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Cultura pop

Neomelodico lingua comune

Ai margini dell’immaginario italiano, ma con improvvise attenzioni del mainstream, si è sviluppata una cultura musicale che va ben oltre Napoli, e ben oltre certi stereotipi. Viaggio nel neomelodico.

Non c’è argomento che infiammi il dibattito pubblico come la lingua. Che si tratti di una variante regionale usata in una serie tv animata o di una nuova desinenza che veicoli l’utilizzo del genere neutro, ovunque fioriscono discussioni sul modo in cui parliamo. Il linguista Ferdinand de Saussure fu il primo a fare una distinzione tra langue e parole, ossia l’insieme di segni che formano il codice che comunemente chiamiamo lingua e quello degli atti linguistici individuali che pratichiamo noi parlanti, ciascuno nel suo modo, unico, soggettivo, personale. Una distinzione che ci consente di avere una visione d’insieme un po’ meno bellicosa sul tema che accende anche gli animi più quieti e che lascia spazio a una bellissima verità: la lingua non è qualcosa di astratto, non è metafisica ma realtà. E la lingua può unire non solo metaforicamente luoghi distanti, può essere un manifesto di rappresentazione e coesione. Nel periodo ellenistico, la lingua che univa il territorio greco in un’unica civiltà al di sopra della frammentazione dialettale era chiamata koinè diàlektos. E ancora oggi usiamo la parola koinè per descrivere un codice condiviso che avvicina e lega popoli e usanze che si ritrovano insieme nonostante le radici diverse. E la musica neomelodica napoletana è in un certo senso una koinè.

Non dirgli mai

In una puntata recente del quiz serale in onda su Raiuno I soliti ignoti, Gigi D’Alessio fa da concorrente, provando a indovinare arti e mestieri dei misteriosi sconosciuti che si ritrova davanti. Tra le regole di questo fortunato format condotto da Amadeus, ce n’è una che riguarda alcuni dettagli apparentemente irrilevanti della vita degli ignoti: gusti, usanze, strani record personali, tutto è utile per smascherare il soggetto. Mentre D’Alessio ride e scherza con la sua consueta ironia guascona e prova ad accumulare il montepremi da devolvere in beneficenza, una ignota dice di sé “Amo la musica neomelodica”. L’indizio passa inosservato, ma quando Amadeus lo sottolinea, il cantante napoletano si lancia in un’invettiva contro la definizione: neomelodico, dice D’Alessio, non vuol dire niente. Anzi, qualcosa vuol dire, ed è un termine dispregiativo, un’etichetta ghettizzante che è stata data alla musica napoletana per differenziarla da quella italiana. Amadeus prova a spiegargli che lui, che napoletano non è, con quella parola intende uno stile musicale, ma il cantante insiste, “Se un cantante romano canta in dialetto tu dici neomelodico romano?”. La discussione va avanti con toni che sembrano un po’ più seri che faceti, ma la grande professionalità del conduttore fa sfumare tutto in un abbraccio. 

L’obiezione di Gigi D’Alessio, per quanto figlia di una rivincita orgogliosa contro un pregiudizio, ha del vero. Il termine, nato negli anni Novanta, identifica un genere musicale comunemente ritenuto molto popolare, in continuità con la tradizione canora napoletana ma con connotazioni spesso malavitose; non è un caso che anche Nino D’Angelo, altro grande cantante uscito dalla nicchia partenopea e arrivato al grande pubblico, il “poeta che non sa parlare”, si discosti dall’etichetta. In realtà, l’elemento più interessante del neomelodico si trova nel punto opposto al ragionamento di Gigi D’Alessio: se un cantante veneto canta in dialetto non fa neomelodico veneto, certo, ma esistono cantanti provenienti da altre regioni che, per una serie di ragioni culturali e storiche, cantano in napoletano, adottandone, oltre alla fonetica dialettale, anche registro, temi, estetica. Il neomelodico è un paradigma che i non-napoletani prendono in prestito per via del prestigio culturale e linguistico della lingua partenopea all’interno di alcune classi sociali. Un prestigio che si muove nella sottocultura periferica, fuori dai circuiti mainstream del mercato musicale italiano – tranne in rarissime incursioni – ma che raccoglie migliaia di visualizzazioni su YouTube, centinaia di migliaia di persone ai concerti, fiumi di trend su TikTok e una tradizione che unisce tutto il Meridione in un unico grande calderone musicale dove si parla una sola lingua, quella del neomelodico.

