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Il futuro è già Quibi?

Contenuti brevi, leggeri e di valore: che ci sia spazio per un nuovo servizio on demand e mobile? Jeffrey Katzenberg dice di conoscerci meglio di quanto pensiamo, vedremo se ha ragione.

“Non avete mai visto nulla del genere”. Questo è quanto, a detta del suo artefice, ci dovremo aspettare da Quibi, l’ultimo sfavillante progetto del mogul dell’industria audiovisiva Jeffrey Katzenberg. Nato dall’incontro tra “quick” e “bites” (letteralmente “piccoli bocconi”), Qui-bi è stato presentato al CES di Las Vegas come rivoluzionario servizio di streaming a pagamento che, dal 6 aprile, vuole conquistare lo spettatore più “affaccendato” con una proposta unica, fatta di contenuti rigorosamente brevi – mai più di 10 minuti – e fruibili esclusivamente su dispositivi mobile. Nel confusionario tragitto casa-lavoro, nella sala d’attesa del dentista o in qualsiasi piccolo momento di libertà transitoria, il consumo on the go è rivolto al cittadino contemporaneo, costretto a convivere con la frenesia della quotidianità, che ha poca voglia di aspettare la fine della giornata per gustarsi le sue serie preferite.

Chi quindi pensa che Quibi dovrà competere con i più canonici servizi di streaming on demand – quelli che prediligono la tranquillità del divano di casa e l’esperienza dell’ampio schermo televisivo (vedi alla voce Netflix e dintorni) – non ne ha compreso la vera natura, tantomeno gli obiettivi preventivati dal suo architetto. L’idea alla base dell’inedita proposta è prendere gli aspetti qualitativi della produzione audiovisiva più raffinata, coinvolgendo figure del calibro di Steven Spielberg e Leonardo Di Caprio, per proporli in una dimensione tanto frequentata quanto frenetica, prevalentemente dominata da contenuti amatoriali: “Non che questi ultimi siano da metter completamente da parte”, sostiene Katzenberg, “gli UGC sono stati fondamentali per creare una nuova abitudine, è però arrivato il momento di soddisfare tale tendenza con qualità in grado di fare invidia alle migliori produzioni hollywoodiane”.

La proposta

Va da sé che ottenere un risultato di questo genere significa necessariamente far riferimento a costi di produzione impegnativi, che inevitabilmente ricadranno sugli utenti. Questi potranno scegliere tra due opzioni mensili, una da $4,99 e una da $7,99, in base a quanto sapranno essere pazienti nei confronti degli inserti pubblicitari. Lecito il vociare dei più scettici, increduli dinanzi a una proposta che deve fare i conti non solo con i portafogli degli utenti, presumibilmente già impegnati in altri abbonamenti, ma anche e soprattutto con piattaforme gratuite come Instagram, YouTube o TikTok. Non si tratta certo di una sorpresa per Katzenberg, che non sembra esserne preoccupato: “Abbiamo preso i social come punto di riferimento, convinti di poter fare molto meglio; perché, con rispetto parlando, loro non sanno fare quello che facciamo noi”. Per far gola ai consumatori, Quibi si presenta infatti al tavolo da gioco con una proposta – almeno sulla carta – di primissima qualità, resa possibile grazie ai quasi due miliardi di dollari raccolti per il progetto e alla vasta rete di conoscenze di Katzenberg. E si traduce in una programmazione ricca di contenuti eterogenei, 50 al lancio e diversi altri già in produzione, con l’obiettivo di soddisfare tutti, dai palati più fini a coloro che cercano una breve distrazione.

Sull’ultimissimo punto occorre riflettere con attenzione, soprattutto rispetto al consumo “transitorio” a cui Quibi fa riferimento. A dispetto di quanto si è soliti pensare, è spesso il contenitore a determinare il contenuto, non il contrario. Un concetto che YouTube, per esempio, ha chiaramente sottovalutato nel progettare il loro servizio a pagamento: l’insuccesso di YouTube Premium è imputabile al fatto che i suoi ideatori non hanno compreso che vincere il cuore degli spettatori nei tempi interstiziali significa rendersi conto che, di prima mattina o a fine turno lavorativo, quello che lo spettatore cerca è una risata facile e non un’epica performance da Oscar. Morale della favola: l’azienda si è rivelata rivale a se stessa. È una lezione da cui Quibi sembra aver imparato qualcosa, perché se da un lato i contenuti scripted presentati in pompa magna rimandano alla retorica della qualità cinematografica, dall’altro il servizio offrirà tanti altri contenuti più consoni alle suddette condizioni dettate dal consumo on the go.

La programmazione

Reese Whiterspoon si fa portabandiera di questa volontà di unire l’utile al dilettevole, nonché della programmazione unscripted di Quibi come voce narrante per Fierce Queens, un curioso documentario naturalistico – anch’esso rigorosamente a episodi – che prende a esempio il mondo animale per puntare il dito contro il maschilismo e allinearsi all’imprescindibile cultura del #metoo. In parallelo, il catalogo offrirà servizi di informazione quotidiana, elementi della library Daily Essentials, a cui si aggiungono una miriade di pillole giornaliere travestite da programmi di varia natura: Sexology with Shan Boodram, in cui il conduttore, esperto sessuologo, dispenserà trucchi e consigli per una perfetta relazione amorosa; The Daily Chill, che punta a rilassare anche il pendolare più stressato a suon di video ASMR – fenomeno dilagante, guarda caso, su YouTube; passando ai notiziari meteorologici, ai video-recap dei maggiori eventi sportivi con The Replay, prodotto da Espn, e numerosi altri contenuti che vedranno come protagonisti diverse star dello spettacolo, da 50 Cent a Kendall Jenner. L’intento, in poche parole, è quello di fondere performance da Oscar con tutto il resto, ovvero tutto ciò che il consumatore medio immagina di voler vedere: sport, cucina, musica e chi più ne ha più ne metta.

