Nel giorno dopo l’inizio della presidenza Biden guardiamo un po’ indietro. E ripensiamo al capolavoro di Aaron Sorkin, ultima serie a raccontare l’eccezionalismo americano prima che tutto cambiasse.
Quando si identifica nel 1999 la nascita della serialità di nuova generazione lo si fa perché quell’anno partirono due serie cruciali: I Soprano, sul canale premium cable Hbo, e West Wing, sul network Nbc. Nonostante le due serie abbiano in comune la modernità della scrittura, e soprattutto delle ambizioni, I Soprano annunciava effettivamente molto di ciò che avrebbe caratterizzato la serialità a venire (grande enfasi sulla recitazione, libertà di messa in scena e di regia, racconto degli antieroi senza bisogno di condannarli, rappresentazione delle tante forme del potere). The West Wing, complice la messa in onda su un canale per tutti, è stato invece più il ponte tra il vecchio e il nuovo mondo. La nuova serialità avrebbe raccontato il marcio ovunque, la parte nera di ogni personaggio, ambito e istituzione, mentre The West Wing raccontava ancora l’America dei migliori, quella che aveva fiducia in se stessa, che si percepiva come potenza in ascesa e che amava credere che per ogni lavoro importante ci fosse la persona migliore possibile a farlo. E non Frank Underwood.
I vent’anni trascorsi dall’inizio della serie equivalgono a cento nel mondo della serialità. Mentre i canali generalisti hanno continuato proporre, rivedendolo sempre più, quel modello seriale un po’ procedural con temi forti da chiudere in ogni episodio e un generale tono rassicurante, i titoli più influenti, lodati, premiati e raccontati andavano altrove, mostravano il peggio dell’America e una generale sfiducia. Quello che I Simpson facevano già a inizio anni Novanta, cioè mostrare che non funziona niente e ogni istituzione è marcia, diventava la regola. Nella scientifica c’è un serial killer che uccide senza essere preso, un professore di liceo è un eroe perché sintetizza e spaccia anfetamine, un politico senza scrupoli diventa presidente uccidendo e ingannando, e anche negli anni Sessanta il mondo del lavoro era un coacervo delle persone peggiori. Non solo erano finiti gli eroi puliti e idealisti, ma tutto il mondo intorno a loro era inefficiente, pessimo e cinico. L’America che si vedeva in televisione non era la stessa di prima. C’era e c’è ancora Grey’s Anatomy, ma le novità dirompenti mostravano un cambio deciso nella fiducia degli Stati Uniti in se stessi e nella maniera in cui si raccontavano agli spettatori. E al mondo.
Ideale e realtà
Nel 1999 The West Wing metteva in scena una versione idealizzata della presidenza Clinton. Ovviamente senza il sesso. Un governo democratico che non ha paura di abbracciare i repubblicani, con in più il costante obiettivo di governare bene e fare ciò che è giusto: “Government is the place where people come together” diceva Toby Ziegler, il responsabile alla comunicazione, al presidente Bartlet, spiegandogli come dovessero dialogare con l’opposizione. La scrittura di Sorkin non solo creava quelli che sarebbero poi diventati luoghi comuni della scrittura seriale contemporanea ma aveva una visione politica, e la metteva in bocca a un’élite di politici che avevano l’eccezionale caratteristica di confrontarsi tra di loro e con l’opposizione senza mai rompere ponti, ma capendo e venendo capiti. “Io sono il presidente degli Stati Uniti, non delle persone che sono d’accordo con me” è una delle frasi cruciali pronunciate da Martin Sheen, che interpreta appunto il presidente Bartlet. Non era una guerra fatta di vendette come sarebbe stato House of Cards, ma il racconto delle difficoltà insite nell’arte della collaborazione.
