Chi c’era si ricorda dov’era, l’11 settembre. Il primo trauma globale in tv e su internet. Ma anche il primo momento in cui tutti hanno preteso un diritto di parola, forti della loro presenza.
Dov’ero io l’11 settembre 2001 è la cosa meno importante di tutte. Voglio dire, viste le 2.977 vittime, tra cui i 343 pompieri morti durante le operazioni di salvataggio dei cittadini. Non ha importanza dov’ero, perché andrebbe invece considerata e analizzata la reazione immediata degli Stati Uniti, con la guerra in Afghanistan per sradicare il regime dei Talebani (vicini ad Al Qaida) e uccidere lo stesso Bin Laden (sarebbe avvenuto solo nel 2011, con un blitz nel suo nascondiglio nella capitale pakistana Islamabad). Tra l’altro, due decenni dopo. l’addio delle truppe americane al Paese nell’agosto 2021 e la riconquista di Kabul sono stati molto criticati, talvolta dagli stessi che vent’anni prima avevano contestato la guerra in Afghanistan. Senza contare, poi, che nel 2003, nel vivo della “Guerra al terrore” dichiarata da George W. Bush, allora presidente in carica, gli Stati Uniti hanno guidato una coalizione internazionale in un secondo conflitto contro l’Iraq di Saddam Hussein, perché secondo il governo c’erano provati rapporti con gli attacchi dell’11 settembre e la dotazione di armi chimiche nell’arsenale iracheno (non saranno provati né i legami con l’11 settembre, né la presenza delle armi chimiche).
Eppure, nonostante non sia importante dove ero io, tutti, io compreso, si ricordano dov’erano l’11 settembre, tanto che l’11 settembre è diventato il giorno di dov’ero io quel giorno. Comunque, dovunque noi eravamo, a casa, per strada, in macchina, al lavoro, da soli, in compagnia, con i figli, siamo stati davanti alla tv, per ore e ore. Un processo che ha riguardato non un singolo Paese – non un caso Vermicino, per dire, o un evento sportivo – ma una visione globale (almeno tutti i cittadini del mondo che posseggono una tv, quindi svariati miliardi), e aggiungiamo che il nine eleven ha rappresentato anche per internet una data di importanza capitale. Gli utenti hanno cominciato a cambiare il modo di usare la rete, i modelli e stili della comunicazione. Sono esplosi i weblog, e come Gino Roncaglia scrive nel suo case study sugli attentati: “Dopo l’11 settembre è diventata centrale, probabilmente per la prima volta, una dimensione della rete che certo esisteva anche prima ma che aveva raramente o una riflessione specifica: quella di internet come luogo e deposito di memoria collettiva”. Quindi anche se, visto quello che è successo quel giorno e nei vent’anni successivi, non è importante dov’ero io, l’11 settembre è importantissimo proprio perché ci ricordiamo dove eravamo: davanti alla tv (e di riflesso in rete, una rete che allora stava imparando a camminare).
Eppure, nonostante non sia importante dove ero io, tutti, io compreso, si ricordano dov’erano l’11 settembre, tanto che l’11 settembre è diventato il giorno di dov’ero io quel giorno. Comunque, dovunque noi eravamo, a casa, per strada, in macchina, al lavoro, da soli, in compagnia, con i figli, siamo stati davanti alla tv, per ore e ore.
I filosofi hanno commentato: nella diretta dell’attacco e poi durante il crollo delle torri, abbiamo vissuto la morte altrui in prima persona, non perché fossimo attratti dall’osceno o guidati dalla locuzione latina Mors tua vita mea, e nemmeno per arrivare alla catarsi attraverso la tragedia in diretta: abbiamo assistito, nostro malgrado, alla morte altrui facendola propria. Siamo morti anche noi e per questo ci ricordiamo di quella morte – “siamo tutti americani” era difatti il titolo di un editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, il 12 settembre 2001. Forse alcuni di questi hanno esagerato nelle interpretazioni e supposizioni, forse non siamo stati tutti solidali, forse non tutti abbiamo creduto alla realtà dell’evento, nonostante l’evento stesso sia stato classificato come quello assoluto, la trascendenza assoluta. Anzi, a prescindere da questo, abbiamo visto e già dai primi momenti cose diverse: sono nate il giorno dopo le teorie del complotto, da nessun aereo è caduto sul pentagono (per citare il libro tradotto da Fandango L’incredibile menzogna. Nessun aereo è caduto sul Pentagono di Thierry Meyssan, prefazione di Sandro Veronesi), alle torri tirate giù con l’esplosivo, degli ebrei latitanti e scioperati, dai mussulmani che festeggiavano agli angoli delle strade (come disse nel 2015 Donald Trump “L’ho visto in televisione. Ho visto i video. E li hanno visti molte altre persone. E altre lo hanno visto di persona”. Nessun video del genere è mai stato trasmesso: una notizia così falsa da essere vera), degli aerei telecomandati.
