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Distretti produttivi

Le piattaforme alla conquista del k-drama

Musica, film, serie tv: la Corea del Sud è al centro dell’immaginario contemporaneo. Le piattaforme lo hanno capito e, dopo Netflix, cercano strade alternative: come quella di Apple Tv+ con Pachinko.

Quando nel 2012 approdava su YouTube la hit dei record “Gangnam Style”, che per ben cinque anni è rimasta in vetta alla classifica dei video più visti di sempre, poche persone, interrogate sulla Corea del Sud, sarebbero state capaci di andare oltre l’iconico saltello con i polsi incrociati della coreografia di Psy. Per qualche mese un quartiere di Seoul, Gangnam, è stato al centro del mondo. Ma se ai tempi quel successo è sembrato casuale, dieci anni dopo è evidente come le strategie messe in atto dal governo coreano e i prodotti culturali che ne stanno derivando abbiano reso la Corea del Sud non solo uno tra i distretti produttivi più fiorenti dal punto di vista culturale, ma anche un fenomeno sulla bocca di tutti. 

Il k-pop è solo uno dei principali catalizzatori della recente fioritura culturale coreana: fanbase di tutto il mondo si muovono in massa per gli idol, mandando sold-out in pochi secondi anche le dirette dei loro eventi, come è successo lo scorso marzo per il concerto a Seoul dei Bts (freschi vincitori dell’American Music Award come artisti dell’anno), trasmesso in contemporanea nei cinema di sessanta Paesi. Un’altra realtà che testimonia la rilevanza dell’industria culturale coreana contemporanea è quella del k-movie, salito alla ribalta nel 2020 con la vittoria agli Oscar di Parasite, e che ha continuato a raccogliere i pareri positivi della critica anche con il più recente Minari di Lee Isaac Chung. E un terzo settore rilevante e in continua crescita è quello del k-drama, di cui il successo di Squid Game è soltanto la punta dell’iceberg. E poi c’è il webtoon, il fumetto digitale più letto al mondo, il cui mercato in un solo decennio di attività ha quasi raggiunto le dimensioni dello storico mercato dei fumetti americani.

Sono gli effetti della tanto chiacchierata hallyu, la cosiddetta korean wave che a partire dagli anni Novanta ha gradualmente investito prima i vicini Paesi asiatici, e poi il resto del mondo, fino a rendere l’interesse per la Corea del Sud un fenomeno di massa. Al di là delle tendenze, è utile interrogarsi sulle dinamiche industriali che hanno generato l’ondata, sui fattori che continuano a nutrirla e sulla direzione verso cui si sta dirigendo, in particolar modo nell’ambito della serialità televisiva, di cui Pachinko, la serie targata Apple Tv, è l’esempio più recente e significativo.

La formula di Netflix 

Gli investimenti del governo coreano per la produzione e promozione culturale hanno dato vita negli anni a un’industria dinamica, preparata e con capacità produttive ben superiori rispetto alle esigenze del ridotto mercato locale. L’apertura ai mercati esteri è stata quindi non solo una mossa politica strategica, ma anche un’esigenza industriale che si è venuta a creare nel migliore momento possibile, ovvero nel mezzo dell’esplosione del mercato delle piattaforme audiovisive. I primi segnali c’erano già stati alcuni anni fa, quando l’ondata della produzione audiovisiva coreana aveva iniziato a investire poco per volta il resto del mondo, proprio a partire dalle nicchie di affezionati dediti al fansubbing su Viki, la piattaforma gratuita di riferimento per i k-drama addicted.

Anche Netflix ha captato molto presto le potenzialità del k-drama e ha aperto la sua filiale coreana nel 2016, investendo in storie locali circa 700 milioni di dollari solo nei suoi primi cinque anni di attività. La piattaforma di Reed Hastings, che in Corea del Sud ha visto una crescita di oltre 4 milioni di abbonati negli ultimi tre anni e mezzo, ha messo in campo una strategia pluriennale volta a beneficiare della crescente popolarità globale delle serie sudcoreane. Nel 2019 ha annunciato la partnership tuttora attiva con Studio Dragon, casa di produzione di Cj Enm, famosa per aver prodotto diverse pietre miliari della serialità coreana (tra cui Guardian: The Lonely and Great God e The Legend of the Blue Sea), e all’inizio del 2021 ha ribadito il suo impegno nel Paese asiatico annunciando la volontà di investire 500 milioni di dollari in titoli coreani. Tra le produzioni più famose di Studio Dragon per la piattaforma spiccano Crash Landing on You, storia dell’incontro fortuito in terra nordcoreana, a seguito di un atterraggio di emergenza in parapendio, di un’imprenditrice sudcoreana di successo e di un integerrimo ufficiale della Corea del Nord, e The King: Eternal Monarch, fantasy romance i cui protagonisti sono costretti a viaggiare nel tempo e a muoversi tra due mondi paralleli alla ricerca di un equilibrio.

