Il Festival della canzone italiana non è solo un insieme di canzoni, un programma televisivo, un rituale condiviso. Ma è una fucina inesauribile di memorie, ricordi, esperienze che si conservano nel tempo.
Uno dei ricordi più vividi che ho di Sanremo non è davanti alla tv. Sto andando a ballare – è sabato sera – poco fuori Milano. Seguo già per lavoro il Festival, ma Europa, il mio giornale, non esce domenica e mi risparmio la visione: sì, succede. Mentre sono in macchina, apprendo dai social l’annuncio del podio che si gioca la vittoria: Mengoni, Scanu, Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici. Vengo a sapere anche della protesta degli orchestrali, allora chiedo al mio amico in macchina con me di accendere la radio. O è il contrario? La radio era accesa e alla protesta degli orchestrali ho sbirciato i social? Il ricordo c’è, ma fluido. Non ho mai visto in diretta il lancio di spartiti dell’orchestra indignata, ma nella mia memoria ho impressa l’immagine dei fogli bianchi volanti. L’ho vista dopo? La sto ricostruendo grazie a quello che so? Importa davvero? La verità è che io ricordo. Sì, “ricordo” quella serata che avevo voluto evitare.
Ho molti ricordi veri, possibili, plausibili del Festival fin da bambina. Cantare tutti i brani inventando la musica, con Tv Sorrisi e Canzoni in mano. Urlare Maledetta primavera (non è possibile, non avevo manco due anni quando la Goggi la presentava all’Ariston). Apprendere della morte di Claudio Villa nella vecchia casa dei miei, nel mio lettino. Ricordo anche la prima volta che il Festival divenne luogo concreto, quando ho iniziato a seguirlo dalla sala stampa dell’Ariston. Il ricordo di Sanremo mutava allora in qualcosa di ancora diverso: memoria di amicizie e relazioni professionali, memoria “storica” da dietro le quinte, memoria di una dimensione giornalistica diversa da ogni altro festival. Ricordo la stanza di una casa di riposo per anziani dove mi è capitato di stare un anno a prezzo modico (Sanremo è quasi più caro del Lido durante la Mostra, ci si arrangia). Ricordo quell’altra casa, condivisa con tre amici, che aveva in sala un dipinto della Madonna e l’inginocchiatoio. Giuro. Sì, mi ricordo.
Settant’anni di Sanremo, di storia d’Italia, di memoria collettiva. Quarant’anni miei, di storia mia, di memoria mia. Si intrecciano, si separano, si sovrappongono. Si fondono e confondono. Non starò a elencare qui la lunga bibliografia dedicata alla tv e ai media come creatori, propagatori e luoghi di memoria. È ormai un luogo comune. Eppure è bastato chiedere qua e là ad altre persone “cosa ricordi di Sanremo?” per scoprire come questo luogo comune faccia scoprire ancora tanto. Naturalmente, quella che leggete qui è una ricerca parziale, non scientifica. Il campione di persone da me interrogate è il mio campione, quello a me più vicino per parentela, età (generazione dai 35 ai 45 anni, pochi anziani, nessun giovanissimo), relazioni amicali e lavorative, nessun “nuovo italiano” (sarebbero uno spaccato interessantissimo). Un campione che alla domanda “se ti dico festival, qual è la prima cosa che ti viene in mente?” è andato quasi sempre a pescare il ricordo d’infanzia, perché le prima volte da bambini sono quelle che impattano di più e perché la memoria a un certa età tende a essere nostalgica (ma pure un dodicenne mi ha detto “ricordo mia madre con i suoi amici, eravamo in campagna, e c’era un rapper che mi piaceva, Moreno”, insomma pure lui ha già una memoria storicizzata). Un campione speciale perché, dato il lavoro che faccio, frequento di più chi ha familiarità con la cultura pop e popolare. Un campione che non vale statisticamente nulla, o magari qualcosa sì: un pezzettino di memoria che forse suona familiare a tutti e spiega cosa sia il Festival di Sanremo.
