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Realtà e finzione

L’immaginazione rapita

Un immaginario sempre più diffuso racconta il rapimento e la segregazione. Un pattern narrativo trasversale, che dice molto sulle paure della nostra epoca.

Il 19 aprile 2008 una ragazza ventenne di nome Kerstin è ricoverata alla Landesklinikum di Amstetten, in Austria, per un’insufficienza epatica. A portarla in ospedale è Josef Fritzl, la cui figlia Elizabeth era scomparsa 24 anni prima, inviando alcune lettere in cui affermava di essersi unita a una setta religiosa. L’apparente assenza di legami fra Fritzl e Kerstin fanno insospettire medici e polizia, subito allertata per cercare la madre della ragazza. Poche ore dopo fa la sua comparsa in ospedale proprio Elizabeth, che rivela una sconcertante verità: il padre Josef l’aveva rapita e tenuta rinchiusa nella cantina della loro casa per tutti quegli anni, abusando ripetutamente di lei. Da quei rapporti incestuosi erano nati sette figli (di cui uno morto poco dopo il parto), tre dei quali, compresa Kerstin, tenuti imprigionati con la madre nel bunker sotterraneo. Gli altri tre erano stati cresciuti da Josef e dall’ignara moglie “in superficie”, dopo finti ritrovamenti e lettere scritte su coercizione in cui la stessa Elizabeth chiedeva ai genitori di crescere i suoi figli.

Una storia rivoltante di cattività, abusi e violenze, una vicenda che ci porta ai limiti dell’umanità stessa: Josef Fritzl, già punito in precedenza per violenza sessuale, è stato condannato all’ergastolo, mentre Elizabeth e i figli, finalmente riuniti, sono ancora oggi sotto osservazione psicologica in strutture specializzate. Il più giovane dei figli della ragazza, Felix, aveva appena cinque anni al momento della liberazione: la sua storia è l’ispirazione alla base di Room, romanzo della scrittrice Emma Donoghue (in Italia edito da Mondadori), in cui si racconta il rapporto tra una donna e il suo bambino nato in seguito alla violenza perpetrata da un sadico rapitore. Ma e Jack – questi i loro nomi – vivono in una piccola stanza apparentemente normale, con una dispensa, un televisore, una vasca e un armadio; a non essere normale è la loro impossibilità di uscire. Il piccolo Jack cresce credendo che il mondo coincida con le quattro mura, nonostante le inquietanti visite di quell’Old Nick che li tiene prigionieri e periodicamente torna ad abusare della madre.

La storia di Room, adattata nel 2016 in un film diretto da Lenny Abrahmanson e interpretato da Brie Larson (premio Oscar per la miglior interpretazione) e dal giovane Jacob Tremblay, mostra anche l’altra faccia della medaglia: perché dopo la prigionia viene la liberazione, e dopo la liberazione un altro tipo di prigionia, quella del ritorno al reale, dell’attenzione morbosa, del desiderio di normalità in un mondo che vuole continuare a spolpare queste storie torbide e scabrose. “Mentre facevo le mie ricerche per il libro”, ha spiegato Donoghue, “mi ha colpito il mondo in cui le mie fonti (interviste tv, forum, e così via) riportassero i dettagli delle vicende. In particolar modo il misto fra lo zuccheroso e il moralista”.

L’attenzione dei media

Queste vicende di esistenze negate e abusate suscitano in modo quasi ovvio l’attenzione morbosa dei media più o meno qualificati. Il misto di violenza, sesso, segretezza e vergogna non fa che aumentare la curiosità sugli avvenimenti. Ma anche il numero di questi casi, in apparenza sempre più consistente, fa sì che si alimenti una specie di clima in cui allo smodato interesse fine a se stesso si aggiungono sentimenti di allerta e sospetto. Perché se anche è vero che, secondo dati aggiornati al 2014, negli Stati Uniti il numero delle persone scomparse è diminuito del 24% rispetto a dieci anni prima, secondo l’Fbi si riportano in media 750mila casi di sparizione all’anno, con alcune vicende che balzano sulle prime pagine dei giornali per motivi di efferatezza straordinaria.

