immagine di copertina per articolo La buffa storia vera di Pollon e le droghe
Manga e anime

La buffa storia vera di Pollon e le droghe

Dove si racconta, soprattutto, l’assurda parabola del suo ideatore, Hideo Azuma, fuggito dal successo per fare il senzatetto e distruggersi nell’alcolismo.

Se avete una pur minima cultura sugli anni Ottanta televisivi, o siete dei quarantenni anche blandamente nostalgici verso i cartoni animati giapponesi di quel periodo, Pollon vi dice qualcosa. Anzi, due. 1) Era una simpatica e paffuta bimba, mini-dea dell’Olimpo, protagonista di una surreale commedia infantile, parodia della mitologia greca. 2) Era l’icona pop che cantava “Sembra talco ma non è / serve a darti l’allegria / se lo lanci e lo respiri”, regalando una sempre simpatica battuta su una droga sniffabile, in grado di rendere felici – la battuta, intendo – legioni di pusher e consumatori di stupefacenti.

Stupefacente preveggenza

Scopo dell’articolo è allora raccontarvi la storia umana e professionale – ai limiti dell’incredibile – del creatore di quel manga (trasformato poi nella serie animata che ancora ricordiamo), Hideo Azuma. Prima però bisognerebbe affrontare un enigma: sono vent’anni che mi interrogo su come sia potuta accadere la suddetta cosa numero 2. Nel senso che quella celebre frase, interpretata con goduria per il doppio senso da ormai ben più di una generazione di spettatori, ha avuto una storia produttiva che non c’entra nulla con l’uso linguistico che, diciamo, è invalso. La sgranata, sgarrupata sequenza su YouTube è arrivata a 1 milione 400 mila visualizzazioni in 12 anni e mezzo. Se non vogliamo supporre che tra i quarantenni di oggi siano così numerosi i cocainomani, tocca accettare che il videoframmento sia diventato un classico transgenerazionale. Il doppio senso è nelle orecchie di chi ascolta, verrebbe da dire.

Dicevo vent’anni, perché ancora ricordo quando, negli anni dell’università, la citazione di quel passaggio di Pollon era già molto diffusa. Ed era già un cult al punto da modificare la memoria di molti: no, amici coetanei, quella canzone non viene dalla sigla “Pollon Pollon combinaguai”, ma da uno stacchetto interno ai singoli episodi. Era una specie di momento musical che ritornava, come un refrain, al quale nessuno dei produttori, però, aveva dato quello *stupefacente* significato. 

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La dope song di Pollon, come mi ha raccontato il più noto doppiatore della serie (Fabrizio Mazzotta, indimenticabile voce tutta erre del personaggio di Eros), non fu che la mera traduzione dell’originale giapponese. Nessun traduttore, doppiatore o regista dell’adattamento aveva immaginato alcun doppio senso. Eppure nel giro di pochi anni accadde l’imprevisto: mentre il consumo di cocaina in Italia stava soppiantando quello di eroina, qualcuno, da qualche parte, recuperò la frase attribuendole tutt’altro, allusivo significato. Ho consultato due diverse edizioni dell’enciclopedico Mazinga nostalgia, sentito Mazzotta, navigato per sordidi forum online, tormentato giornalisti e amici – ma niente, nessuno sa quando o dove accadde. Erano arrivati gli anni Novanta, e quel “talco” divenne un cult. 

Malizia, creatività italiana, sfacciataggine da tossici drogati (anche) di nostalgia televisiva… metteteci quello che volete. Il risultato è che in quella assurda trasformazione semantica c’era qualcosa di preveggente: il rapporto fra Pollon e l’abuso di sostanze sarebbe diventato realtà nella vita del suo ideatore. E lo sarebbe diventato proprio in stile Pollon, in serena e infantile allegria. Abuso sì, ma buffo.

