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Flop

Le tre inseparabili figlie della regina

È giusto e logico proteggersi dai fallimenti: un’intera industria, quella dei format, ha questo come primo obiettivo. Ma non bisogna nemmeno avere troppa paura. Perché il flop è parte essenziale di ogni innovazione.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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I format non falliscono, si presume. In effetti, i format esistono proprio perché i broadcaster scelgono di pagare in modo da evitare potenziali flop. Il mercato dei format parte da una premessa convincente: il desiderio degli editori di spendere risorse, in cambio del privilegio di esternalizzare i rischi. Come scrive Ed Waller: “L’intero edificio del business dei format globali si basa su alcune emittenti che si prendono grossi rischi in modo che altri, più giù nella catena, in altri Paesi, non debbano farlo – ma paghino per questo privilegio”. I format sono proof of concept, strutture le cui ricette sono state già testate da qualche parte e per cui si è sicuri che la formula funziona. Prima di decidere e impegnare le loro aziende, i buyer leggono con molta attenzione i dati che spiegano in modo dettagliato i risultati del programma in una selezione di territori, soppesano i contesti competitivi e le scelte di programmazione, osservano i canali e le loro audience. Un buon risultato in alcune nazioni conta di più che in altre: allora guardano i dati di canali simili ai loro. Se la performance è importante e omogenea a livello internazionale, questo indica che la struttura del programma è solida – è la prova della validità del concept – e a chi compra piace pensare che il suo adattamento andrà ugualmente bene. Il curriculum non fornisce garanzia di successo, ma consente almeno di gestire il rischio.

La garanzia non sempre funziona

Però i format falliscono, eccome. Sulla base di come e quando falliscono, possiamo distinguere due tipologie di flop. Alcune idee originali non riescono ad avere trazione sul mercato internazionale. La situazione classica si ha quando un broadcaster vede un competitor che conquista il pubblico con un superformat come Masterchef o Grande fratello; frustrato, il commissioner della rete chiama un produttore chiedendo un programma capace di competere con quel format. Lo show è preparato e consegnato puntualmente, ma spesso si rivela un insuccesso. Il pubblico non si inganna, e capisce subito che l’imitazione è solo una pallida copia dell’originale. Ad aggravare le difficoltà, il motore (ossia il set di regole che crea l’intreccio delle storie e l’avvincente arco narrativo del programma) non è mai progettato bene quanto quello degli originali. Una seconda possibilità si ha quando un coraggioso (o stupido) produttore annuncia al Miptv o in un altro mercato che ha trovato la next big thing. Nonostante le campagne di marketing, le pubbliche relazioni e una buona dose di buzz nella stampa di settore, questi format di rado soddisfano le aspettative, danneggiando peraltro anche le reputazioni di alcuni addetti ai lavori. Questi format sono meno originali di quanto promesso da chi si occupa di promuoverli e venderli, e spesso mancano di coinvolgere efficacemente il pubblico.

Non è tutto. Succede anche che format consolidati falliscano solo in certi paesi. In questo caso, il problema non riguarda il format ma il suo adattamento. Le ragioni possono essere molte. Talvolta, il programma semplicemente non era l’idea giusta al momento giusto per il paese giusto. Più spesso, i flop avvengono se c’è una rottura nel trasferimento di conoscenza transnazionale. Per qualche motivo, l’essenza dello show è stata mal interpretata o l’adattamento è mal prodotto, non riuscendo a dare agli spettatori la montagna russa di emozioni che si aspettano. Il team locale deve assicurarsi sempre di aver compreso bene i valori alla base e gli attributi di dettaglio di un format, per tradurne poi il significato al meglio per il pubblico nazionale. L’essenza del format – la sua “anima” – deve sopravvivere, anche se gli adattamenti sono diversi tra loro nello stile.

Il mercato dei format porta alcune imprese mediali a pensare che possano stare in piedi anche senza creatività e innovazione. Il contenimento dei rischi, portato troppo in là, può diventare una forma di assuefazione? Tenere sotto controllo gli imprevisti è una necessità per gli investitori, ma non deve far passare in secondo piano il fatto che essere creativi e innovativi è cruciale.

Gli scripted format, sia drama sia comedy, sono i più difficili da adattare. Anche se lo scambio di informazioni e conoscenze che li riguarda è migliorato parecchio negli ultimi anni, il processo non può essere superficiale e sbrigativo come avviene per altri generi. Si tratta infatti dei programmi più sensibili dal punto di vista culturale, dove non c’è spazio per la meccanicità con cui si riproducono un quiz o un talent. L’adattamento diretto dell’originale, la mera traduzione della sceneggiatura, non sarà mai sufficiente a colpire l’attenzione degli spettatori locali. Ogni adattamento allora non si deve accontentare di essere una copia, un ricalco, e la sceneggiatura va ri-concretizzata: è una nuova performance, e come tale richiede una personalizzazione piena per funzionare in un altro contesto culturale. Serve talento, e una buona dose di fortuna, per catturare l’essenza di una fiction, leggera o drammatica, e farla funzionare altrove. La produzione locale deve unire una profonda conoscenza dei principi di sceneggiatura alla comprensione di visione e valori del testo di partenza.

