immagine di copertina per articolo Ossessione true crime
Successi seriali

Ossessione true crime

Dal podcast alle piattaforme, il racconto e l’indagine basate sulla cronaca nera sono diventati un fenomeno in tutto il mondo. Ma dove sta il confine tra realtà e finzione, dolore e intrattenimento?

Kurt: “What are you doing?

Diane: “Figuring out whether to watch a German series about serial killers
or a Scandinavian series about serial killers
”.

The Good Fight, 3×01.

Un attore in disuso, a suo tempo detective in una serie tv. Un autore teatrale in disgrazia. Una giovane donna dai modi sbrigativi e di poche parole. Vivono tutti e tre nello stesso palazzo dell’Upper West Side, in ascensore nemmeno si salutano: niente sembra accomunarli fino a quando scoprono di essere legati da una grande ossessione, un podcast, All Is Not OK in Oklahoma. Poi nel palazzo si ritrova un cadavere e i tre danno il via a una sgangherata indagine e al loro personale podcast investigativo. Questo il plot di Only Murders in the Building, miniserie creata da John Hoffman e Steve Martin, protagonista con Martin Short e Selena Gomez. Questa comedy venata di mistero intercetta con leggerezza ma lucidità un fenomeno che da tempo attraversa in maniera trasversale il mondo dell’audiovisivo: il true crime

Non solo Cronaca vera 

Senza star qui a fare una storia dagli albori fino a oggi – una storia potremmo far iniziare nella Cina del 1600, proseguire poi nell’Europa rivoluzionata dall’invenzione della stampa, fino ad arrivare al 1965 con A sangue freddo di Truman Capote – è ormai chiaro che quella che stiamo vivendo è l’epoca d’oro del true crime. L’inchiesta di Capote rappresenta uno spartiacque, rende il genere profittevole: il racconto si sviluppa con una chiave umana e l’indagine criminale dai bassifondi della stampa pulp e scandalistica si sposta ai piani alti della letteratura. Capote punta al Pulitzer, senza successo. Ci arriva Norman Mailer nel 1980 con Il canto del boia, romanzo sulla vicenda del condannato a morte Gary Gilmore.

“Se essere presente a un omicidio costituisce già una colpa di complicità, lo spettatore è coinvolto nel medesimo delitto che l’autore”, afferma Lattanzio. Quindi siamo un po’ colpevoli anche noi spettatori? Lo scrittore romano parlava dei gladiatori, noi di programmi da guardare o ascoltare comodamente sul divano. Sta di fatto che, nonostante i millenni di storia che intercorrono tra allora e oggi, l’interesse per la violenza e la morte da parte del pubblico non è mai venuto meno, e ora il mezzo prediletto – quello più comodo, più accessibile – è la docu-serie. Il cinema del reale si era già occupato di true crime, ma episodi come The Thin Blue Line (sul processo e la condanna di Randall Dale Adams, 1988) e Paradise Lost (sul processo dei Tre di West Memphis, 1996) sono accolti in maniera tiepida. Con Capturing the Friedmans (2003), incentrato su un’indagine per pedofilia e diretto da Andrew Jarecki, qualcosa inizia a cambiare: il documentario è nominato agli Oscar.

I protagonisti 

Quando si parla di true crime il tema centrale è quasi sempre quello dell’omicidio, salvo qualche eccezione eccellente con protagonisti i bambini (Rapita alla luce del sole, Three Identical Strangers, Tell Me Who I Am), con predilezione per episodi particolarmente inquietanti, macabri e/o bislacchi. Tiger King, per esempio. Questa serie è stata la sorpresa del primo lockdown: bizzarra, ricca di personaggi memorabili e plot twist. La produzione ha posto l’accento sui lati sensazionalistici della storia, spingendola ai limiti della parodia, dando risalto a situazioni oltraggiose e dissacranti: un bel frullato di tormentoni pronti per diventare meme e farsi spazio fra i trend topic. Un successo: la serie è diventata immediatamente un fenomeno culturale. Altro titolo diventato un instant cult è Giù le mani dai gatti: caccia a un killer online, gara tra una squadra di detective amatoriali del web e un killer di gattini che sogna di essere Catherine Tramell. È incredibile lo so, ma è così davvero.