“Mi addormentavo sulla poltrona del salotto e mio padre a notte fonda mi prendeva in braccio e, mentre mi portava in camera, sentivo la voce di Pippo Baudo e il vincitore che cantava… Oggi invece mentre canta il vincitore, io sveglio mia moglie dicendo ‘Ao’, è finito… andiamo a letto!’”.
Memoria di casa
Il festival è visione casalinga. È memoria di cose concrete: il dove del festival non è tanto lo schermo, quanto il particolare luogo fisico da cui lo si guarda; il quando è la sera, ma anche una sorta di notte infinita, di dormiveglia, di sogno o stato febbricitante (metaforico o letterale). Quello che emanano i ricordi è però anche quella che chiamiamo “aria di casa”: la concretezza scivola nel sentimento.
Mi ricordo il lettone dei miei, a notte fonda, e Pippo Baudo che legge la classifica finale.
Mi ricordo il divano e le mille sigarette di mamma. Poi Anna Oxa che scende le scale.
Ero sul divano con mia madre che si addormentava alla prima canzone.
Lo vedevo seduta per terra sul tappeto, sul divano dei miei nonni.
Ero sul pavimento, e chiedevo lumi ai miei sul funzionamento del Totip.
Durante un’edizione eravamo tutti malati, io, mio fratello e i miei, e l’abbiamo visto tutti insieme nel lettone.
Ero a letto o sul divano con la febbre, le canzoni passavano sullo schermo in una sorta di delirio.
Mi addormentavo sulla poltrona del salotto e mio padre a notte fonda mi prendeva in braccio e, mentre mi portava in camera, sentivo la voce di Pippo Baudo e il vincitore che cantava… Oggi invece mentre canta il vincitore, io sveglio mia moglie dicendo “Ao’, è finito… andiamo a letto!”.
Memoria familiare e relazionale
C’è da chiedersi quanto possa sopravvivere questa condivisione casalinga, oggi che ognuno ha la sua possibile visione su dispositivo personale. Già negli anni Ottanta, quando iniziano a frammentarsi i consumi e a moltiplicarsi gli schermi, qualche ricordo comincia a essere privato, pur nell’ambito familiare (“Mi ricordo i Duran Duran, ero in camera mia, guardavo la mia tv”). Eppure negli ultimi anni è emerso un nuovo luogo di condivisione, virtuale ma reale, su cui vedere Sanremo: i social. Chissà cosa accadrà con Tik Tok quest’anno. Come suggerisce Jérôme Bourdon in Some Sense of Time (in “History & Memory”, 15(2), 2003), il ricordo televisivo è basato su un inestricabile intreccio di testo e di contesto: è ricordato non tanto e non solo un singolo programma, ma l’interazione tra i componenti della famiglia durante la visione. O l’interazione con gli amici, i colleghi, “il popolo del web”. Data la sua natura di evento, di gara e quindi di commento condiviso, Sanremo resiste alla frammentazione dei consumi, e resta memoria di contesto reale o digitale.
Andavo a letto con la promessa che quando arrivava Gianni Morandi dovevo essere svegliata a ogni costo. La promessa era mantenuta e vedevo il Festival sdraiata sul tavolo del soggiorno, avvolta in un plaid.
Appena finiva la diretta cominciavo a ricantare tutte le canzoni davanti a mia nonna, esibendomi come se fossi sul palco, e lei poverina se lei sorbiva tutte.
Non volendo rinunciare alla discoteca di Carnevale, a 15 anni attendevo che mamma mi venisse a prendere per sapere chi aveva vinto, visto che dovevo lasciare la finale a metà.
Mi ricordo mia mamma che guarda Mia Martini e sospira “Come è bella”, io che penso “Mica tanto” però non lo dico perché voglio compiacerla e dal giorno dopo giro per casa canticchiando “Tuuuu tuuu che sei diveeeerso”.
Per la finale la mia coinquilina mi obbligava a vestirmi tipo ultimo dell’anno e lei con il vestito di paillettes tutta truccata. Ci mettevamo seduti su un divano con una coperta zebrata e i cuscini di pelo rosa.