Succede in tutto il mondo: dal caso di Natasha Kampusch, l’austriaca rapita all’età di dieci anni nel 1998 e fuggita dalla cella in cui era relegata solo nel 2006, a quello di Ariel Castro, che dal 2002 al 2013 ha sequestrato e violentato tre ragazze in un sobborgo di Cleveland; fino all’agghiacciante storia di incesti e violenze psicologiche emersa nel 2009 attorno alla famiglia Mongelli di Torino, in cui pare che padre e figlio abusassero delle figlie/sorelle in un modo talmente pesante da non aver nemmeno il bisogno di tenerle fisicamente prigioniere, tanto erano assoggettate ai loro abusi.

Sono vicende estreme che colpiscono alle viscere, tanto da dare l’impressione di vivere in un mondo in cui i giovani possono essere rapiti e abusati da un momento all’altro, in ogni parte del globo (per non parlare di quelli che scompaiono in regioni del pianeta o in situazioni, come quelle di migrazione, di cui è impossibile aver notizia). Tuttavia oggettivamente non è vero che ci troviamo in una situazione in cui i rapimenti e la riduzione in cattività sono all’ordine del giorno: secondo il sito americano Attn le possibilità che un bambino sia rapito sono una su 300mila (quelle di morire per soffocamento, per contro, una su 3400). Si tratta di una percezione gonfiata, piuttosto: “La paura del rapimento dei propri figli da parte di sconosciuti è stata ripetutamente alimentata negli Stati Uniti da programmi televisivi in cerca di ascolti, da politici fomentatori di panico e da associazioni in cerca di fondi”, racconta Barry Glassner, autore di The Culture of Fear (Basic Books, 2010).

“Da cosa vorreste proteggermi?”, chiede Kimmy Schmidt a un certo punto, “la cosa peggiore che mi sia capitata è avvenuta nel giardino di fronte a casa”.

Non è un caso che, nell’epoca dei social e della sorveglianza globale, anche un programma televisivo molto ben delineato come Chi l’ha visto?, che dal 1989 aveva la funzione di ritrovare le persone scomparse, abbia virato negli ultimi anni verso casi di cronaca più generici. È però l’accostamento fra rapimento e prigionia a sollecitare in maniera ancora cospicua l’immaginario mediale. Nell’ultimo film di M. Night Shyamalan, Split, uscito lo scorso gennaio, il pattern è evidente: la storia di un uomo posseduto dalle sue personalità multiple ha come punto di partenza il rapimento di tre giovani innocenti che sono tenute isolate in una stanza insonorizzata, in un luogo talmente improbabile da essere risparmiato da ogni tentativo di ricerca.

Uno schema narrativo frequente

Possiamo parlare di pattern narrativo anche perché poche settimane prima, su Netflix, aveva fatto il suo debutto The OA. Creata da Brit Marling e Zal Batmanglij, esponenti della cinematografia indipendente e sperimentale, è una serie suggestiva e onirica, che sfugge a ogni tentativo di definizione e gioca con grande maestria con i piani del racconto e con il patto di incredulità fra narratori, personaggi e spettatori. La gran parte della storia è ambientata in un bunker in cui cinque persone di diversissima estrazione e origine sono tenute prigioniere e costrette a strani rituali che confluiscono in una disperata ricerca paranormale. Anche in questo caso, come in Room, osserviamo le conseguenze della liberazione di Prairie, la protagonista, costretta ad acclimatarsi in un mondo che non riconosce più come familiare (prima della cattività era addirittura cieca) e che la ricopre di attenzioni ossessive e di sospetto.