Il dolce e l’amaro

A Catania, in una piazza del centro, da decenni ogni mattina è montato un enorme mercato. Si chiama ‘a fera ‘o luni, la fiera del lunedì, anche se è aperta per tutta la settimana, e si vende qualsiasi cosa, dalla frutta al pesce alle stoffe. Camminando tra le bancarelle, oltre alle urla dei venditori che usano tormentoni e jingle per promuovere la merce, capita spesso di sentirne qualcuno che canta in napoletano. Essendo Catania la città dove sono nata e cresciuta, questa usanza non mi ha mai stupita, come non ho mai trovato strano il fatto che i miei compagni di scuola cantassero per goliardia le canzoni di Gianni Celeste, uno degli artisti neomelodici più importanti di sempre, mio concittadino, e ultimamente protagonista di un trend su TikTok con una sua storica canzone di vent’anni fa, “Ho litigato con mia moglie”. Il neomelodico in Sicilia è un’istituzione: lo cantano per strada gli arrostitori di carne di cavallo, i barbieri, i bambini in sella ai motorini. E non è solo un prodotto che viene importato dalla capitale morale e culturale delle due Sicilie, Napoli, a uso e consumo delle classi popolari calabresi, pugliesi e siciliane, dal momento che tra i nomi più in vista degli ultimi vent’anni ci sono quelli di Tony Colombo, nato a Palermo, Gianni Vezzosi, catanese, Daniele De Martino, anche lui palermitano, e poi ancora Niko Pandetta, Matteo Milazzo. In ben due film di Franco Maresco, Belluscone e La mafia non è più quella di una volta, il neomelodico siciliano fa da protagonista, come compagno imprescindibile di un altro elemento che accomuna tristemente le grandi regioni del Sud, la malavita. 

Il neomelodico è un paradigma che i non-napoletani prendono in prestito per via del prestigio culturale e linguistico della lingua partenopea all’interno di alcune classi sociali. Un prestigio che si muove nella sottocultura periferica, fuori dai circuiti mainstream del mercato musicale italiano ma che raccoglie migliaia di visualizzazioni su YouTube e fiumi di trend su TikTok.

Ospite a Realiti, trasmissione di Enrico Lucci, nel 2019 il giovane neomelodico paternese Leonardo Zappalà è finito sotto l’occhio del ciclone per aver detto che in fondo, a Falcone e Borsellino, come piaceva il dolce sarebbe dovuto piacere l’amaro, sottintendendo un’imprudenza dei due magistrati, colpevoli di essersela cercata. Per scusarsi, il cantante ha scritto un post su Facebook e concesso un’intervista farcita di frasi fatte imparate a memoria, come il classico “La mafia è una montagna di merda”, salvo poi finire indagato per istigazione a delinquere pochi mesi dopo. Tony Colombo, invece, ha occupato le sedie di diversi salotti tv dopo che il suo matrimonio sontuoso con la vedova del boss camorrista Tina Rispoli aveva dato un po’ nell’occhio, diventando oggetto di discussione da Barbara D’Urso a Massimo Giletti. E questi sono solo due casi recenti tra i tantissimi episodi di intersezione tra criminalità organizzata e musica neomelodica. 