Ricordo le chiacchiere all’intervallo a scuola quando ci si chiedeva chi avrebbe vinto tra Toto Cotugno e Al Bano e Romina. Il mio amico Marcello, dopo il festival migliore di sempre, con Anna Falchi e Claudia Koll, disse: “Sanremo dovrebbe urlare tutto l’anno”. (Io: Urlare?) Durare, durare, ho scritto male. (Io: Ah, anche urlare è bellissimo…).
Memoria tecnologica
Se volessimo analizzare l’evoluzione della tecnologia, Sanremo sarebbe perfetto. Per quella ufficiale e televisiva, come per quella non ufficiale, non televisiva. Sanremo è visto e sentito grazie alla tv ma anche fatto proprio da una serie di usi creativi di varie tecnologie, dalla scrittura alle riviste e alle cassette. L’evoluzione lenta dei device portatili preannuncia la malleabilità digitale (se il campione intervistato fosse più giovane, probabilmente si ricorderebbe il suo primo meme tratto da Sanremo…).
Mi ricordo Aleandro Baldi con “Non amarmi”, seduta sulla sedia in cucina con la tv in bianco e nero.
Sanremo 1977, primo Sanremo a colori con la mamma, la Clelia e basta. Ero già un fanatico di gare di canzoni.
Vedevo il Festival su una vecchissima tv che mi aveva regalato una zia di mio padre, tutta scassata ma l’adoravo.
Il primo Sanremo che ricordo è il 1978. Ho la cassetta ma rigorosamente tarocca, da autogrill, con i cantanti finti e con canzoni aggiunte a caso.
Mi ricordo quando ho voluto le cassettine e mio padre le ha prese al mercato piratate e sopra c’era musica dance e io invece volevo sentire Barbara Cola.
Soggiorno di casa, registratore davanti alla televisione e cassetta ascoltata in macchina la domenica dopo la finale.
A letto da bambino lo ascoltavo insieme a mio fratello con una radiolina.
Tozzi, Morandi e Ruggieri che vincono con “Si può dare di più”, e io che sottolineo tutte le parole più significative delle canzoni su Tv Sorrisi e Canzoni.
Io piccola innamorata di una canzone prima della tecnologia, allora papà ascolta il testo e cerca di memorizzarlo e mamma lo scrive su un block notes. Ricordo ancora che era metà in rosso e metà in blu perché a un certo punto la penna aveva smesso di funzionare. Poi arrivano i cugini, ero felicissima di quella atmosfera…
Mi ricordo la Goggi che canta “Io nascerò” e mio babbo che la faceva ascoltare a me e mia sorella, facendo la tenda con le lenzuola in camera da letto, dopo averla registrata dalla tv la sera prima con un piccolo registratore con una mini cassetta.
Mio padre aveva comprato il televisore Sony, costava tantissimo, si comprava a rate. Aveva tre led avanti e il terzo si illuminava solo quando trasmetteva in stereofonia. Si attivava solo quando c’era Sanremo. Mio padre lo faceva notare sempre, si vantava con mia madre. Ovviamente per giustificare l’acquisto deficiente. E mia madre annuiva…
Memoria di gusto e di critica
Sanremo detta i gusti, nel bene e nel male, nella condivisione e nell’opposizione, nell’adesione senza freni e nella vergogna mal nascosta. È una gara, non dimentichiamolo, sul palco e non solo, un luogo di antagonismi canori e polemiche su qualsiasi cosa. Così forma, o meglio perpetua, alcune caratteristiche dell’animo italico: la litigiosità e il gusto per la critica.
Mi ricordo Vasco arrivato ultimo e mio papà che dice: “Questo farà il botto”.
Vasco che alla fine di “Vita spericolata” si mette in tasca il microfono e se ne va, mio padre dice “Ma quello è proprio un cretino, non farà nulla di buono nella vita”, e io invece adorante 15enne già fan. E poi mia mamma che critica tutte le canzoni, ma proprio tutte, e poi dal giorno dopo le canticchia mentre lava i piatti.
