Con il progressivo aumento dei campionati e degli sport seguiti dal pubblico, la gestione dei calendari e delle competizioni è diventata una questione di attenzione e sincronismo. L’America offre un modello a cui Italia e Europa dovrebbero ambire.
Appena terminato il campionato di basket della NBA, anche il campionato di Hockey della NHL arriva alla fase finale. Una volta finiti quelli, arriva l’estate e, a quel punto, entra nel vivo la stagione di baseball che è iniziata, come da tradizione, tra marzo e aprile e si concluderà in autunno tra ottobre e novembre. Intanto a settembre comincia il football che entrerà nella fase clou della stagione non appena il campionato di baseball arriverà a conclusione, e terminerà a gennaio col Super Bowl. E in un continuo passaggio di testimone, appena concluso il Super Bowl, il campionato di basket della NBA entrerà nuovamente nella fase decisiva per l’assegnazione del nuovo titolo.
Insomma, il sistema delle quattro principali leghe sportive professionistiche degli Stati Uniti (basket, hockey, football e baseball, rispettivamente NBA, NHL, NFL e MLB) è armonizzato per far sì che i diversi campionati non si facciano troppa competizione tra loro. Che la fase calda di ogni torneo coincida con l’inizio degli altri e le gare si sovrappongano il meno possibile.
L’arte di armonizzare i calendari
È una ripartizione dell’anno che si ripete in maniera molto simile da decenni e in cui le leghe si alternano come a voler creare una stagionalità in grado di imitare quella della natura, in cui una “stagione” sfuma spontaneamente nell’altra: l’estate è del baseball, l’autunno del football, inverno e primavera di hockey e basket. Un sistema molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati in Italia e, quasi ovunque, in Europa dove le stagioni sportive coincidono pressappoco con l’anno scolastico – contribuendo alla sensazione comune secondo cui il vero Capodanno è a settembre, non a gennaio – e finiscono inevitabilmente per contendersi l’interesse del pubblico (e quindi la loro passione, i loro abbonamenti, i diritti tv). Di solito a principale vantaggio del calcio. Stupisce, anzi, in questo senso che nessuno abbia mai provato a studiare formule di stagioni alternative per provare a contrastare quello che per molti appassionati di altri sport è considerato lo “strapotere del calcio”. Forse perché le abitudini sono davvero troppo inveterate o forse perché un’iniziativa singola rischierebbe di rompere altre armonie (per esempio quella con le coppe europee o con le leghe europee dello stesso sport e perfino con le nazionali).
Il meccanismo si regge soprattutto sulla capacità di tenere continuamente alta l’attenzione. Così appena la stagione termina, si è subito catapultati nel draft – il sistema di selezione dei migliori giocatori dei college – e, appena termina il draft, tutta l’attenzione si sposta sul mercato e, subito dopo, sui tornei di preparazione al campionato vero e proprio.
Ma più che avventurarsi in fantasiose ipotesi di stagioni sportive scompaginate, qui ci interessa discutere di come il modello americano sia in grado di costruire una macchina da intrattenimento sempre più accattivante e funzionale. Innanzitutto, non solo i calendari stagionali sono armonizzati in modo tale che il clou delle principali competizioni non crei troppi conflitti di interesse tra i tifosi, ma anche i calendari delle partite di una singola stagione sono in qualche modo sincronizzati tra le diverse leghe, sia per necessità visto che alcuni impianti servono sport diversi, sia per interesse dei proprietari dato che molti di loro hanno quote di squadre in leghe diverse. E anche per volontà dei vari broadcaster, che così riescono a evitare che più eventi di grido in contemporanea si rubino il pubblico a vicenda. Inoltre è una consuetudine che, anche all’interno della singola lega, i calendari della stagione non siano affidati al caso. In occasione delle feste nazionali, per esempio, quando il pubblico potenziale è maggiore, le leghe posizionano le partite che possono attirare più spettatori. (L’NBA ha l’abitudine di piazzare partite particolarmente importanti nel giorno di Natale o in occasione del Martin Luther King Day).