Ma quale dieta

Eppure, il carcere, la latitanza, la mafia e la camorra, sebbene siano elementi centrali del neomelodico e dei suoi testi, oltre che della vita dei suoi cantori, non sono l’unico punto comune che unisce questo canone musicale. Potremmo dire che in qualche modo non esiste malavita senza neomelodico ma esiste neomelodico senza malavita: il genere è talmente largo e variegato da avere al suo interno anche tantissimi artisti e canzoni che con la criminalità non hanno niente a che fare. Proprio nell’estate del 2021 ne abbiamo avuto un esempio, con la Nazionale italiana di calcio che oltre alle Notti magiche di Bennato e Nannini intonava le rime di Luca Il Sole di Notte, “Ma quale dieta?”, una canzone semi-volontariamente comica sullo strazio di un’alimentazione piena di restrizioni da portare avanti tra le tentazioni culinarie partenopee quali, per esempio, le polpette. C’è un filone infantile e ironico che caratterizza molte hit neomelodiche, specialmente quelle che escono dalla bolla del suo solito pubblico, basti pensare al Piccolo Lucio e al suo “A me me piac’ a Nutella” o a Rita De Crescenzo, detta anche “l’influencer dei clan”, che su TikTok colleziona follower e views con canzoncine che sembrano filastrocche insolenti quasi quanto lei, diventata famosa per aver preso in giro dei vigili urbani che la fermavano per farle una multa, “‘O culett’, ‘o bacin’, ‘o tacatà”. 

E i bambini, oltre che nell’infantilismo tematico di tantissimi brani, sono presenti anche in qualità di superstar di questo grande Sud che si unisce sotto a un dialetto. Un paio di nomi di spicco della sotto-categoria, con annesse storie genitoriali di speranza e riscatto che ricordano la trama Bellissima di Visconti: Benny G artista-influencer pugliese di dieci anni con il tribunale dei minori alle calcagna, in un feat con il coetaneo Daniele Marino totalizza 25 milioni di visualizzazioni; Matteo Milazzo, catanese, sbarca a X Factor con la sua “Bambola” – 23 milioni di visualizzazioni per il video originale della canzone – suscitando le solite reazioni del caso, tra risate di imbarazzo ed entusiasmo ipocrita per il mondo sommerso che si avvicina alla riva del mercato discografico ortodosso. 

Eros e Thanatos

Ma non c’è niente che unisca un popolo e un linguaggio come l’amore. Tormentato, passionale, sensuale, proibito, nascosto, violento, l’amore è il motore che muove la macchina del canto. Dai più duri e puri ai più sdolcinati, la poetica neomelodica fa da livella per qualsiasi cuore di pietra, criminale o gentiluomo che sia: anche ‘O Killer ha un cuore. Daniele De Martino, che con le sue sopracciglia ad ali da gabbiano e lo sguardo penetrante racconta qualsiasi sfumatura della sua carnalità, è uno dei più amati e seguiti della scena contemporanea: nei suoi video ci sono lenzuola di seta e donne prosperose che lo aspettano di nascosto dal marito. Sembra non esistere nient’altro nella sua vita all’infuori di un unico obiettivo, la riproduzione della specie, che mette in atto con vocalizzi ritmati, spesso accompagnati anche da basi latino-americane, in queste forme più moderne di neomelodico. Dall’altro lato, l’acerrimo nemico, Niko Pandetta, porta il neomelodico all’interno della cornice trap, mutuando abiti e costumi ma mantenendo rigorosamente linee vocali e dialetto del suo genere di appartenenza. 

Non esiste malavita senza neomelodico ma esiste neomelodico senza malavita: il genere è talmente largo e variegato da avere al suo interno anche tantissimi artisti e canzoni che con la criminalità non hanno niente a che fare. Proprio nell’estate del 2021, la Nazionale italiana di calcio oltre alle “Notti magiche” di Bennato e Nannini intonava le rime di Luca Il Sole di Notte, “Ma quale dieta?”.