Un posto d’onore è dedicato ai serial killer: Ted Bundy (Conversazioni con un Killer: The Ted Bundy Tapes), Richard Ramirez (The Night Stalker), criminali che già prima del fenomeno true crime erano icone pop trovano nei documentari che ne ricostruiscono le vicende giudiziarie un altare perfetto. Grande appeal è dato dal contesto: le storie raccontate in questi prodotti (libri, podcast, serie tv) germogliano sempre da situazioni familiari, nell’ambito domestico, di vicinato, di quartiere, in un mondo che pare rassicurante (Aguzzini in casa: la vicenda del piccolo Gabriel Fernandez, American Murder: La famiglia della porta accanto). Le domande che gli autori pongono agli spettatori sono “quanto conosci i tuoi famigliari, o i tuoi vicini?”.

Un posto d’onore è dedicato ai serial killer: Ted Bundy, Richard Ramirez, criminali che già prima erano icone pop trovano nei documentari che ne ricostruiscono le vicende un altare perfetto. Grande appeal è dato dal contesto: le storie raccontate in libri, podcast e serie tv germogliano sempre da situazioni familiari, nell’ambito domestico, di vicinato, di quartiere, in un mondo che pare rassicurante.

Una delle storie di cronaca più “prolifiche” è quella di Gypsy Rose Blanchard, che prima è stata vittima di una madre affetta da sindrome di Münchausen per procura, poi assassina della genitrice carnefice. Questa vicenda ha dato vita ai documentari Mommy Dead and Dearest (2017, Hbo) e Gypsy’s Revenge (2018, Investigation Discovery), al film tv Love You to Death (2019, Lifetime) e alla serie The Act (2019, Hulu); è stata ripresa poi ripresa (e parodiata) da Ryan Murphy per il suo squinternato The Politician; e ancora Run, horror del 2020 con Sarah Paulson che ricalca nuovamente lo stesso soggetto. 

The golden age 

Tra il 2014 e il 2015 il boom. Fa il suo debutto il podcast Serial di Sarah Koenig, vanno in onda The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst su Hbo e Making a Murderer su Netflix. In quegli anni (come se parlassimo di preistoria) il podcasting è ancora un business ai suoi albori, ma in brevissimo tempo diventa uno dei luoghi deputati ad accogliere la narrazione criminale e una miniera d’oro. Serial realizza 5 milioni di download su iTunes, più di ogni podcast mai pubblicato; a settembre 2018 si contano 340 milioni di download. In fretta ne arrivano altri: Dirty John, My Favorite Murder, Up and Vanished, Female Criminals e Mind’s Eye, Someone Knows Something. The Jinx, diretto da Jarecki, monopolizza l’attenzione del pubblico grazie al protagonista stravagante e ai tanti colpi di scena che, grazie alla serie, avvengono al di qua dello schermo (al termine di un’intervista Robert Durst, dimentico di essere microfonato, parlando tra sé e sé confessa gli omicidi per cui era accusato, e questo porta al suo arresto). 

A cambiare è il sistema di distribuzione, i media si adattano a nuovi formati: nel 2015 Netflix ormai è una realtà e la gente si abbona per guardare la storia sui processi di Steven Avery e Brendan Dassey in Making a Murderer. 10 episodi disponibili immediatamente per il binge watching. Il riscontro è istantaneo, la produzione di documentari su crimini e processi si impenna, anche grazie a un grosso vantaggio: costano poco. Se Netflix fa da capofila, Hbo segue a passo svelto: il network ha una lunga tradizione di documentari, ma gli anni successivi a The Jinx diventano incredibilmente prolifici: Beware the Slenderman (2016), I Love You, Now Die (2019) e Murder on Middle Beach (2020). Quelli su Netflix non si contano più; lo streaming fa da propulsore. La grande popolarità dà al genere nuovo prestigio: gli sforzi produttivi si intensificano e nel settore si affacciano nuovi nomi di rilievo, come i Duplass Brothers che con Wild Wild Country (2018) si portano a casa un Emmy. Oggi, la loro società di produzione ha all’attivo un piccolo catalogo di true crime con storie dell’affetto shock e produzione dal taglio autoriale: Evil Genius: la vera storia della rapina più diabolica d’America (Netflix, 20218), The Lady and the Dale (2021, Hbo) e Sasquatch (2021, Hulu).

