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Testimonianza

Gülsah e le altre

Il racconto di una giornata passata a Istanbul con le star della soap turca, prima dei recenti avvenimenti, nell’incerto sorgere di una potenza (anche) televisiva.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 20 - Telenovela oggi del 22 giugno 2016

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Questo articolo è stato scritto qualche mese prima dei fatti di Gezi Park. La manifestazione a cui le due attrici dei serial televisivi mi portano è quella che ha dato inizio alle proteste che hanno poi condotto alla grande mobilitazione. Che per me straniero era imprevedibile, ma evidentemente già serpeggiava nell’aria. Oggi Istanbul è una città martoriata da un tiranno come Erdogan che si appoggia alla maggioranza silenziosa e conservatrice (tra cui purtroppo molte confraternite sufi), che mette in carcere giornalisti e chiude i giornali, e da un terrorismo che sfrutta proprio le ambiguità del regime. Chi conosce Istanbul, chi ama la sua gente, sente come questa società civile che vi stava e sta crescendo sia proprio l’obiettivo da sradicare e distruggere per il tiranno e per Daesh. D’altro canto vi sono le ragioni del mercato, quelle per cui, fortunatamente, i serial turchi continuano a esprimere una creatività e delle posizioni molto più avanzate di quelle di tutto il mondo arabo e della stessa maggioranza turca. È un momento di grande sofferenza, per una delle città più belle del mondo. Il mio racconto vuole essere un omaggio al contesto dentro cui tutto ciò sta accadendo.

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Pigiato tra la folla di Istiklal Caddesi, il viale dell’Indipendenza (in una delle immagini del libro di Orhan Pamuk, Istanbul, lo vedete deserto e percorso da un tram solitario), cerco di seguire Gülşah e Goksin, due giovani attrici delle soap turche. Mi prendono per mano, mi spingono avanti tra le migliaia di persone, turisti arabi, donne omanite con il burka, studenti erasmus tedeschi, ragazze turche in minigonna, ragazzi turchi che cantano canzoni balcaniche accompagnandosi con il flauto ney e con il liuto oud. Gülşah mi parla con gli occhi e i sorrisi, Goksin la traduce. Gülşah (il nome vuol dire “regina dei fiori”) è la star in piena ascesa nel mondo esploso delle serie turche. Il suo volto semplice e suadente, l’aria scanzonata e un po’ infantile, si stanno imponendo nel serial che impazza in questi mesi, Veda (Addio), cento e più puntate sulla storia di una famiglia turca nella Istanbul degli anni Venti tra la caduta dell’Impero Ottomano e l’ascesa di Ataturk e della Repubblica. Ma il motivo per cui ho cercato Gülşah Firincioglu è un altro. Voglio che mi racconti cosa si prova a essere diventata una star di tutto il mondo arabo e di buona parte di quello musulmano.

Il sistema e la fama

Tutto è cominciato nel 2008. Alcuni serial turchi che non erano andati nemmeno tanto bene in patria come Noor/Gümüş (Affari di famiglia) e Aşk-ı Memnu (Amore proibito), due storie di famiglie, amori, parentele ambientate nella cornice delle ville ricche sul Bosforo, hanno riscosso un successo enorme negli Emirati Arabi, in Medio Oriente, in Nord Africa e nei Balcani, anche in concomitanza con la crisi delle emittenti siriane ed egiziane. Le ultime due puntate di Noor hanno attratto 85 milioni di spettatori, di cui 50 milioni donne. Gülşah è stata travolta da questo successo quando ha cominciato a recitare in un lunghissimo romanzo a puntate, Annem (Mia mamma). “A cosa è dovuto questo successo?”, le chiedo. “Al fatto che i serial turchi vengono girati su buoni copioni, scritti in buona parte da mani femminili, a poco prezzo e già pensati per essere doppiati in varie lingue, ma soprattutto in un arabo colloquiale – e non nello stile classico che non tocca la gente. Si rivolgono a un pubblico in prevalenza musulmano, raccontano situazioni che oscillano tra la nostalgia del passato ottomano e una modernità che pone problemi alle tradizioni”. Gülşah Firincioglu ha la faccia giusta per incarnare quel hüzün, la nostalgia stambuliota che noi europei ci siamo abituati ad attribuire a Orhan Pamuk, ma che è una cifra di buona parte del sentimentalismo turco. Nostalgia del mondo perduto e del grande passato, quello che permea le stratificazioni storiche e culturali di cui Istanbul è fatta.

Gli stambulioti vivono la loro città come sospesi, con il senso di un’inesauribile non appartenenza. In più Gülşah, come figura femminile, rappresenta quel carattere dolce ma anche forte che hanno le donne turche, molto più indipendenti delle loro colleghe di altri paesi musulmani. Gülşah dice che il grande boom è arrivato con i kolossal storici a puntate, come Il secolo magnifico, dove si parla degli amori e delle gesta del sultano Solimano e con As Time Goes By, un altro serial sugli anni Venti. Mi racconta dell’effetto che in Turchia e nel mondo musulmano ha fatto il film che ha dato la stura ai serial storici: Fateh (Conquista), che racconta la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi e la caduta dell’Impero Bizantino. Dice che adesso la fermano per strada turisti che vengono dagli Emirati o dall’Algeria, la riconoscono e la chiamano con il nome che ha nelle soap. L’altro effetto del successo internazionale è che a Istanbul dal 2008 c’è stato un aumento del numero di turisti provenienti dai paesi musulmani che vogliono visitare i siti dove sono stati girate le serie: nel solo 2008 si è passati da 30 mila a 100 mila.

