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Nuove saghe familiari

Proprio quando ci troviamo chiusi in casa, legati a famiglie e congiunti, la televisione ci ricorda quanto le relazioni tra fratelli e tra generazioni possano essere complicate e disfunzionali.

“Sono così contento di essere uscito da qui. Questo posto era praticamente una gabbia per me”, dice Roman Roy nel primo episodio di Succession, riferendosi all’azienda di famiglia, la Waystar Royco. Lo afferma con un tono tra il beffardo e il noncurante, nascondendo i rancori, i dissapori e le liti che con tutta probabilità hanno condotto a quella scelta, forse neanche sua. Con quella battuta ci è fornita così un’informazione essenziale: quella dei Roy non è una famiglia dei buoni sentimenti né una di quelle a cui aspirare, ma una da cui fuggire, tanto da essere comparata a una prigione, un luogo dove si annidano cattiveria, dolore e solitudine. L’esatto opposto della famiglia americana tradizionale ampiamente raccontata dalla serialità televisiva sin dagli esordi.

Giorno per giorno, Settimo cielo, sino ai più recenti Parenthood e This Is Us sono solo alcuni esempi di sitcom e family drama che hanno messo in scena la quotidianità di famiglie “buone”, quasi irreali e guidate da forti principi morali. In cui i conflitti e gli screzi, se presenti, lasciano velocemente il passo all’inevitabile riconciliazione e lieto fine, che ripristina la felicità iniziale. Si tratta di uno schema preciso e consolidato che la tv, specie i network hanno ripetuto all’infinito, appassionando milioni di persone. Con il passare dei decenni però la serialità si è trasformata, di pari passo ai cambiamenti della società, puntualmente registrati dal genere. E ormai delle famiglie “buone e felici” è rimasto poco, sostituite da narrazioni difficili, conflittuali e tossiche, più vicine alla saga disfunzionale e sgangherata de I Tenenbaum di Wes Anderson che alla famiglia perfetta e utopica della Mulino Bianco. Un mito, per l’appunto, che nella realtà non esiste. Neanche ora che a causa dell’emergenza sanitaria ci viene raccomandato di restare tra le mura domestiche, descritte come un rifugio, il posto più sicuro.

Detestabili e infelici

Partiamo proprio da Succession, la serie di Hbo creata da Jesse Armstrong e pluripremiata agli ultimi Emmy, incentrata sulle lotte di potere di una famiglia ricca, altamente privilegiata e devastata, a causa del padre-padrone Logan Roy: una sorta di King Lear d’ispirazione shakespeariana, che mente, manipola e spinge costantemente l’uno contro l’altro i figli, pur di non rinunciare al suo “regno” – il conglomerato Waystar Royco – quasi fosse la sua creatura. Succession ha molto in comune con Game of Thrones, non solo in quanto serie sul potere ma anche per il racconto del modo in cui il potere divide e avvelena ogni cosa, lasciando ben poco spazio ai sentimenti. “Il linguaggio e la moneta della famiglia non è l’amore, sono gli affari”, ha detto in un’intervista Jeremy Strong, che interpreta il secondogenito Kendall Roy, “Ricordo qualcosa che ha detto Jung, che laddove l’amore è assente, il vuoto è riempito dal potere. Ho riflettuto molto su questo mentre giravo la serie”.

Succession ha molto in comune con Game of Thrones, non solo in quanto serie sul potere ma anche per il racconto del modo in cui il potere divide e avvelena ogni cosa, lasciando ben poco spazio ai sentimenti. “Il linguaggio e la moneta della famiglia non è l’amore, sono gli affari”, ha detto in un’intervista Jeremy Strong: “Laddove l’amore è assente, il vuoto è riempito dal potere”.

Succession è un trionfo di crudeltà, sopraffazione, tradimenti, complotti, e i rari momenti di quiete e affetto sono effimeri o solo una messa in scena, orchestrata su esplicita richiesta del patriarca sempre per il suo tornaconto. La verità è che a Logan importa solo di se stesso: nel finale della seconda stagione dimostra infatti che per salvarsi, e salvare l’azienda, è disposto a tutto. Persino a sacrificare il figlio Kendall, che disubbidisce al padre, e nell’ennesimo tentativo di parricidio lo definisce “una presenza maligna, un bullo”, non prima di avergli dato il perfetto bacio di Giuda. Il suo voltafaccia però non è (solo) una presa di potere, la rivendicazione del “trono” per sé, ma anche un tentativo di liberarsi di una figura paterna narcisista e nociva, che lo spinge alla deriva (Kendall lotta contro la dipendenza da cocaina). Tanto quanto i fratelli Connor, Roman e la sorella Siobhan, alle prese con una relazione di amore-odio, tra rifiuto e ricerca di approvazione costante, tipica della Sindrome di Stoccolma. “Cosa pensa mio padre è tutto il mio cazzo di universo”, ammette in un episodio Shiv. 