Una partita, infiniti contenuti
Non c’è solo il calendario, ovviamente. Mentre in Europa, la partita continua a essere sostanzialmente l’unica merce messa in vendita – basti come esempio la decisione di Dazn di limitare il numero dei giornalisti e dei contenuti accessori perché il pubblico è attento soprattutto al live – l’NBA ha costruito un sistema di intrattenimento che ha integrato perfettamente social, app e tv, in cui la partita è solo uno degli elementi offerti al pubblico. Si è molto scherzato sulle preoccupazioni di chi, quando si parlava di Superlega calcistica, aveva paventato il rischio di ragazzi ormai appassionati solo agli highlights piuttosto che alle partite intere. Ma sorridere del progetto fallito è diventato anche un modo di dire che il problema non esiste e, invece, non è così. L’NBA, per esempio, con la sua app (e diversi abbonamenti disponibili) offre l’opportunità di vedere una partita attraverso gli highlights anche mentre si sta svolgendo. O di vederla nella modalità condensed, cioè riassunta – e della stessa partita esistono vari minutaggi “condensati”, proprio per venire incontro ai desideri di chiunque. La cosa potrà far storcere il naso a qualche purista del gioco, ma dal punto di vista del divertimento degli spettatori è perfettamente funzionale.
Questa intuizione vale giusto come esempio di strategia attenta ai desideri del pubblico. Ma a voler dare uno sguardo d’insieme, il meccanismo in questo momento si regge soprattutto sulla capacità di tenere continuamente alta l’attenzione. Così appena la stagione termina, si è subito catapultati nel draft – il sistema di selezione dei migliori giocatori dei college – e, appena termina il draft, tutta l’attenzione si sposta sul mercato e, appena i grandi atleti cominciano a definire le proprie scelte, si alza l’attenzione sui tornei di preparazione al campionato vero e proprio. Inoltre, a tutto questo si aggiunge il campionato della Wnba che occupa proprio la fase della stagione in cui l’Nba riposa e gode così dell’opportunità di conquistare tutti gli appassionati. Proprio grazie a nuovi personaggi – su tutti Angel Reese e Caitlin Clark – arrivati quest’anno nella Lega, la Wnba sta macinando record su record, ottenendo più spettatori, migliori contratti tv, più vendite in termini di merchandising, più attenzione.
Accanto all’app ufficiale della Lega, anche i vari account social, i giornalisti, le riviste e i broadcast che seguono l’evento non sono in competizione tra loro, ma contribuiscono a creare un ambiente in cui accade sempre qualcosa di interessante e appassionante. Ognuno attraverso la sua specificità fornisce materiale per le narrazioni altrui. Da una partita nascono video di highlights, discussioni, storie. Intanto le interviste generano altre risposte, sfottò, intrattenimento. Insomma, per usare una parola molto in voga, c’è un flow ininterrotto di storie e racconti in cui la lega, i nuovi media e i vecchi media non sono mai in competizione, ma contribuiscono l’uno al successo dell’altro.
Non a caso l’accordo in via di definizione con Nbc, Amazon e Espn per il rinnovo dei diritti tv si aggira attorno ai 7 miliardi di dollari all’anno per i prossimi undici anni – integrando tutti i piani, proprio come appena descritto. Con un aumento pari a quasi tre volte rispetto al precedente, visto che dal 2014 al 2024 l’Nba ha incassato circa 2,4 miliardi di dollari all’anno. L’accordo realizzerà ancora meglio questa sinergia tra media e interessi solo apparentemente in competizione. (Anche se TNT che trasmette la NBA dal 1988, ha annunciato un ricorso perché accusa la Lega di aver preferito l’offerta di Amazon alla propria nonostante la cifra offerta fosse identica. E il rischio principale per il pubblico sembra quello di perdere lo show Inside the Nba, con Charles Barkley e Shaquille O’Neal, che – per tornare al discorso di Dazn – per il pubblico rappresenta la rete più delle partite stesse).
Le proporzioni ideali della competizione
Le leghe americane sono note per aver creato un sistema molto diverso da quello europeo grazie al quale ogni squadra che partecipa a un campionato può ragionevolmente pensare di poter vincere quel campionato nel breve o nel lungo periodo. Un’idea inconcepibile per ogni campionato di calcio europeo, ma varrebbe lo stesso per gli altri sport. Per esempio, nella NBA negli ultimi sei anni hanno vinto sei squadre diverse, mentre in Italia sei squadre hanno vinto gli ultimi trentatré campionati (e peraltro tre di queste hanno vinto un solo campionato a testa). Anche in Inghilterra occorrono trent’anni anni per trovare sei squadre diverse vincitrici, mentre va ancora peggio in Spagna dove ne occorrono addirittura quaranta.
Questo desiderio di perseguire la massima competizione possibile accade perché le leghe sanno che il pubblico preferisce competizioni serrate, non campionati in cui vincono sempre gli stessi. Eppure quasi nulla di tutto ciò viene sperimentato o anche solo preso in considerazione ad alti livelli in Italia o in Europa.