Guardarlo con mia nonna e sentire i suoi commenti su improbabili mise e canzoni (rigorosamente in dialetto stretto).
Io davanti al camino con madre, zia e cugini vari, equamente divisi a fare il tifo per Laura Pausini e Geraldina Trovato, tipo guelfi e ghibellini, muniti di arachidi, nocciole e castagne.
Mi ricordo qualche anno fa, da un’amica, ci trovavamo insieme e facevamo le schede per dare i voti, canzone, interpretazione e naturalmente look.
Il Sanremo che vinse Alice con “Per Elisa”. Votava la giuria di qualità presieduta da Alberto Sordi (altrimenti figurati se vinceva, ricordo qualche vaga polemica), e mia mamma dice “ma questa ha la stessa voce di Milva”.
Sul divano del salone dei miei, innamorata di Luis Miguel e dei suoi “Ragazzi di oggi, noi, siamo fuoco sotto la cenere”. Ma non lo confessavo, perché nel tempo libero ascoltavo David Bowie e De Gregori.
“Ricordo che quando ho sentito La solitudine ho pensato ‘È quello che provo per Paolo’, compagno di classe che non mi filava di striscio (non era andato via, diciamo che non era mai arrivato…). Ricordo mia nonna che vedendomi ‘impallata’ durante l’esibizione mi disse ‘Hai visto i marziani?’. Una pizza al trancio ha distolto l’attenzione per qualche secondo, ma la sofferenza è ancora viva in me”.
Memoria choc
Sanremo è anche il momento in cui cose mai viste, previste o impreviste, arrivano in casa, e colpiscono facilmente la memoria di chi fino ad allora era spesso stato più protetto, bambini e ragazzi.
Ricordo la schienata di Peter Gabriel sul palco, cantando “Shock the Monkey” attaccato a una liana.
Mi ricordo la mia babysitter che cercava di spiegarmi il significato di “La terra dei cachi”.
La Bertè travestita da donna incinta, tutti scandalizzati e io che non capisco il perché.
Il gesto “Volare” di Modugno, in un televisore a casa di amici. Un gesto che mi ha incuriosito e sorpresa tanto da restare impresso persino più della canzone.
C’era un’aria tremenda a casa mia, soprattutto mia madre: era l’anno di Luigi Tenco.
Mi ricordo Brian Molko che spacca la chitarra e la gente che lo fischia.
Adoravo Tom Hooker sui pattini e la tutina da Star Trek! Quando l’ho beccato alle prove – durante la classica gita scolastica – non ci stavo più dentro… (Io: L’hai beccato in gita?) Sì, sono di Sanremo, ci portavano in gita all’Ariston.
Memoria d’amore
Non devo nemmeno spiegarla. E non devo spiegare nemmeno perché la connessione è quasi sempre “amore come dolore”. Anche se talvolta Sanremo regala inaspettate epifanie…
Mi ricordo che prima di ogni edizione di Sanremo sono sempre stata mollata.
Vivevo con mia nonna in quegli anni, ne avevo circa 15, eravamo in sala, ricordo che quando sentito “La solitudine” ho pensato “È quello che provo per Paolo”, compagno di classe che non mi filava di striscio (non era andato via, diciamo che non era mai arrivato…). Ricordo mia nonna che vedendomi “impallata” durante l’esibizione mi disse “Hai visto i marziani?”, mentre apparecchiava la tavola con insalata e pizza acquistata sotto casa. La pizza al trancio ha distolto l’attenzione per qualche secondo, ma la sofferenza è ancora viva in me.
Primi anni 2000. Lido degli Estensi con lui. Nebbia folle e musica terribile. Ci siamo mollati il giorno dopo.
Grazie a Sanremo ho scoperto di essere lesbica, perché mi sono innamorata perdutamente di Anna Falchi e sono rimasta innamorata di lei per almeno tutte le medie.