E che dire dell’ex sindaco di New York Rudy Giuliani che accusò l’allora candidata alla Casa Bianca, Hilary Clinton “Ho sentito che diceva di trovarsi a New York, quel giorno. Io ero lì quel giorno, e non ricordo di aver visto Hillary Clinton” – poi si scusò per averle erroneamente attribuito quelle dichiarazioni, la Clinton non aveva mai affermato di essere stata a New York l’11 settembre. Abbiamo visto svariate cose nei dibattiti televisivi, come lo special di Santoro su Raidue, siamo tutti americani? Nei quali ci siamo buttati nelle solite analisi: è colpa dell’Occidente – si diceva – avviando così quel processo di egooccidententismo in ragione del quale siamo colpevoli e responsabili di tutto, dunque gli altri non hanno colpa, anzi nemmeno, se non in quanto vittime. Un modo subdolo e raffinato che ribadire la nostra superiorità: un altro modo per dire io c’ero.
La tv mandando in loop le immagini ha accresciuto la potenza dell’io c’ero, e solidificato la nostra memoria, dunque al lungo elenco delle vittime, al dolore dei sopravvissuti, alle scelte geopolitiche che vennero dopo, andrebbe aggiunta questa nuova condizione. Io c’ero, io ho visto, io posso parlare e qualunque cosa dico è vera perché appunto c’ero e ho visto. Condizione strana.
Ognuno ha visto delle cose in tv, e da allora, è cambiata la tv, è cambiata la rete, perché ci siamo sentiti protagonisti di un evento e in ragione di questa condizione abbiamo chiesto di poter parlare dell’evento stesso. Avendo ottenuto parola, sicuri che fosse quella giusta, abbiamo costruito, giorno dopo giorno, a botte di io c’ero, io ero qui, io ho fatto, io ho detto, io ricordo, quella micromegalomania oggi evidente. Che tutto è tranne partecipazione alla tragedia e conseguente catarsi: la tv mandando in loop le immagini ha accresciuto la potenza dell’io c’ero, e solidificato la nostra memoria, dunque al lungo elenco delle vittime, al dolore dei sopravvissuti, alle scelte geopolitiche che vennero dopo, andrebbe aggiunta questa nuova condizione. Io c’ero, io ho visto, io posso parlare e qualunque cosa dico è vera perché appunto c’ero e ho visto. Condizione strana, piena di conseguenze, quelle sì, ancora da analizzare e capire.
Post scriptum. Anni dopo, in uno studio sui fattori che influenzano i ricordi autobiografici collegati a eventi di grande rilevanza storica e mediatica, i ricercatori conclusero che circa il 40 per cento degli intervistati aveva ricordi diversi rispetto a quelli riferiti un anno prima. C’era, per esempio, chi diceva che nel momento dell’attacco terroristico si trovava in ufficio, ma un anno prima aveva detto di trovarsi su un treno. Successivi studi per aggiornare i risultati, nel 2015, appurarono che le persone si attengono ai dettagli del “falso” ricordo, non di quello istantaneo, quando rievocano i momenti dell’evento a dieci anni di distanza. Alcuni falsi ricordi erano indotti da eventi traumatici, come per esempio il pompiere Michael Regan che per anni fu tormentato dal senso di colpa, per non essere andato al World Trade Center dopo gli attacchi terroristici. Era un falso ricordo. C’era stato eccome, anzi proprio perché aveva trasportato all’obitorio i corpi del vicecomandante e del capo del dipartimento, morti nel crollo delle torri, aveva subito un blocco mentale. Un classico meccanismo di difesa: “Quel giorno ho visto cose orribili, non volevo pensarci”. I falsi ricordi dell’11 settembre non solo sono rimasti sostanzialmente immutati nel tempo ma, concludevano i ricercatori, tendevano a essere particolarmente dettagliati. Infatti, alcuni dettagli imprecisi erano corretti nel tempo, forse per effetto dei condizionamenti esercitati dalle narrazioni sui media o di quelle all’interno di un gruppo di appartenenza. Che dire? Che si fa presto a dire io c’ero, io so, e chi se ne frega delle prove.
Antonio Pascale
Giornalista e scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con Il Mattino, Lo Straniero e Limes. Tra le sue opere: La città distratta (1999), La manutenzione degli affetti (2003); S'è fatta ora (2006), Le aggravanti sentimentali (2016).
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