Tra fantascienza e lolite

Pollon è stato un cult in Italia, su Italia 1 nel 1984, e anche in Francia e Spagna (messo in onda sempre dalle reti di Berlusconi). In Giappone era andato benino, diciamo, ma non benissimo, tra il 1982 e il 1983. A dare notorietà ad Azuma sarà in realtà il manga successivo, Nanako SOS, ovvero Nanà supergirl, pubblicato dal 1980 al 1985, la cui versione televisiva andò in onda in Giappone nel 1983. Ma a dirla tutta Azuma era già celebre prima di questi successi mainstream, e per un talento bizzarro: aveva dato la stura al fenomeno lolicon. Da buon ragazzotto ventenne, dopo il debutto nei gag manga umoristici più elementari, aveva coltivato due passioni in linea con la sua attitudine scanzonata e dissacratoria: quella per la fantascienza e quella per le ragazzine. Nel 1978 pubblica la scoppiettante parodia di fantascienza Fujori Nikki, che gli vale nel 1979 il premio Seiun al migliore fumetto sci-fi dell’anno; grazie alle sue assurdità è riconosciuto subito tra i protagonisti della New Wave manga che avrà nell’amico Katsuhiro Otomo (Akira) il suo alfiere. Allo stesso tempo, però, si diletta con alcuni colleghi a disegnare donnine. È poco più di un gioco, ma di quelli che prendono la mano e aiutano a sfogare un lato provocatorio: ok leggere shojo manga, i fumetti di/con/per ragazze, ma per Hideo è più divertente disegnare le versioni ammiccanti e sessualizzate delle giovani, innocenti protagoniste. 

Malizia, creatività italiana, sfacciataggine da tossici drogati (anche) di nostalgia televisiva… metteteci quello che volete. Il risultato è che in quella assurda trasformazione semantica c’era qualcosa di preveggente: il rapporto fra Pollon e l’abuso di sostanze sarebbe diventato realtà nella vita del suo ideatore. E lo sarebbe diventato proprio in stile Pollon, in serena e infantile allegria.

Il filone lolicon – contrazione per “lolita complex” – emerso come rivisitazione dei fumetti femminili da parte di sfrontati, caciaroni e maliziosi autori maschi, era appena nato. Iniziava giusto a fare community attraverso le prime edizioni della fiera Comic Market, o Comiket (dal 1975). Azuma se la spassa al punto da realizzare una fanzine di bishojo manga, piena di ragazzine tutte occhioni, sguardi languidi e carineria, ma provocanti. Quella rivistina autoprodotta, Cybele, diventerà subito un cult, e la nascente comunità degli otaku si nutrirà lungo tutti gli anni Ottanta di una vasta produzione di riviste e fumetti lolicon. Proprio negli anni in cui lavora a Pollon (il manga esce dal 1977 e il 1979, poi ripreso nel 1982/83) e Nanako, appena dopo essersi fatto un nome come innovatore di serie A, diventa anche il “padre del lolicon”. Quando il fenomeno si espande, e l’immaginario otaku inizia a essere descritto come pieno di pervertiti con tendenze pedofile, Azuma si trova nel mezzo di qualche polemica. Ma Hideo fa scuola a sé: guascone, innovatore e scandalosetto, continua a fare quel che gli pare. Buffi scienziati pazzi, buffe dee dell’olimpo, buffi mostri, buffe donnine sexy. 

E poi, la sparizione

Un giorno del 1989, Azuma esce di casa e non torna più. Ha sbiellato: troppo lavoro, troppa insoddisfazione. Non avvisa nemmeno la moglie o i figli, e se ne va a stare per strada. Il fandom di anime e manga spesso tende a dare una visione idealizzata delle condizioni lavorative di queste industrie creative, e gli eccessi – gente che non dorme o non mangia per ore/giorni e magari collassa – sono visti con la spensieratezza dell’esotismo. “Funziona così”, “i giapponesi sono fatti così”. La devastante realtà di questi stili di vita affiora qua e là anche in qualche opera – la serie Bakuman, per esempio – ma è sempre compensata dagli effetti maieutici: la vita (del mangaka) è dura, ma alla fine nascono grandi idee. Tolta questa poesia e le sue illusioni, di tutto ciò non rimane molta traccia nella produzione mainstream: per un mangaka tutto si può raccontare, tranne il disfacimento di un’esistenza intorno alla professione di disegnatore/narratore. L’eccezione: Azuma. Che il suo disfacimento lo ha messo su carta, ne Il diario della mia scomparsa (traduzione di Carlotta Spiga, J-Pop Manga). 