“Non che i contenuti amatoriali siano da metter completamente da parte, gli UGC sono stati fondamentali per creare una nuova abitudine, è però arrivato il momento di soddisfare tale tendenza con qualità in grado di fare invidia alle migliori produzioni hollywoodiane”.

Al di là delle decorazioni scintillanti, vale la pena soffermarsi a parlare di Quibi perché ci concede di indagare, da una prospettiva inconsueta, l’ineffabile desiderio dello spettatore contemporaneo. Ovvero di provare a trovare una soluzione all’annosa questione: è nato prima l’uovo o la gallina? Che tradotta in termini audiovisivi risulta: chi è in controllo del desiderio? Una domanda conscia e propositiva a cui l’offerta fa religiosamente riferimento, o viceversa? Quibi ci dimostra che c’è ancora chi crede nelle scommesse, nelle idee originali, e che è convinto che non sia detto che ciascun individuo sia il migliore conoscitore di sé stesso. Non si tratta di ragionare solo su cosa il pubblico vuole o non vuole vedere; indagare ulteriormente il desiderio dello spettatore significa prendere in considerazione anche le modalità con cui i contenuti sono proposti: il successo di Netflix non è dipeso dal fatto che il suo Titanic fosse più bello di quello del suo competitor di allora, Blockbuster; se entrambi si proponevano come distributori di film a noleggio, l’intuizione di Netflix è stata di assecondare la scelta del cliente, offrendo un catalogo personalizzato e scavalcando i punti vendita fisici grazie alla consegna a domicilio. È in un discorso simile che si deve provare a cogliere il presunto valore aggiunto di Quibi.

Valore aggiunto

Proporsi con contenuti originali e di qualità è condizione sì necessaria, ma non sufficiente: ed ecco che entra in gioco l’intuizione di ricorrere alla breve durata e all’esclusiva fruizione in mobilità. “Come Hbo ha rivoluzionato il mondo della tv agli albori degli anni Novanta, introducendo un nuovo modo di raccontare storie, altrettanto faremo noi”, ha dichiarato il creatore della piattaforma durante la presentazione a Las Vegas. Dove la maggior parte dei servizi di streaming si concentra quasi soltanto sull’offerta dei prodotti, Quibi, grazie al suo intento di rilocazione, prova a ritagliarsi una posizione unica grazie a un nuovo e audace linguaggio audiovisivo. Come di fatto è messa in pratica questa idea? Sfruttando, per esempio, la tecnologia che contraddistingue lo smartphone: ruotando lo schermo, l’utente potrà godere dello stesso contenuto in due modi diversi, a seconda che il dispositivo sia orientato verticalmente o orizzontalmente. Unendo la tradizione hollywoodiana all’audacia creativa della Silicon Valley, l’intenzione di Quibi è chiara: navigare controcorrente nel mare della convergenza, scegliendo di giocare tutte le fiches sulla specificità del medium piuttosto che sul mantra dell’everywhere.

Per verità di cronaca, va detto che Katzenberg e la sua squadra non sono stati i primi a puntare tutto sul consumo su piccolo schermo: prima di Quibi ci hanno provato Studio+ e Blackpills, progetti dal destino non proprio fortunato. Il primo, costretto a chiudere i battenti a un anno dall’esordio, nasceva come servizio mobile a pagamento volto a diversificare l’offerta di Canal+. Il risultato, che ricorda da vicino quello di YouTube Premium, è stato che gli utenti che scaricavano l’app, invece di comprare i contenuti originali pensati appositamente, la usavano per quelli preesistenti della casa madre. La strategia commerciale di Blackpills prevedeva invece una proposta qualitativamente premium ma gratuita. Inizialmente le cose sembravano funzionare, fino a quando è passato da servizio free al pagamento. Ma non sarebbe corretto ricondurre il fallimento di Blackpills a una strategia che ne tradiva le origini: già la decisione di introdurre una fee spiegava bene l’insostenibilità a lungo termine del modello originale.
Allora, cosa ci può spingere a credere che Quibi possa fare meglio dei due predecessori? Potremmo rispondere ricordandoci del budget non indifferente a sostegno del progetto, o indicare il ricchissimo catalogo come arma vincente, o fare riferimento alla risonanza internazionale delle numerose celebrity coinvolte. Soluzioni plausibili, ma incapaci di fugare ogni dubbio. E, per quanto Katzenberg si sia dimostrato negli anni un uomo dalle grandi intuizioni, la verità è che senza sfera di cristallo non ci resta che attendere il responso del tempo. In ogni caso, per noi semplici curiosi, Quibi è l’occasione per avvicinarci un po’ di più a una parziale comprensione di un audiovisivo sempre più multiforme.


Dario Padula

Laureato in filosofia, ha frequentato il Master Internazionale di Cinema e Audiovisivo presso l’Università Cattolica di Milano e ha collaborato con il dipartimento di Marketing Strategico di Mediaset.

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