Un sistema altamente competitivo come quello americano si basa su alcuni pilastri. Innanzitutto il meccanismo del draft per cui le squadre che hanno avuto i risultati peggiori nella stagione precedente possono “prendere” i migliori giocatori usciti dal college nella stagione successiva, poi il sistema del salary cup per cui (in linea di massima) nessuna squadra può spendere più delle altre in stipendi, ma soprattutto la regola che stabilisce che nessuna squadra può acquistare giocatori dalle altre squadre, bensì solo scambiarli con i propri o con i diritti di scegliere i giocatori migliori nei draft successivi. (Piccola nota per i veri appassionati: sì, il sistema è molto più complicato di così e ha bisogno di aggiustamenti anno dopo anno, ma qui ci stiamo limitando a definirne i pilastri. Ci perdonerete se non entriamo nell’analisi di cosa sia una sign and trade).
Questo desiderio di perseguire la massima competizione possibile a tavolino non accade per puro spirito decoubertiano, ma perché le leghe sanno benissimo che il pubblico preferisce competizioni serrate, non campionati in cui vincono sempre gli stessi e gli altri fanno da partecipanti. Eppure quasi nulla di tutto ciò viene sperimentato o anche solo preso in considerazione ad alti livelli in Italia o in Europa.
Si è molto parlato di come il progetto di una Superlega di calcio europeo prendesse come modello le leghe professionistiche americane di maggior successo, ma poco delle idee che la Superlega non aveva alcun desiderio di importare. C’era, infatti, alla base sì il desiderio di aumentare il numero di grandi partite interessanti per un pubblico che non fosse composto solo dai tifosi delle due squadre impegnate a giocare, ma quasi nulla oltre questo. Innanzitutto non c’erano progetti di costruire una competizione che fosse più equilibrata: le sproporzioni tra i diversi fatturati sarebbero rimaste, certo non nella scala che può separare il Paris Saint Germain dalle sue avversarie in Francia, ma in qualche proporzione comunque. Inoltre, il sistema della Superlega presentava, già in fase embrionale, un altro evidente squilibrio dal punto di vista geografico. In questo momento in NBA giocano trenta squadre. Ma solo quattro stati hanno più di una squadra: California (quattro), Texas (tre), New York (due) e Florida (due). Ben diciassette stati hanno una sola squadra, più una del distretto della capitale Washington e una del Canada. La cosiddetta Superlega già solo nella sua fase embrionale aveva sei squadre inglesi, tre italiane e tre spagnole. Si prevedevano inviti a una francese e a due tedesche e altri cinque posti a rotazione fino ad arrivare a venti squadre, prima che tutto deflagrasse; ma con buona probabilità tutta l’Europa dell’est sarebbe rimasta fuori e anche tutta la Scandinavia, chissà il Portogallo, l’Austria, i Paesi Bassi e gli altri paesi europei di quelle dimensioni o popolazioni. Magari qualche apparizione sporadica, chi può dirlo.
In ogni caso nessuno negli Stati Uniti si sognerebbe di realizzare un campionato così sproporzionato. E oltre a questa enorme ingiustizia geografica ce n’era anche una seconda che riguardava le varie città all’interno dei diversi paesi: Londra aveva tre squadre, Madrid, Milano e Manchester due. Negli Stati Uniti solo Los Angeles e New York hanno due squadre (peraltro New York ha aggiunto la seconda squadra solo da una decina di anni). Si può presumere che la Superlega sarà presto realtà in Europa, ma se ciò che interessa è catturare pubblico allora sarebbe bene che i vari manager studiassero i meccanismi che rendono l’equilibrio un fattore determinante del successo dello sport per l’intrattenimento negli Stati Uniti. Equilibrio economico tra i partecipanti ed anche equilibrio geografico.
Secondo Forbes, nel 2023 una squadra Nba vale in media 3,85 miliardi di dollari, con un aumento del 75% rispetto al 2019. Questo sistema così redditizio funziona perché mette al centro l’interesse del tifoso visto che su quell’interesse e quell’attenzione si poggia. E per ottenerlo le varie leghe sono disposte ad armonizzare i calendari tra tutti i campionati e ad adattare i calendari in base alle esigenze degli spettatori. I proprietari sono addirittura disposti a vincere di meno perché sanno che solo rischiando di non vincere possono far parte di un sistema che garantisca enormi guadagni. Sarebbe ora che lo capiscano anche i vari fondi, gli sceicchi, gli oligarchi o vattelapesca che gestiscono il giocattolo in Europa.
Arnaldo Greco
Nasce a Caserta e vive a Milano, dove lavora per la tv. Ha scritto per Il Venerdì, IL, Rivista Studio, Il Post, Il Mattino.
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