Dunque nel 1989 Azuma scompare di casa. In un bosco tenta il suicidio, da ubriaco, ma non ci riesce e crolla a dormire all’addiaccio, inaugurando in modo assurdo una nuova vita da barbone. Dorme in un parco, sotto pioggia e freddo, e ramazza una lercia tela cerata per coprirsi. Mangia quel poco che trova dalla vegetazione. Raccoglie mozziconi di sigaretta per terra, ruba persino cibo a un altro senzatetto. Rovista poi nei bidoni dell’immondizia nelle vicinanze, fino a farsi furbo e setacciare quelli di un ristorante e di un supermarket. E così via, in uno slalom tra gli avanzi di cibo o di liquori, cucinati con lattine, bottiglie e aggeggi di risulta. Fino a quando, una notte, si fa beccare nei suoi vagabondaggi dalla polizia. Un poliziotto lo riconosce, chiamano la moglie e lo riportano a casa. Sei proprio un buono a nulla, Hideo. Dissolvenza in nero. Nel manga Azuma non solo non piange mai, sembra quasi ridere. In effetti lo stile con cui disegna se stesso è quasi lo stesso di Pollon: corpi e contorni tondeggianti, deformati in modo da rendere tutti piccoli e tracagnotti. Come sempre Azuma disegna personaggi coccolosi ma pieni di brio, accompagnati da quei tratti e segni grafici intorno ai contorni – goccioline, bolle-dagli-occhi, bocche fatte di punti o linee – che danno l’effetto di movimenti, espressioni bizzarre, gesti quasi gommosi. Tutto molto buffo, insomma. 

Nel 1989 Azuma scompare di casa. In un bosco tenta il suicidio, da ubriaco, ma non ci riesce e crolla a dormire all’addiaccio, inaugurando in modo assurdo una nuova vita da barbone. Dorme in un parco, sotto pioggia e freddo, e ramazza una lercia tela cerata per coprirsi. Mangia quel poco che trova dalla vegetazione. Raccoglie mozziconi di sigaretta per terra, ruba persino cibo a un altro senzatetto.

Dopo qualche anno Azuma scappa di nuovo da casa, dal lavoro e da se stesso: “C’era qualcosa che mi cresceva in testa”. È il 1992, e stavolta ha un’esperienza alle spalle. Sa come cavarsela con le intemperie e il cibo, cambia città e si concede qualche vizio, soprattutto sigarette e alcol. Che gioia il cocktail “by Azuma”, fatto con gocce di liquori rimaste nei fondi di bottiglia, trovate con scrupolo tra i rifiuti nei giorni del ritiro del vetro! Ma si annoia. Decide di trovarsi un lavoro. Entra in un’impresa di manutenzione di reti idrauliche, facendo bassa manovalanza: rimozione tubi e buche nel terreno. Stringe nuove amicizie con i colleghi, e gli è persino offerta casa. Il lavoro è duro ma semplice, e nella sua nuova banda di dropout se la cava e se la gode: la sera, tutti insieme a bere. È promosso supervisore alle rimozioni. Ma tra i colleghi qualcuno è insopportabile, qualcun altro un mezzo spostato, e litigare non gli va. Si dimette dalla sera alla mattina e “visto che non avevo niente da fare, ho deciso di tornare a disegnare manga”. In una splendida serie di flashback Azuma racconta il suo rientro in attività e risale alla memoria dei primi anni, della frustrazione per i lavoracci e della soddisfazione per i primi successi, delle bevute con i colleghi, dello stress da iperlavoro, dell’incontro con Osamu Tezuka. “E poi, un giorno mi sono svegliato… Avevo abbandonato i miei progetti, ero preso dalla depressione e dall’ansia, ero andato via di casa, ero tornato a casa, ero andato via un’altra volta, ero diventato un idraulico e, infine, un alcolizzato”.