Tutto vero. Tutto falso 

Prodotti come Capturing the Friedmans o Making a Murderer prendono però il via da un presupposto insidioso: dimostrare l’innocenza (reale o presunta) dei loro protagonisti. E voler validare a priori una tesi comporta quasi sempre – in buona o cattiva fede – errori metodologici: prove non prese in esame, testimoni non ascoltati, testimonianze estorte. Presentare dei fatti non basta a intrattenere il pubblico, c’è bisogno di qualcosa di più: un racconto, il che implica un punto di vista, una narrazione – e quindi una costruzione. Quella che gli autori realizzano non è una semplice ri-costruzione, ma una vera e propria indagine, anche grazie al progresso tecnologico che permette di (re)indagare vecchi casi a caccia di nuove prove, dettagli trascurati, testimonianze inedite, tutto alla ricerca di una nuova prospettiva, di un particolare insignificante che possa ribaltare tutto. The Staircase (2004-2018, Netflix), per esempio, è stata criticata aspramente per aver dipinto Michael Peterson come la vittima, nonostante la condanna dell’uomo per l’assassinio della moglie. Un caso tale da ispirare anche una parodia, la sitcom Trial & Error (2017, Nbc). Discorso simile per Making a Murderer, a causa del quale Netflix è stata citata per diffamazione da un investigatore coinvolto nel caso di Steven Avery: troppi i fatti omessi in favore della tesi del documentario. Come altre serie true crime, Making a Murderer è il tentativo di scagionare un condannato, alla rincorsa dell’amato topos narrativo dell’uomo innocente perseguito ingiustamente, un tema tanto caro a Hitchcock e al mondo del noir. 

Presentare dei fatti non basta a intrattenere il pubblico, c’è bisogno di qualcosa di più: un racconto, un punto di vista, una narrazione – e quindi una costruzione. Quella che gli autori realizzano non è una semplice ri-costruzione, ma una vera e propria indagine, anche grazie al progresso tecnologico che permette di (re)indagare vecchi casi a caccia di nuove prove, dettagli trascurati, testimonianze inedite, tutto alla ricerca di una nuova prospettiva, di un particolare insignificante che possa ribaltare tutto.

Con mezzi e infrastrutture più limitate, da noi si arriva a cavalcare quest’onda solo in tempi più recenti. Veleno, il podcast di Pablo Trincia per Repubblica, vuole far luce sulla storia dei Diavoli della bassa. La confezione è buona, l’argomento scuro e morboso (pedofilia & satanismo, slurp!), il pubblico gradisce: nel 2019 esce il libro e nel 2021 la docuserie su Prime Video. Nel racconto audio a firma di Trincia (ex Iena) emerge una storia inquietante ma chiara, i dubbi sono dissipati (i bambini non sono stati abusati, gli psicologi in malafede li hanno condizionati), nel doc scritto e diretto da Hugo Berkeley con l’aggiunta di nuove testimonianze – tra cui quella di una delle psicologhe sotto accusa – quella sicurezza viene a mancare, i confini tra “le verità” si fanno più labili, i dubbi si moltiplicano. Al di là delle disquisizioni sul metodo, il formato funziona, i casi da raccontare non mancano: Polvere, il podcast di Chiara Lalli e Cecilia Sala sull’omicidio di Marta Russo, segue il successo di Veleno, è già uscito il libro e l’arrivo della serie tv non si dovrebbe fare attendere (a monte c’è Miyagi Entertainment, la casa di produzione di Nicola Guaglianone, sceneggiatore di fiducia di Gabriele Mainetti). 