La vera tragedia di Succession è questa: la storia di un uomo che ha costruito un impero, ma intorno a sé ha lasciato solo solitudine, dolore e traumi. Il cuore della serie racconta infatti le complicate dinamiche familiari, tra madri assenti, padri anaffettivi e figli che non si sentono mai all’altezza e non sanno come comunicare tra loro. E questo ne spiega in parte il grande successo: i personaggi sono sgradevoli, hanno ville da sogno, jet privati e fanno cose terribili, ma sono anche infelici e “broken inside”.

Tra incubo e truffa

Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina scriveva che “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Ma ogni famiglia è anche disfunzionale a modo suo. Se da un lato, proprio in questi mesi, ha prevalso la narrazione della casa come luogo sicuro e accogliente, dall’altro si è parlato di “enorme stress” con una crescita di separazioni e divorzi, di aumento delle violenze domestiche sulle donne – l’Istat riporta che tra marzo e giugno 2020 c’è stato un incremento del 119% delle chiamate al numero anti-violenza rispetto allo scorso anno. E di tensioni e conflitti tra genitori e adolescenti, esacerbati dal confinamento obbligato, ha raccontanto anche il New York Times. Ecco perché è sbagliato dare per scontato che la famiglia sia sinonimo di cura e protezione. A volte può essere un incubo, come i Roy di Succession che incarnano il disfacimento americano, nonché il lento e inesorabile declino del patriarcato e di un mondo capitalistico votato al successo, al profitto a ogni costo. Del resto, spesso i litigi più grandi avvengono proprio quando si mescolano soldi e famiglia, come racconta anche il film Kajillionaire, presentato al Sundance Film Festival a gennaio 2020, scritto e diretto da Miranda July. Qui la protagonista Old Dolio è trattata dai genitori, ladri e furfanti, più come una partner in crime che una figlia, imbrogliata e persino derubata. È una famiglia insalubre – vivono in un ufficio abbandonato che ogni giorno si riempie di una schiuma rosa tossica –, in cui non esistono né amore né affetto ma solo interesse e inganno.

Tornando alla serialità televisiva, una famiglia distrutta e disgregata c’è anche in The Umbrella Academy di Netflix: serie supereroistica su un’accademia composta da sette giovani dotati di poteri sovrannaturali e fondata da un padre “adottivo” più interessato a far di loro dei combattenti che a occuparsi del loro benessere. Tanto da non assegnare loro neanche un nome ma solo un numero in ordine di “utilità”. “Era un mostro”, afferma Diego/Numero 2 al suo funerale, “una cattiva persona e un padre anche peggiore. Si sta meglio senza di lui”. Come Logan Roy, Reginald Hargreeves è un genitore benestante, autoritario e così ingombrante che persino da morto influenza l’azione dei membri dell’academy: Luther è così fedele al padre da rischiare la sua vita nel tentativo di portare a termine la missione assegnata; e Diego è disposto a tutto pur di dimostrare di essere all’altezza del ruolo di “eroe”. Gli Hargreeves sono cresciuti spinti alla competizione, alla rivalità, conoscendo solo abusi, umiliazione e persino la morte. Come scrive Vox, The Umbrella Academy “è il ritratto brutale di una famiglia infelice, danneggiata che in qualche modo deve aiutarsi a vicenda e allo stesso tempo salvare il mondo”. 

Il pericolo dentro e fuori

Sia in Succession sia in The Umbrella Academy sono proprio le dinamiche familiari a essere vissute come la fine del mondo, perché è all’interno della famiglia che si trova il pericolo da cui bisogna scappare. “Home is where it hurts / My home has no heart”, canta Camille all’inizio di Juste la fin du monde di Xavier Dolan, maestro nel mettere in scena legami di sangue disfunzionali e mura domestiche claustrofobiche. A volte, però, è la minaccia del “fuori” che frantuma l’equilibrio del nucleo familiare e schiaccia i suoi membri. “L’irritabilità e la monotonia a seguito dell’auto-isolamento ci ha resi più veloci all’insulto e alle occhiatacce l’un l’altro”, scrive sempre il New York Times, riportando testimonianze sulla quotidianità in quarantena, “che poi sfociano in liti feroci che fanno emergere sentimenti a lungo repressi”. Years and Years, in Italia disponibile su StarzPlay, rappresenta bene il groviglio di frustrazioni e preoccupazioni, in un’escalation di eventi sempre più caotici e inquietanti che mettono a serio repentaglio l’unità familiare. 