Per prepararsi alla scrittura della serie, Marling, che è anche l’interprete principale, ha girato le scuole e parlato con molte giovani ragazze, come ha raccontato a NME: “La cosa più impressionante è stata la quantità di dolore che ho visto, come una sensazione di crisi”, ha dichiarato l’attrice. “Avvertivo come fossero davvero sopraffatte da ciò che avevano attorno e la loro urgenza di una via di fuga”. L’esigenza di trovare una via d’uscita che da fisica (scappare dal bunker) si fa dunque metaforica, psicologica (fuggire all’oppressione personale). Nel corso degli episodi di The OA, Prairie assume il ruolo di guida quasi messianica di un gruppo di spiantati e outsider, tra cui un giovane transessuale, uno studente modello ma dipendente dai farmaci, un ragazzo con problemi di gestione della rabbia. Anche loro devono in qualche modo fuggire da una società che li imbriglia.

Che tutte queste storie di finzione viaggino su binari paralleli e siano il risultato di una specie di clima culturale è dimostrato anche dal fatto che ci siano diversi tipi di esiti legati allo stesso schema. Un caso esemplare è Unbreakable Kimmy Schmidt, altra serie Netflix scritta questa volta da Tina Fey e Robert Carlock (già autori di 30 Rock). In terza media la protagonista del titolo, interpretata da Ellie Kemper, è rapita dal reverendo di un culto apocalittico che la tiene rinchiusa in un bunker sotterraneo per quindici anni assieme ad altre donne. Una volta liberata, Kimmy, fedele all’indole solare del proprio carattere, decide di andare a New York e rifarsi una vita, e il risultato comico si origina appunto dallo scontro fra la sua immarcescibile positività e un ambiente urbano per nulla accomodante.

Nonostante le difficoltà, Kimmy riesce a instaurare relazioni, quasi tutte con persone anch’esse ai margini della società – Titus, spiantato attore di colore e spettacolarmente omosessuale; Lillian, padrona di casa un po’ tocca che combatte contro la gentrificazione del quartiere; Jacqueline, trophy wife che si ritrova abbandonata dal marito che le preferisce un ragazza più giovane. Ogni episodio è infarcito di battute demenziali e riferimenti alla cultura pop, ma, come ha notato il New Yorker, l’abuso subito dalla protagonista si affaccia spesso in modo sotterraneo, appare per un lampo ed è rimosso immediatamente dalla volontà di voltare pagina.

Abbiamo l’impressione di vivere in un mondo in cui non esistono più confini, in cui ogni spazio e ogni ambito di conoscenza e di libertà sono ampliati a dismisura. Eppure la nostra coscienza collettiva ritorna sui concetti della privazione, della violazione, della segregazione. Prendiamo le nostre paure e le richiudiamo in bunker piccolo, angusto, da cui sembra impossibile uscire.

Paradossalmente, una ragazza impreparata come Kimmy  trova la sua safety zone in una città caotica e disordinata come New York: “Da cosa vorreste proteggermi?”, chiede a un certo punto, “la cosa peggiore che mi sia capitata è avvenuta nel giardino di fronte a casa”. Di nuovo, il terrore dell’essere sottratti alla propria vita è tanto più ampio quanto più vicino all’ambiente che consideriamo familiare. Più passano le stagioni (la terza ha debuttato lo scorso 19 giugno), più Unbreakable Kimmy Schmidt si lascia alle spalle l’esperienza traumatica per privilegiare il percorso di emancipazione dei vari personaggi, qualsiasi sia la loro origine. Eppure ogni tanto il riferimento alla cattività e i brevi accenni alla violenza sessuale (mai esplicitamente attestata) si palesano in modo sottile e al contempo potente. In un episodio uno strampalato chirurgo estetico, il dottor Grant, elogia la natura così candida del volto di Kimmy, non potendo immaginare che le qualità che tanto ammira siano in realtà frutto di un’ineffabile sofferenza: “Nessun danno da luce solare, ma hai vissuto chiaramente un’enorme quantità di stress. Sei un minatore? Un capitano di sottomarini? Perché hai queste rughe d’espressione (scream lines) così nitide. Da dove sei saltata fuori, mi domando”.

