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Mediaset e il cinema italiano

Nobilitare la tv privata. La serie Amori

L’incontro tra il cinema italiano più colto e blasonato e l’impresa televisiva nasce servendosi della mediazione dei fratelli Vanzina, a cavallo tra le due realtà. E il risultato è stato un’ambizione, una speranza, una presa delle misure.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su Mediaset e il cinema italiano - Film, personaggi, avventure.

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Vista oggi, l’operazione realizzata per la serie Amori da Reteitalia con la Video 80 dei fratelli Vanzina (in coproduzione, in un caso, con la Falcon et Associés di Parigi) sembra quasi una chimera, un essere mitologico nato dall’incrocio tra una vocazione pedagogica degna della Rai di Bernabei e le logiche promozionali e di marketing di una televisione privata che ambisce ad abbracciare segmenti di pubblico variegati, compreso quello colto. 

Come gli sceneggiati della paleotelevisione, infatti, anche Amori cerca una nobilitazione letteraria, adattando per il piccolo schermo alcuni racconti o romanzi di noti scrittori italiani come Tabucchi, Guareschi, Landolfi o Campanile, mentre la realizzazione dei sei film è affidata a riconosciuti professionisti del cinema: non solo registi – Alberto Lattuada, Dino Risi, Mario Monicelli, Luigi Magni, Lina Wertmüller e Nanni Loy – ma anche sceneggiatori del calibro di Ennio De Concini, Suso Cecchi d’Amico e Ugo Pirro, direttori della fotografia come Blasco Giurato e montatori come Ruggero Mastroianni. Dietro a questo tentativo di legittimazione c’è la mano dei Vanzina, qui nei panni di produttori illuminati e trait d’union tra il cinema italiano e una realtà produttiva, Reteitalia, desiderosa di rafforzare la sinergia tra quel mondo e il suo canale distributivo privilegiato, la televisione. Seppure molti tra i registi chiamati a dirigere i film della serie avessero già esperienze televisive pregresse, c’è ancora da vincerne la diffidenza nei confronti delle reti private e, soprattutto, della famigerata pubblicità, in un momento, poi, in cui sta raggiungendo il suo acme la cosiddetta “battaglia per gli spot” nei film trasmessi in tv. Più di un articolo dell’epoca, infatti, racconta di una “trattativa” tra i registi e Berlusconi, a conclusione della quale i cineasti ottengono una riduzione dello spazio dedicato alla pubblicità e, soprattutto, la possibilità di concordare il posizionamento delle interruzioni pubblicitarie. 

Il ciclo è trasmesso il martedì sera nella fascia di prime time (20.30), ed è inaugurato dall’adattamento più anomalo tra i sei: Il vizio di vivere, di Risi, tratto dal libro omonimo di Rosanna Benzi. Non si tratta, dunque, del racconto di un autore blasonato, ma dell’autobiografia di una scrittrice italiana nota per la drammatica vicenda personale – ammalatasi di poliomielite, ha vissuto per ventinove anni in un polmone d’acciaio – e per l’impegno e la militanza a favore dei disabili. È probabile che si sia voluto lanciare la serie con un film legato a una vicenda attuale e a un personaggio contemporaneo, per far presa sulla curiosità e l’interesse del pubblico. In effetti, il film gode di un buon riscontro anche successivo – sarà uno di quelli ritrasmessi più di frequente – nonostante Risi calchi qua e là la mano sull’aspetto mélo della vicenda. Pur ricorrendo a modalità di racconto e di messa in scena estremamente convenzionali, il film non è privo di elementi d’interesse: nel mostrare, con molto pudore, il desiderio e la sessualità della sua protagonista rompe, per esempio, un tabù intorno alla disabilità. 

Sia Il vizio di vivere sia gli altri film si prendono, com’è inevitabile, piccole e grandi libertà nei confronti delle fonti, e i registi cercano di conciliare la propria visione con il tipo di esperienza spettatoriale che impone il piccolo schermo.

Sia Il vizio di vivere sia gli altri film si prendono, com’è inevitabile, piccole e grandi libertà nei confronti delle fonti, e i registi cercano di conciliare la propria visione con il tipo di esperienza spettatoriale che impone il piccolo schermo. Il risultato, sebbene disomogeneo, è interessante proprio nel suo eclettismo: Mano rubata, di Lattuada, dietro l’ambientazione parigina, l’eccentricità dei costumi e del décor, l’indugiare voluttuoso – non senza qualche deriva kitsch – sui corpi e sulle forme, è una battaglia tra i sessi in cui i sogni di dominazione del maschio si scontrano con un femminile disposto a scoprirsi (letteralmente) solo a patto di una resa reciproca. Cinema, di Magni, come si intuisce dal titolo è un film meta-cinematografico con un gusto “modernista” che lo avvicina a insospettabili come De Oliveira: i due protagonisti si ritrovano sul set insieme dopo molti anni e giocano un’ultima schermaglia amorosa sul filo tra realtà e finzione, tra passato e presente. Gioco di società, di Nanni Loy, è forse il più disincantato e cinico dei sei episodi, anche se il gioco al massacro tra le due coppie del film è alleggerito dalla verve della coppia Adorf e Sastri, che qui strizza l’occhio niente di meno che alla Barbara Stanwyck di La fiamma del peccato (Billy Wilder, 1944). Del tutto surreale, invece, il registro di La moglie ingenua e il marito malato di Monicelli – surrealismo in linea, del resto, con quello del romanzo di Campanile. Ribattezzabile come “gruppo di cornuti in un interno”, il film – attraverso la comparsa letterale del “marchio dell’infamia” che spetterebbe ai traditi sulla fronte di un illustre professore – ironizza sulle convenzioni borghesi riguardo al matrimonio e la fedeltà coniugale. Se c’è soprattutto la coppia eterosessuale al centro della maggior parte dei film, diverso è il caso di Il decimo clandestino, affidato a Lina Wertmüller. Fedele allo spirito di Guareschi, il film è una favola lieve e delicata sull’amore materno, dal sapore antico – non c’è pressoché nessun tentativo di aggiornare agli anni Ottanta la contrapposizione tra campagna e città, tra tradizione e modernità –, illuminata dalla recitazione vivace e sentita di Piera Degli Esposti. 

Proprio il film di Wertmüller è al centro di un piccolo caso, sintomatico di quanto questo esperimento di televisione “d’autore”, pur nella sua semplicità, abbia contribuito a mettere in crisi i confini tra cinema e tv. Il film, infatti, è selezionato a Cannes nella sezione Un certain regard, ma la data di messa in onda, 2 maggio 1989, precede di qualche giorno la proiezione al festival. Questo malgrado le proteste della regista e dei Vanzina, costretti per ragioni di marketing a capitolare e a far precedere la prestigiosa vetrina festivaliera dal passaggio tv. Amori, dunque, è stata a suo modo una di quelle ibridazioni un po’ destabilizzanti che hanno precorso i tempi, anticipando le sinergie, e pure le sovrapposizioni conflittuali tra serialità, cinema e festival, che contraddistinguono il complesso scenario mediale contemporaneo.


Chiara Grizzaffi

Ricercatrice e docente presso l'Università IULM di Milano e l'Università di Roma La Sapienza, ha scritto saggi per diverse riviste e volumi. Ha inoltre curato insieme a Rocco Moccagatta il volume Mino Guerrini. Storia e opere di un arcitaliano (2022). La sua monografia I film attraverso i film. Dal ‘testo introvabile’ ai video essay, è uscita per Mimesis nel 2017. È co-editor di [in]Transition e associate editor di Cinergie.

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