Musk ha fumato uno spinello comicamente grande durante un’intervista? È successo lì. L’Experience è un mostro da 190 milioni di download al mese, un titolo che campeggia sempre nella top 5 dei più ascoltati. Ma è anche una mossa azzardata, se si va oltre i giganteschi numeri: Rogan è un personaggio adorato dai fan ma piuttosto controverso, che negli anni scorsi ha ospitato più di una volta Alex Jones, per esempio, il più folle ed estremista dei commentatori politici americani, anche dopo che Jones aveva accusato i genitori delle vittime di una strage in un liceo americano di essere parte di una “montatura”. 

L’affaire Rogan mostra quanto Spotify faccia sul serio. E porta anche in luce i rischi che il settore corre se viene divorato dalle platform wars. Parlavamo dei feed Rss, per esempio: è quell’antica tecnologia che permette di “abbonarsi” a un certo blog/sito/podcast/pubblicazione e riceverne gli aggiornamenti. Come? In tempo reale. E in ordine. Ripetiamo: in tempo reale e in ordine. Questo tipo di feed è il dna di quello che chiamavamo web 2.0, quella fase del web che ha preceduto l’ascesa delle piattaforme e dei social network, con i loro algoritmi a divorare tutto. Aprite Facebook o Instagram o Twitter: nulla di quello che vedrete sarà “in tempo reale e in ordine”, ogni profilo avrà una selezione accurata di post e reazioni sulla base delle informazioni che il servizio ha sugli utenti. Gli Rss trattano ogni post allo stesso modo, una cosa che nella Silicon Valley di questi tempi, tutta growth hacking e monetizzazione, passa per una farneticazione maoista.

Aprite Facebook o Instagram o Twitter: nulla di quello che vedrete sarà “in tempo reale e in ordine”, ogni profilo avrà una selezione accurata di post e reazioni sulla base delle informazioni che il servizio ha sugli utenti. Gli Rss trattano ogni post allo stesso modo, una cosa che nella Silicon Valley di questi tempi, tutta growth hacking e monetizzazione, passa per una farneticazione maoista.

L’estinzione dei Rss è indice di un altro fenomeno più grande e importante: la chiusura del world wide Web e la sua balcanizzazione tra una manciata di giganti tecnologici. Spotify vuole controllare il mercato dell’audio, diventare quello che YouTube è per i video. Come ha scritto il vlogger, scrittore e podcaster Hank Green (fratello del John autore di Colpa delle stelle e Cercando Alaska) in un editoriale per il Washington Post, consegnare un medium intero a una singola azienda presenta dei rischi enormi, specie per i creator che su quella piattaforma contano: “in sostanza, nel mondo del video, sono vincolati agli obiettivi e le regole di YouTube. Quando YouTube cominciò a preferire video più lunghi qualche anno fa, i creator hanno cominciato a farne di più. Gli affari di chi li faceva più corti sono andati in fumo”.

Audio company

Servizio di streaming? No, quando mai. Ora Spotify è una audio company, un’azienda specializzata nel farci ascoltare cose – siano esse musiche, audiolibri, audiodrammi, l’ultima stagione di Muschio Selvaggio: poco importa. Vale la pena precisare che non è una strategia inedita, nemmeno nello stesso settore del podcasting: servizi come Stitcher e Luminary si presentano da tempo come piattaforme in grado di offrire contenuti esclusivi, tramite un servizio ad abbonamento, strategia collaudata con cui assicurarsi qualche abbonato in più. Se a farlo è una startup in cerca di un proprio spazio, nessun problema.

Quando a farlo è un leviatano da 96 milioni di abbonati, competitor di colossi quali Amazon, Apple e Google, ecco che le cose cambiano e una strategia di per sé innocua può diventare una dichiarazione di guerra e una rivoluzione culturale, oltre che di settore. Una mossa con ripercussioni profonde che vanno ben oltre il mercato discografico e audio, arrivando a condizionare cosa ascolteremo e come, cosa avrà successo, e perché, proprio come Spotify ha cambiato le abitudini musicali di milioni di persone, spingendo playlist e canzoni singole a dispetto degli album interi. C’è poi il ricatto dato dalle dimensioni di Spotify: a questo punto, creare un podcast senza tenere in considerazione il servizio è una follia, considerando l’oggettiva facilità d’utilizzo dell’app e la sua capacità di promuovere nuove uscite. 

I podcast erano l’ultimo appezzamento di frontiera rimasto libero e selvaggio, senza grandi città ma con qualche colonia, un Far West di cui si apprezzava l’unicità, in tempi di platform economy. Non poteva durare per sempre.


Pietro Minto

Caporedattore di Prismo, collabora con La Lettura del Corriere della Sera e Rolling Stone. Ha una newsletter che si chiama Link Molto Belli.

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