Ovviamente l’arma principale erano le parole, perché la parola è tutto quello che conta nei copioni di Sorkin: la parola e la sua forza. Il presidente Bartlet esce da qualsiasi crisi con un discorso e tramite i discorsi i suoi vice riescono a capire il mondo, chi non la pensa come loro (senza contare se stessi, nelle ramificazioni sentimentali delle trame). Già nella seconda stagione di The West Wing l’amministrazione democratica assume un avvocato repubblicano dopo che ha stracciato uno dei loro in un dibattito tv. È la punta massima di inclusività, nel tentativo di essere migliori. Quando il presidente spiega di voler assumere quell’avvocato e gli è fatto notare che è una repubblicana, la sua risposta è: “Come metà di questo Paese del resto”. Quell’America che cinema e televisione avevano raccontato fino a quel momento, quella dei migliori, degli eroi, dei patrioti e dei personaggi pieni di responsabilità capaci, alla fine, di fare sempre la cosa giusta, era alle battute finali. E se la nuova televisione lo stava annunciando, il cinema l’avrebbe seguita nella celebrazione degli antieroi e delle istituzioni fallaci. Nel 1999 usciva in sala American Beauty, uno dei primi film di profonda revisione dei miti rassicuranti ad aver vinto l’Oscar. Non più il Paese dei giusti, home of the brave, ma quello dei bastardi e degli opportunisti. Anzi proprio Non è un paese per vecchi, film che per grandezza, produzione e obiettivi solo dieci anni prima forse non sarebbe stato neppure nominato, figurarsi vincere contro gli ideali di Forrest Gump o Balla coi lupi.
Il presidente Bartlet esce da qualsiasi crisi con un discorso e tramite i discorsi i suoi vice riescono a capire il mondo, chi non la pensa come loro. Nella seconda stagione di West Wing l’amministrazione democratica assume un avvocato repubblicano. È la punta massima di inclusività, nel tentativo di essere migliori. Quando il presidente spiega di voler assumere quell’avvocato e gli è fatto notare che è una repubblicana, la sua risposta è: “Come metà di questo Paese del resto”.
La presidenza Bush jr. con il suo profondo divario tra opinione pubblica e decisioni prese dello stato, con le prime elezioni dal risultato discusso per più di un mese, non avrebbe aiutato in questo processo di sfiducia nelle istituzioni. Come non avrebbe aiutato la crisi seguita allo scoppio della bolla speculativa e poi, meno di un decennio dopo, quella dei mutui sub-prime. Da quel momento l’America non si è più percepita e raccontata come un Paese in ascesa ma come uno in declino, in cui le cose non funzionano. Dopo 20 anni di questo, guardare oggi The West Wing è completamente diverso dal guardare Lost o The Wire, è un tuffo in un’era diversa fatta di ottimismo e fiducia sparati in faccia con i sorrisi. Il racconto di un Paese così potente da credere davvero di essere buono, crederlo perché l’ha visto rappresentato.
L’ultimo baluardo democratico
Ultima delle grandi serie di una volta più che prima delle nuove, The West Wing dal 2000 in poi è stata, indirettamente, anche una panacea e una risposta alla presidenza Bush jr. per il popolo democratico. Bartlet è un presidente religioso (come Bush jr.), che usa i dettami religiosi per agire nel modo più morale possibile, disprezza qualsiasi conflitto anche quando ci è infilato per i capelli, odia la politica militare e adora quella economica, ama stringere le mani a capi di stato stranieri e confrontarsi con tutti, ha un team efficiente ma, a differenza di Bush jr., non si lascia mai controllare dai vice. Bartlet è il presidente padre che vuole bene a tutti, ascolta tutti e alla fine prende la decisione migliore.
Tra il 1999 e il 2006 la serie ha rappresentato così tanto l’ultimo baluardo (tra i prodotti sofisticati, amati e d’avanguardia) dell’America dei migliori da finire per influenzare la vita fuori dallo schermo. Lo speciale rapporto che gli Stati Uniti hanno con lo spettacolo, il fatto che lo usino per creare e tramandare tradizioni, oltre che per raccontarsi la propria storia in forma romanzata, fa sì che molto spesso lo show business sia uno strumento di costruzione e interpretazione della realtà. In sette stagioni The West Wing accumula 26 Emmy e un seguito grandissimo, diventando per molti la rappresentazione reale di come davvero funzioni la Casa Bianca. Cosa che in parte è. La frenesia degli eventi, delle azioni e delle discussioni, a detta di chi ci ha lavorato, è esattamente quella. Per tantissimi democratici convinti, The West Wing è stata l’unica forma di esperienza di come funzioni il governo e un’intera generazione che si è dedicata alla politica è stata formata dalla serie, immaginando il suo lavoro in quella maniera. Immaginavano la politica come nella serie proprio mentre la politica cambiava.