Il luogo (comune) della memoria
Lo dice Bourdon, ricordare la tv non è solo sinonimo di ricordare la visione della tv ma anche di ricordare un contesto. Le immagini creano memorie legate a due ambiti sociali, la famiglia e la nazione, forgiando l’identità di ciascuno. Questo vale a maggior ragione per Sanremo, la cui storia è lunga ben settanta edizioni (di cui sessantacinque in tv), e copre così gran parte della storia d’Italia del secondo dopoguerra. Sanremo è insieme memoria di sfondo (legata alle abitudini e alla routine, formatasi in un lungo periodo, basata sulle interazioni familiari) e memoria al di fuori della normalità (Sanremo è un media event, ripetuto di anno in anno). Sanremo è un oggetto di memoria culturale (nell’accezione di M. Sturken, Tangled Memories. The Vietnam War, the AIDS Epidemic, and the Politics of Remembering, University of California Press, Los Angeles 1997), quella memoria condivisa fuori del normale discorso storico ma coscientemente investita di significati culturali. Per pervasività ed eccezionalità, Sanremo è l’oggetto per eccellenza della memoria culturale italiana degli ultimi settant’anni. E allora Sanremo mi ricorda la famosa scena di Mad Men, in cui Don Draper spiega la pubblicità della macchina di diapositive Kodak:
Nostalgia significa letteralmente il dolore proveniente da una vecchia ferita. È uno struggimento del cuore di gran lunga più potente del ricordo. Questo aggeggio non è una nave spaziale, è una macchina del tempo. Ti può portare avanti e indietro. Ci porta in un posto dove vogliamo di ritornare. Non si chiama “ruota”, si chiama “giostra”. Ci fa viaggiare nel modo in cui viaggia un bambino. Gira e rigira, e poi torna a casa. Che è il posto dove sai di essere amato.
Non è tanto il riferimento alla nostalgia, anche se ovvio la memoria spesso di quella è pregna. Sanremo è come direbbe Draper una macchina del tempo. Nel bene e nel male, è un luogo dove moriamo dalla voglia di tornare, la casa dove siamo amati. Una giostra che ci fa viaggiare come i bambini: gira e rigira, e poi di nuovo a casa, l’Italia. Il nostro Don Draper però è Checco Zalone, che in Quo Vado riscopre la patria vedendo Al Bano e Romina al Festival del 2015 mentre cantano Felicità: “Ma quindi sono tornati insieme. Sapete questo cosa significa per il mio Paese?”. Ricordare Sanremo è ricordare di essere italiani all’ennesima potenza. È insomma il luogo (comune) della nostra memoria sociale e culturale: va analizzato nella sua complessa profondità ma ammirato nella sua immediata banalità. Sanremo è… Sanremo. Sanremo (sì, lo dico) è come la pizza, la pasta, la mamma.
Mi ricordo che andavamo in giro per Napoli, io e tua zia. Allora non avevamo la tv, vedevi solo queste luci accese nelle case di chi ce l’aveva. Qualcuno alle volte metteva a disposizione casa sua, o meglio una sedia, per 10 lire. Mi ricordo, sì mi ricordo, che durante Sanremo andavamo in giro per strada e sentivamo la canzoni, c’era la musica per tutti i vicoli di Napoli. E una volta da una finestra di una casa vidi una luce, sbirciai dentro e vidi la tv, e vidi Nilla Pizzi.
(Pure io, classe 1979, mi ricordo di aver cantato la Goggi durante il Sanremo 1981, ma è difficile che sia davvero andata così. È invece probabile che mia madre, classe 1948, abbia visto da bambina Nilla Pizzi in una delle tre edizioni tv a cui la cantante partecipò, 1958, 1959 e 1960. Ho verificato, da storica. Memoria personale e ricostruzione storica scorrono parallele, si intrecciano, si stimolano a vicenda).
Stefania Carini
Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L’Italia di Carlo Vanzina). Ha scritto Il testo espanso (Vita e Pensiero, 2009), I misteri de Les Revenants (Sperling&Kupfer, 2015), Ogni canzone mi parla di te (Rizzoli, 2018), Le ragazze di Mister Jo (Mondadori, 2022). Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar (Mondadori, 2024).
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