La serie è un family drama distopico che si apre con i Lyons, seduti sul divano, intenti a guardare e commentare un talk politico; e si chiude, nel pilota, con gli stessi che litigano e urlano ancora davanti alla tv, dopo l’annuncio del lancio di un missile nucleare. Proprio come noi, sul nostro divano, nelle nostre case, specie negli ultimi mesi in cui la tv si è popolata di conferenze e dirette nazionali dedicate all’emergenza. Years and Years è uno specchio che riflette chi guarda: in questo caso rappresenta le tante famiglie che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico, della crisi finanziaria, del crollo delle democrazie, e affrontano “un mondo in fiamme”. James Poniewozik sul New York Times ha scritto che “I Lyons sono quel tipo di persone che una volta erano isolate dalle catastrofi globali. Ora di quell’isolamento si sta staccando uno strato alla volta. Quando le cose vanno a rotoli in Asia, in America, al Polo Nord, alla fine diventa un tuo problema, ovunque tu sia”.

Proprio come noi, sul nostro divano, nelle nostre case, specie negli ultimi mesi in cui la tv si è popolata di conferenze e dirette nazionali dedicate all’emergenza. Years and Years è uno specchio che riflette chi guarda: in questo caso rappresenta le tante famiglie che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico, della crisi finanziaria, del crollo delle democrazie, e affrontano “un mondo in fiamme”.

Lungo gli episodi, vediamo i membri della famiglia riunirsi a ogni ricorrenza ma, allo stesso tempo, sgretolarsi lentamente tra divergenze ideologiche, tradimenti coniugali, licenziamenti e lutti improvvisi, perché immersi nella Storia che stanno vivendo, sia pure inconsapevolmente. “Vi ricordate anni fa quando pensavamo che le notizie fossero noiose?”, chiede Stephen Lyons, che a causa del collasso del sistema bancario ha perso il lavoro e un milione di sterline. “Ora ci nascondiamo. Devo nascondere i miei occhi, letteralmente”. Years and Years mette in scena un racconto realistico e brutale del presente, ma si chiude con un finale mite e speranzoso, lasciando presagire sia l’arrivo di nuovi disastri e nuovi “mostri” sia una ritrovata unità familiare che verosimilmente verrà messa alla prova, ancora e ancora.

Tra amore e tragedia

L’8 novembre 2020 su Hbo Europe si è chiuso Patria, family drama tratto dall’omonimo romanzo best seller di Fernando Aramburu, che ripercorre trent’anni di storia del popolo basco e dell’organizzazione terroristica Eta. Anche qui, la saga familiare non ha nulla della bontà stereotipata tipica del genere ma anzi è costellata da meschinità, emarginazione, dolore, violenza e morte. Sia quella di Bittori che quella di Miren sono due famiglie spezzate dall’impatto della Storia – in questo caso il terrorismo – che divora tutto, anche i legami più solidi e duraturi. La morte in particolar modo, con l’assassinio del marito di Bittori, Txato, è un leitmotiv: un momento cardine che viene riproposto e messo in scena più volte nel corso degli episodi, in quanto rappresenta un pensiero fisso latente, un’ossessione. Per Bittori, che anziana ritorna al suo paese d’origine in cerca di risposte, per la figlia Nerea, che non ha mai elaborato il trauma della morte del padre, per il figlio Xabier, autorecluso in una vita di infelicità. Così come per la stessa famiglia di Miren, madre del terrorista Joxe Mari, strettamente coinvolto nell’uccisione di Txato.

Nella serie amore e tragedia vanno di pari passo, e legano in maniera inestricabile le loro vite, perché la patria – come la famiglia – è qualcosa di viscerale per i personaggi, ma diventa anche la loro condanna e la prigione da cui è impossibile scappare. Emblematica è la storia di Arantxa, figlia di Miren, che prende le distanze dall’ideologia nazionalista separatista ma è comunque travolta dalla politica – il fatto che il fratello Joxe Mari sia un terrorista compromette il rapporto con la madre –, trovandosi alla fine reclusa in una duplice gabbia: quella del suo corpo, immobilizzato a seguito di un ictus, e quella della casa di famiglia, in cui è costretta a tornare dopo la separazione dal marito violento, contrario al nazionalismo basco. “Tu hai la tua prigione e io la mia”, scrive Arantxa a Joxe Mari in carcere. “Ho una sentenza a vita. Ma c’è una differenza. Tu sei lì per quello che hai fatto ma cosa ho fatto io per meritarmi questo?”. 
In modo simile a Years and Years, Patria propone un finale dolceamaro: nell’ultimo episodio, Bittori e Miren si incontrano e si abbracciano dopo tanti anni, ma come scrive El País è solo un abbraccio momentaneo perché “non è un gesto simbolico di ricongiungimento, di perdono e di altri principi lodevoli e improbabili […]. È un abbraccio di comprensione e solidarietà, fugace come una scintilla”. In quel momento le due donne si guardano e riconoscono la sofferenza reciproca, ma anche l’impossibilità di dimenticare le ferite del passato. I travagli e i torti subìti, insomma, che a volte creano voragini tra ricordi e sentimenti troppo ingarbugliati anche solo per essere espressi. Ma che fanno parte di noi e, come mostrano tutte queste serie televisive, di ogni famiglia, nessuna esclusa.


Manuela Stacca

Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.

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