Nel 2012, sei anni dopo la fine della serie, per sostenere il candidato Bridget Mary McCormack nello stato del Michigan tutto il cast, incluso Martin Sheen, si riunisce per interpretare uno spot elettorale nei panni dei loro personaggi. La politica reale si appoggia all’ideale americano lontano di West Wing, come fosse un’età dell’oro. Solo che non è mai esistita davvero se non nell’idealismo collettivo. Si appoggia a The West Wing perché è il ricordo di quando tutti pensavamo di poter essere così.
Dopo 20 anni di questo, guardare oggi The West Wing è completamente diverso dal guardare Lost o The Wire, è un tuffo in un’era diversa fatta di ottimismo e fiducia sparati in faccia con i sorrisi. Il racconto di un Paese così potente da credere davvero di essere buono, crederlo perché l’ha visto rappresentato.
Ancora di più. Nel 2006, quando The West Wing chiude fa in tempo a introdurre un ultimo personaggio, Matt Santos (interpretato da Jimmy Smits), che anni dopo uno degli sceneggiatori, Eli Attie, ha ammesso in un articolo sul Guardian essere stato modellato sull’allora emergente senatore Obama: giovane, proveniente da una minoranza etnica (il personaggio è ispanico) e subito una star della politica. Obama con un discorso famoso tenuto a una convention democratica si era appena messo in luce: “Era più di un candidato che cercava voti: la gente cercava lui. Parte dell’aura di celebrità di Santos viene da quell’Obama”, spiega Attie. Nella serie Santos si candida a presidente e si scontra con un candidato repubblicano inviso a parte del suo partito per alcune posizioni troppo vicine ai democratici, non così lontano insomma da McCain. Anche per questo per anni gli americani hanno scherzato sul fatto che The West Wing fosse in grado di prevedere gli eventi politici. In realtà era il contrario, l’idea di politica che Sorkin aveva infuso nella serie era lontana da quella reale. Questo non impedì tuttavia ad Allison Janey, attrice che aveva interpretato la portavoce della Casa Bianca C.J. Cregg, di partecipare durante la presidenza Obama a una conferenza stampa fingendo di essere il suo personaggio.
Dopo Obama, dopo Trump
Nella realtà, intanto, invece che ridursi come in The West Wing lo scontro ideologico non ha fatto che aumentare. Il partito democratico si è spostato sempre più a sinistra, quello repubblicano ha riscoperto forme di conservatorismo estreme. A oggi “i votanti più giovani e a sinistra non credono che il partito repubblicano per come è costituito sia capace di compromessi”, scriveva Emily VanDerWerff su Vox per il ventennale della serie. Sempre lì il professor Musgrave dell’Università del Massachussets spiegava: “Molti dei funzionari dell’era Obama parlavano del fatto che lavorare nella Casa Bianca sarebbe stato come in The West Wing… Era la realtà che avevano visto rappresentata, ed era come volevano che la realtà fosse…”. E invece, di nuovo, la realtà era andata altrove e la presidenza Obama, con la sua cura per i discorsi e per la parola simile a The West Wing, ha dimostrato che con le tecniche di Jed Bartlet non è possibile conquistare parte dei repubblicani.
Per tutti i suoi otto anni Obama ha fallito nel compito che molti, specialmente all’interno del suo staff, indirettamente gli avevano affidato: portare la politica verso The West Wing e l’America verso quella visione ideale. Non solo non è stato in grado di ribaltare la maniera in cui l’America si vede e racconta, infondendo fiducia, ma le divisioni enfatizzate durante la sua presidenza hanno avuto conseguenze peggiori. Un altro presidente la cui immagine visione politica è stata fondata dalla televisione è stato eletto nel 2016, e in molti sensi si può dire che in quell’anno The Apprentice abbia battuto The West Wing (o meglio la sua memoria) nella costruzione di un mito a cui affidarsi. Quella reality tv ha formato l’immagine del vincente adatto al ruolo in un’era di antieroi: quello che prometteva il risultato, era noto per i metodi sbrigativi nonché per l’aura da capo inflessibile e ben poco umano, ben poco paterno.
Ma ancora nel 2020, vent’anni dopo l’inizio della serie, Richard Schiff, in The West Wing il responsabile della comunicazione Toby Ziegler, twittava un parallelo tra Bartlet e Biden, tirando ancora in gioco quel momento in cui la mitologia americana ha dipinto un Paese idealizzato, una comunità eccezionale che aiutava gli stati stranieri, era vicina ai più umili e sapeva trattare con gli avversari. Ancora oggi l’America di The West Wing è l’ultima grande America della televisione, e quindi l’ultima grande America.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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