La cosa singolare è che la Turchia ha una relazione piuttosto controversa con i paesi arabi: diciamo che non li ama particolarmente e però per la prima volta (dalla caduta dell’Impero Ottomano) si trova a esercitare su essi una forte influenza culturale. I serial arrivano fino in Corea, e perfino in Messico, ma è l’area musulmana (tra cui la distante Indonesia) a rispondere con un’attenzione e un divismo impressionante. Chiedo a Goksin e a Gülşah cosa sanno e cosa pensano dei paesi arabi. Da buone laiche e di sinistra mi confidano i loro dubbi e le loro apprensioni rispetto ai diritti delle donne, alla libera espressione del pensiero e alla repressione dell’opposizione, ma allo stesso tempo dicono che questo successo le fa riflettere sul modo in cui la Turchia è vista dall’esterno. Come se rappresentasse un luogo a cui ispirarsi per una versione più moderna e competitiva del mondo musulmano, anche se la loro esperienza personale non è molto ottimista riguardo alle aperture del proprio paese.

Entrambe guardano all’Europa come a un luogo in cui vorrebbero vivere almeno per un po’ – ma non è ancora facile muoversi da qui verso l’Europa. Gülşah è impressionata dal proprio successo, ma vorrebbe fare più teatro e più cinema, appartenere a quella fioritura davvero interessante che è il cinema turco recente, con registi come Nuri Bilge Ceylan (C’era una volta in Anatolia), Kaplanogu (la magnifica trilogia alla Tarkovski, Latte, Uova e Miele), Fatih Akin (Crossing the Bridge, La sposa turca, Soul Kitchen). Accanto a questi nomi più celebri ce ne sono molti altri che si rivolgono a un pubblico più interno: c’è per esempio un bellissimo film sulle sette sufi del quartiere Fateh di Istanbul, Takva di Ozer Kiziltan.

Il motivo per cui ho cercato Gülşah Firincioglu è un altro. Voglio che mi racconti cosa si prova a essere una star di tutto il mondo arabo e di buona parte di quello musulmano.

La resistenza

A questo punto, sgomitando tra la folla di Istiklal Caddesi, siamo arrivati davanti a un passaggio coperto, Alep Pasaji. Entriamo e mi ritrovo ad attraversare negozi di abbigliamento e di scarpe, fino a quando non finiamo dentro a un teatro, con i palchi, la scena, il sipario. Il teatro è affollatissimo, ma ci fanno entrare e ci danno i posti in prima fila. Capisco tra gli accenni di Goksin e i gesti di Gülşah che si tratta di una manifestazione a favore di un pianista molto famoso che rischia il carcere per aver espresso opinioni non molto ortodosse sulla religione. Il pianista, Fazil Say, è accusato di aver commentato in modo irriverente su Twitter la maniera sgraziata con cui un muezzin ha fatto l’appello alla preghiera. In più il pianista si era permesso di annotare che era stufo, essendo lui ateo, di essere disturbato da tali suoni sgradevoli. Risultato: una condanna pendente a un anno e otto mesi. O, molto probabilmente, dover abbandonare il paese. Sul palcoscenico si susseguono musicisti, attori, registi e tutti raccontano in maniera appassionata la loro solidarietà e il loro sdegno per la mancanza di libertà di espressione che questo rappresenta. E paragonano il pianista a un grande eroe della storia turca, il poeta Nazim Hikmet. Anche lui fece anni di carcere per le sue idee, anche lui fu costretto all’esilio.

Lo spettacolo dura ancora un bel paio d’ore. Forse commosse dalla mia pazienza e dalla faccia di uno che fa finta di capire, mi invitano a rivederci un’altra volta. Nel frattempo però mi dicono che anch’io un po’ somiglio a Nazim Hikmet. Mi trovo dunque proiettato in categorie nuove, e cerco di fare del mio meglio per chiedere alle due giovani donne che origine hanno i loro volti, le loro fattezze. Mi rivolgo a Goksin, che ho sfruttato e trascurato nel tentativo di far parlare la star. Osservo il naso dolcemente all’insù di Goksin e le chiedo che provenienza ha. Ogni buon antropologo ha questa domanda in serbo e cerca di anticiparne la risposta. Lei mi guarda e dice: “Ma proprio il naso? L’ho fatto cambiare da un chirurgo qualche anno fa, perché noi nati sul Mar Nero abbiamo un naso orribile”.


Franco La Cecla

Franco La Cecla è antropologo: Insegna in Naba a Milano Visual Culture e in Iulm Milano Arte e Antropologia. Ha pubblicato recentemente con Anna Castelli Scambiarsi le Arti, Arte & Antropologia e Tradire i sentimenti, rossori, lacrime, imbarazzi (Einaudi).  Altri lavori recenti, Essere Amici (Einaudi) e il documentario E' assurdo per un bianco essere in Africa, e il libro Africa loro (Milieu).

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