Alibi

Capire il motivo di questa ossessione è complesso, insondabile. Psicologi, sociologi e addetti ai lavori hanno detto la loro, ma nessuna ipotesi suona convincente (o esaustiva). Probabilmente le ragioni del successo del genere sono sovrapponibili in parte a quelle del genere horror e del thriller: la suspense, il mistero, l’adrenalina. “L’effetto di euforia provocato del true crime sulle emozioni è simile a quello delle montagne russe o dei disastri naturali – spiega Scott Bonn, criminologo e autore del libro Why We Love Serial Killers – Il pubblico è attratto dal true crime perché innesca la nostra emozione più primordiale e profonda, la paura. Come intrattenimento ci permette di sperimentare la paura e l’orrore in un ambiente controllato in cui la minaccia è eccitante ma non reale”. La moderna codifica del genere ha però anche un aspetto assolutorio, un alibi per la nostra sete di macabro: la ricerca della verità.

Rispetto ai generi letterari e cinematografici di fiction, il true crime ha un vantaggio in più: almeno sulla carta (come abbiamo visto) è tutto vero, quindi non serve la sospensione dell’incredulità. In più, inoltre, al contrario del classico cinema del reale, il true crime contemporaneo utilizza tutti i trucchi (consentiti e non) della narrativa di finzione, molti cliffhanger, situazioni familiari che si trasformano in vicende assurde, plot twist e protagonisti con cui si può (in qualche modo) empatizzare. Non è solo il “cosa” è raccontato, ma “come”. Lo spiega bene Eudora Welty nel suo saggio “Appunti sul tempo in narrativa” (in Una cosa piena di mistero. Saggi sulla scrittura): “La vita vera non si desidera, si vive; racconti e romanzi, i cui soggetti sono gli essere umani in relazione alle esperienze che devono attraversare, si fanno faticosamente strada da sé, lottando nel cammino verso una risoluzione. Al posto della fatata immunità al cambiamento, nei romanzi c’è la vulnerabilità dell’umana imperfezione invischiata nell’umana emozione, e dunque c’è crescita, c’è crisi, c’è appagamento e declino. La vita va verso la morte. Il progresso del romanzo è causale, e con ciò si crea la suspense. La quale, in un romanzo, è necessaria, perché è la principale condizione della nostra esistenza”.

Vittima eccellente

Questo nuovo abbeveratoio di suspense sembra però aver portato a un impigrimento del pubblico. Al cinema e in tv il thriller criminale convince sempre meno, parla un linguaggio che non siamo più abituati a “leggere”, e in questo senso il true crime ci ha resi analfabeti. Film come La donna alla finestra (Joe Wright, 2021) o L’apparenza delle cose (Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2021) ci appaiono come un forme filmiche desuete, non credibili, che non parlano più a un pubblico diseducato, e li bolliamo sbrigativamente come “brutti”. Gone Girl probabilmente è stato il canto del cigno del genere e ora il thriller sopravvive solo in modalità ibrida: Get Out, Parasite, The Invisible Man, per esempio, si spingono in territori – horror, soprannaturali, fantascientifici o grotteschi – che in una serie true crime non potremmo mai trovare. Anche la serialità criminale nei suoi toni più classici, con l’epoca d’oro del crimine verità, sembra essere appannata: Mindhunter di David Fincher, storia del primo profiler di serial killer americano e quindi vicinissimo alle storie e ai protagonisti dell’universo true crime, è stato chiuso con la seconda stagione nonostante le ottime critiche: troppo costoso e troppo poco visto.


Lorenzo Peroni

Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.

Vedi tutti gli articoli di Lorenzo Peroni

Leggi anche

immagine articolo Mubi e l’on demand come esperienza
immagine articolo Il mito del film lungo

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.