I due si odiano, si dissano su Instagram per questioni di donne, e nonostante appartengano a due declinazioni molto diverse della stessa tradizione hanno qualcosa di complementare, come se fossero due facce della stessa medaglia, amore e morte, rosso e nero. Pandetta, i cui concerti sono stati spesso annullati per via di allusioni allo zio nelle sue canzoni – un boss mafioso attualmente al 41bis – ha fatto al neomelodico ciò che Liberato aveva fatto alla musica indie invertendo i contenitori, un sincretismo estetico che lo ha portato ad alcuni feat con artisti distanti anni luce dalla sua scena di appartenenza e dal suo pubblico, come Ketama126. De Martino invece, insiste sul filone romantico spinto, con testi e video che rasentano il soft porno. Entrambi contribuiscono all’espansione e alla prosecuzione di una realtà che vive non solo ideologicamente ma anche fisicamente ai bordi, nelle periferie, nei quartieri popolari che rimangono fieramente endogami per resistenza e opposizione.

Arte di cittadinanza 

Cos’è, quindi, il neomelodico? Troppo grande per essere considerato un unico genere musicale, troppo specifico per confluire in un flusso più largo che cade sotto la definizione di “musica napoletana”. Anche se, probabilmente, in quei mille colori cantati da Pino Daniele, che con il neomelodico non ha mai avuto nulla a che fare, c’è anche un pezzetto di questo enorme universo che sembra sommerso solo a chi non ha voglia di sbirciare. Inutile qualsiasi tentativo di riqualificazione o pulitura, dal momento che la spontaneità, anche la più criminale, spietata e deprecabile, è la base del fenomeno, che invece di acquisire generi e stili dall’esterno – e dall’estero –, mantiene la sua autarchia estetica, appropriandosi solo di qualche elemento che torna utile in base alla tendenza del momento, sia questo uno scimmiottamento di hit latinoamericane alla “Despacito” o un modo di vestire da trapper. Periodicamente, i giornali riportano storie legate ad artisti neomelodici che commettono crimini, cantano al battesimo del figlio di qualche boss, organizzano concerti da migliaia di persone senza il permesso del comune. Una delle notizie che mi ha colpito di più è quella di Agata Arena, cantante catanese e “Donna d’onore”, che con il reddito di cittadinanza si è pagata la registrazione di un album, mentre lavorava a un dispaccio alimentare abusivo. Fuori da ogni principio di civiltà e senso comune, il gesto di questa donna vale più di centinaia di pagine di elucubrazione sul senso dell’arte: l’impellenza della rappresentazione, anche in situazioni di disagio e di povertà estreme. Il neomelodico diventa una realtà condivisa in senso sovranazionale, una lingua franca che rompe il primato dell’italiano. Il Sud – e nel consumo, anche alcune parti dell’Italia settentrionale – si appropria del napoletano come mezzo di espressione universale, proprio perché, evidentemente, è percepito come più vicino, anche se geograficamente distante centinaia di chilometri. 

Quando ci domandiamo a cosa servano l’arte, gli artisti, la musica, il cinema, ma soprattutto quando deleghiamo questo aspetto della realtà a una forma di inutilità o a un vezzo, l’esempio del neomelodico – in quanto forma, a prescindere dai contenuti che lo generano – come paradigma dell’impellenza umana di autorappresentazione è forse il più autentico che abbiamo oggi in Italia. Ed è proprio nella sua emarginazione che trova lo spazio, contrapposto a un’idea di musica e lingua che non gli appartiene, sebbene appartenga alla maggioranza. Così come la lingua fiorisce dalla realtà, e non viceversa, anche l’arte non cala dall’alto, iperuranica, alta e soprannaturale, ma è prosecuzione necessaria del concreto, anche il più emarginato, fuori legge, canonicamente ascrivibile al brutto; e se si parla di koinè letteraria, non vedo perché con il neomelodico non possiamo parlare di koinè musicale.


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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