Toni diversi per uno stesso schema

È chiaro che, qualsiasi sia il tono che si dà a queste storie, centrale resta la figura femminile e, legato, il trattamento del corpo delle donne. Difficile immaginare tale attenzione narrativa centrata soprattutto su personaggi maschili (un caso di segregazione atipica può venire dai film della saga horror di Cube, dal 1997 al 2004, ma si tratta comunque di un gruppo misto). Altrettanto complesso dare una spiegazione univoca a questo fenomeno, anche se si può azzardare che ci sia una maggiore disponibilità a parlare di temi come la violenza sessuale e l’abuso psicologico, oltre al fatto che il recente maggior numero di registe, sceneggiatrici e attrici di primo piano (la maggior parte, comprese quelle citate qui, fra i 35 e i 55 anni) contribuisca alla costruzione di una narrazione più aperta a un certo tipo di tematiche.

Ma non è solo una questione sessuale o di genere. Se si pensa al trend delle escape room, sviluppatosi negli ultimi anni, si intuisce che ci dev’essere un fattore culturale molto diffuso, che riguarda intere fasce di popolazione o, volendo esagerare, un’intera generazione. Questa nuova frontiera dell’intrattenimento è iniziata attorno al 2007, in Asia, per poi espandersi con estrema velocità in ogni continente: secondo il sito Escape Room Directory ce ne sarebbero più di 7000 al mondo. Perché le persone, soprattutto giovani (e ancora più in particolare i millennial), dovrebbero rinchiudersi volontariamente in un luogo angusto e ristretto per poterne uscire solo dopo aver raccolto sufficienti indizi e risolto complessi rompicapo? L’adrenalina, la sfida intellettuale, l’esperienza immersiva, la volontà di costruirsi ricordi memorabili, certo, ma anche la ricerca di uno spazio isolato e al contempo ben codificato. Una stanza tutta per sé, anche se momentanea e non precisamente accogliente.

Se si guarda all’immaginario espresso dalla maggior parte di queste escape room possiamo tornare al discorso di pattern narrativo a cui si accennava prima: per lo più ospedali psichiatrici abbandonati, basi segrete di spie della Guerra Fredda, anfratti e cunicoli degni dei peggiori film horror, ambientazioni fra lo storico e il grottesco. Elementi come il buio, l’asfissia, la perdita di riferimenti, il disorientamento e la privazione sono cruciali in un’esperienza che si vuole ludica ma parte da presupposti tutt’altro che rilassanti e gioviali.

Una catarsi

La soluzione di questo generale e diffuso rompicapo probabilmente è una sola: la catarsi. Grazie a internet, social, smartphone, compagnie aeree low-cost e realtà virtuali abbiamo l’impressione di vivere in un mondo in cui non esistono più confini, in cui ogni spazio e ogni ambito di conoscenza e di libertà sono ampliati a dismisura. Eppure la nostra coscienza collettiva ritorna sui concetti della privazione, della violazione, della segregazione. Prendiamo le nostre paure – l’abuso, la discriminazione, la violazione e l’ingiustizia – e le richiudiamo in bunker piccolo, angusto, da cui sembra impossibile uscire.

Esorcizziamo così il terrore che la nostra sconfinata libertà possa esserci sottratta in un secondo, immaginandoci rinchiusi da un uomo nero 2.0. Che sia una paura totalmente irrazionale è difficile a dirsi, certo esercita sull’espressione artistica di questo ultimo decennio una fascinazione angosciante eppure suggestiva, sintomo di un’epoca in cui nessuno può dirsi completamente certo dei propri traguardi. Ciò crea un clima culturale in cui ci si prepara in ogni istante a perdere tutto. E così, in qualche modo, anche la nostra immaginazione diventa un’immaginazione rapita.


Paolo Armelli

Laureato in Lettere Moderne, prestato alla pubblicità, scrive online di libri, moda, media e altre amenità. Ha un blog (liberlist.it).

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