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Il fallimento sta nel successo

I format rassicurano i broadcaster, che hanno bisogno di potersi fidare in tempi già molto difficili. Dallo sviluppo di idee può derivare, per la rete che le possiede, un ricavo ampio e costante. I grandi franchise non smettono di generare importanti ricavi pubblicitari, visto che – anche se gli ascolti traballano – sono comunque più facili da vendere agli investitori rispetto a un programma generico. Spesso ci sono poi ricavi supplementari dal televoto e dal merchandising. Ogni super-format ha contribuito parecchio a sanare i bilanci delle reti tv di tutto il mondo. Ma l’industria televisiva non rischia forse, allora, di affidarsi troppo ai format? Il mercato globale ha molti benefici, ma anche qualche svantaggio. Le reti si trovano a sfruttare la proprietà intellettuale altrui: un format può fare meraviglie per i bilanci, certo, ma non può essere considerato un asset stabile. 

Il mercato dei format porta alcune imprese mediali a pensare che possano stare in piedi anche senza creatività e innovazione. Il contenimento dei rischi, portato troppo in là, può diventare una forma di assuefazione? Tenere sotto controllo gli imprevisti è una necessità per gli investitori nei media e nelle industrie dell’intrattenimento, ma non deve far passare in secondo piano il fatto che essere creativi e innovativi è cruciale. I marchi della moda italiana hanno forse conquistato il mondo imitando gli altri? Ovviamente no, e allo stesso modo le tv italiane dovrebbero assicurarsi che creatività e innovazione siano al centro del loro mestiere. Possono usare i format per ridurre i rischi, ma non se questo impedisce loro di prendersi ogni rischio. Il successo è la Regina, ma lei ha tre figlie: gli investimenti, il rischio e l’insuccesso. Sono inseparabili: giocano, vivono e imparano insieme. Portare via una sorella renderebbe le altre due inconsolabili. E con il rischio talvolta ci sono i flop, ma è normale e giusto che sia così.

Le aziende che hanno più successo al mondo non scappano dal fallimento. I Google Labs, per esempio, premiano i loro dipendenti proprio per questo: sanno che il flop è parte del processo di innovazione, e che senza di esso il successo è impossibile. Si dice che per ottenere una promozione a Nestlè, gigante svizzero del settore alimentare, chiunque deve dimostrare di avere un fallimento in curriculum. Invece, in tv un flop è spesso seguito da un accantonamento.

Il fallimento non piace perché costa denaro. Ma dovrebbe essere discusso e analizzato perché è parte di un meccanismo di apprendimento. Molti allenatori di calcio passano ore a mostrare le partite ai giocatori, commentando i loro errori. Uno dei coach di tennis di maggiore successo, Toni Nadal, dice che analizzare il fallimento è importantissimo: “Nella vita, tutto ha una spiegazione. Lo stesso vale per il tennis. Perché la palla va fuori? C’è una spiegazione. Perché i tennisti spagnoli faticano sull’erba? C’è una spiegazione. Perché i francesi non vincono il grande slam? C’è una spiegazione”.

Il fallimento non piace perché costa denaro. Ma dovrebbe essere discusso e analizzato perché è parte di un meccanismo di apprendimento. Si può spiegare questo principio con lo sport. Molti allenatori di calcio passano ore a mostrare le partite ai giocatori, commentando i loro errori. Le accademie di tennis usano la stessa tecnica. Uno dei coach di maggiore successo, Toni Nadal, dice che analizzare il fallimento è importantissimo: “Nella vita, tutto ha una spiegazione. Lo stesso vale per il tennis. Perché la palla va fuori? C’è una spiegazione. Perché i tennisti spagnoli faticano sull’erba? C’è una spiegazione. Perché i francesi non vincono il grande slam? C’è una spiegazione”. Persino nel mio club di Londra, ogni volta che un giovane tennista sbaglia un tiro in allenamento, chiede al coach cosa ha sbagliato. E quando perde un punto in partita, è lui a consigliare: “Pausa, rifletti”. Dal fallimento si impara, nello sport come nel business.

C’è poi un’ultima ragione per cui accettare il fallimento occasionale è importante. Un’azienda che ha paura del flop non può conoscere il successo. Come diceva Bjorn Borg: “se temi di perdere, non avrai il coraggio di vincere”. I broadcaster comprano le licenze dei format perché vogliono ridurre il rischio ed evitare la sconfitta, ma non devono stare troppo comodi. L’innovazione non deve restare solo nelle mani di Netflix o Amazon. La creatività non può essere appaltata alle case di produzione britanniche, ramificate in tutto il mondo. Per raggiungere il successo, meglio sempre ricordarsi che la Regina ha tre figlie. E che servono tutte e tre.


Jean K. Chalaby

È professore di comunicazione presso la City University di Londra. I suoi lavori si concentrano sulla televisione transnazionale, sulla globalizzazione e sulla storia dei media.

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