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Hideo Azuma

Nel 1998 Azuma si rende conto del suo problemino con il delirium tremens. Beve la mattina, per sfangare la giornata, per lavorare, e poi vomita; ribeve per prendere sonno, e vomita. Non riesce più a disegnare né a scrivere, arrivano le allucinazioni, pensa al suicidio. Al funerale del fratello arriva ubriaco. “Questi adulti sono un vero disastro”, notava spesso Pollon: “bevono, fumano e tornano tardi”, “almeno avessero il buon gusto di non criticare noi giovani!”. Un giorno è malmenato mentre dorme, collassato, su una panchina. La famiglia lo prende di peso e lo porta in una clinica psichiatrica per disintossicarsi. Lo legano al letto, soffre orribili crisi di astinenza, viene sedato, piano piano si riprende. Ci vorranno mesi, punteggiati dalla dura vita in comunità e circondato da amici dimessi ma, destino infame, recidivi. Torna a casa. Ricomincia a fare manga e realizza questo Diario in cui racconta, come nessuno aveva fatto, la storia della sua triste vicenda esistenziale, fra stress, insoddisfazione, depressione, alcolismo. Nel 2005-06 il suo manga autobiografico fa il Grande Slam dei più prestigiosi premi giapponesi, vincendo prima il Japan Media Arts Festival e poi il Premio culturale Osamu Tezuka. Che buffa, la vita. 

Arte e vita

Le condizioni estreme in cui operano i creativi delle industrie di manga e anime, finalmente, stanno emergendo e suscitano oggi crescenti attenzioni mediatiche, indagini, dibattiti o severe opinioni. Azuma è riuscito in un’incredibile doppia operazione: è sopravvissuto, e lo ha persino raccontato nel/attraverso il suo lavoro. Peraltro, facendo anche nomi e cognomi. Non mi ha perciò troppo sorpreso scoprire che il suo editor italiano, Jacopo Costa Buranelli, ne sia rimasto colpito al punto da ideare un’installazione artistica, per Serio Collective, ispirata al disordine ambientale ed esistenziale del bislacco artista-diventato-barbone. 

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Installazione di Jacopo Costa Buranelli

Lo stile con cui Azuma si è messo in scena ha anch’esso dell’incredibile. L’estetica del vagabondo, del senzatetto e dell’alcolizzato a tutto fa pensare tranne che alla simpatia, alla tenerezza, alla leggerezza. Che la morbida e piccina Pollon potesse fare humour sulla cocaina, trattandola come un gioco naif e innocente, fa dunque il paio con il morbido e tracagnotto protagonista del Diario della mia scomparsa. Con lo stesso design e registro narrativo, amato tanto da Ryuichi Sakamoto – lo avreste mai detto? – quanto da quasi tutti i maestri del manga contemporaneo, Azuma è riuscito a spremere la vita nelle forme più puffose, costruendo uno sgangherato teatro esistenziale. Al servizio di una catarsi non solo personale, ma rivolta ai lettori: “Questo manga si sforza di avere una visione positiva di tutta la faccenda, quindi ho evitato il più possibile i disegni realistici”, mette in chiaro la prima vignetta del libro. 

Scampato per miracolo a se stesso, Azuma si è poi goduto il ritrovato successo… per un po’. Nel 2010 ha pubblicato Il diario della mia depressione, dedicato al dopo-riabilitazione e al dopo-Diario, in un manga più noioso e derivativo ma pur sempre testimone del suo irriducibile disagio psicologico ed emotivo. Non si è mai ripigliato, insomma. Mettere però ordine nella sua parabola – maestro della fantascienza moderna pre-Otomo, animatore di un boom culturale borderline come il lolicon, megafono del lato oscuro di un mestiere artistico idealizzato – fa riflettere, forse inaspettatamente, sul reale senso di quella filosofia “combinaguai”. Quella di un uomo libero, anche nel rigido contesto di un’industria rigida in un paese pieno di rigidità sociali, di seguire i propri impulsi creativi. Un modo buffo di essere anarchico.


Matteo Stefanelli

Analista presso OssCom e docente di Linguaggi Audiovisivi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano, dirige il magazine Fumettologica.it. Fra le sue pubblicazioni: Il Secolo del Corriere dei piccoli (Rizzoli, 2013), La bande dessinée: une médiaculture (Armand Colin, 2012), Fumetto! 150 anni di storie italiane (Rizzoli, Milano 2012).

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