Gli investimenti del governo coreano per la produzione e promozione culturale hanno dato vita negli anni a un’industria dinamica, preparata e con capacità produttive ben superiori rispetto alle esigenze del ridotto mercato locale. L’apertura ai mercati esteri è stata quindi non solo una mossa politica strategica, ma anche un’esigenza industriale che si è venuta a creare nel migliore momento possibile.

Nel 2021 è stato superato il traguardo dei 130 titoli prodotti, a cui si aggiungeranno gli oltre 25 titoli già annunciati per l’anno in corso. Se da un lato Netflix ha cavalcato l’onda del k-drama, dall’altro lato l’alta frequenza con cui nuovi titoli coreani sono aggiunti al catalogo globale della piattaforma ha contribuito ad alimentare l’interesse per le storie e la cultura del Paese asiatico: il 2021 non è stato solo l’anno di Squid Game, ma anche quello di Hellbound, My Name, Vincenzo, D.P., Navillera, Hometown Cha Cha Cha e tanti altri titoli variegati nei generi. Il catalogo ricco e articolato sembra però essere costruito su una formula specifica, basata sul concetto di glocal. Da un lato le storie toccano corde intime e tematiche universali, ammiccando a elementi caratteristici della cultura pop occidentale; dall’altro lato approfondiscono e valorizzano ogni sfaccettatura della cultura locale, da valori fortemente asiatici come la famiglia, il senso del dovere e il rispetto per gli anziani, fino alla tradizione culinaria, onnipresente e spesso protagonista della narrazione.

La via di Pachinko

Mentre Netflix continua a mettere in pratica la sua formula di successo e inizia ad avventurarsi nell’adattamento coreano di successi internazionali come La casa di carta, nuovi player si approcciano gradualmente alla serialità coreana. Se il debutto di Disney+ è avvenuto con Snowdrop, serie romance che esplora i complicati rapporti tra Nord e Sud a fine anni Ottanta, Apple Tv+ entra di fatto nella partita con Pachinko, titolo che sembra inaugurare un nuovo capitolo della serialità sudcoreana. La serie è approdata sulla piattaforma a fine marzo, ma l’interesse per il romanzo omonimo di Min Jin Lee era nato già nel 2017. Il progetto, dopo un lungo lavoro di adattamento, è stato prima presentato con scarsi risultati ai network televisivi, poi più di recente alle piattaforme, e su cinque offerte ricevute (Netflix compreso), quella di Apple era l’unica che copriva interamente gli elevatissimi costi di produzione. 

Pachinko ha ambizioni epiche. La prima stagione racconta la storia di una famiglia attraverso quattro generazioni, tra Corea, Giappone e Stati Uniti. La narrazione inizia in un villaggio della Corea negli anni Dieci del Novecento, nel pieno dell’occupazione giapponese, e si dipana in modo non cronologico nel corso del secolo, fino ad arrivare alla fine degli anni Ottanta. Racconta le storie di sopraffazione, paura e povertà degli zainichi, i coreani immigrati in Giappone nel corso dell’occupazione, e le difficoltà che anche i loro discendenti sono stati costretti ad affrontare. Ogni lingua utilizzata, sottotitolata in un colore diverso, ha una diversa valenza: l’inglese è la lingua della cultura e della ricchezza, il giapponese è la lingua dell’abuso di potere, il coreano è la lingua delle tradizioni da custodire e tramandare. E poi c’è il cibo, che anche quando scarseggia per le alterne fortune della vita, assume un ruolo significativo: una scodella di riso bianco coreano che si carica di ricordi e sensazioni passando dalle mani di un ambulante generoso, a quelle di una madre preoccupata, fino ad arrivare sulla tavola di una sconosciuta che in qualche modo risveglia il ricordo di casa.

Pachinko è un prodotto glocal come lo sono la maggior parte dei k-drama, ma in maniera diversa e più sottile: non ammicca alla cultura pop occidentale (come spesso fanno i k-drama targati Netflix), ma riesce comunque a strizzare l’occhio all’utente con l’alternanza dell’inglese alle due lingue orientali e con la sua struttura narrativa costellata di continui salti temporali che ricordano successi d’oltreoceano.

Sunja, interpretata da tre diverse attrici (tra cui il premio Oscar per Minari Yoon Yeo-jeong), è la protagonista: prima figlia, poi amante, moglie, madre e infine nonna, prende decisioni coraggiose scommettendo con orgoglio sul futuro della sua famiglia. Protagonista a suo modo è anche il pachinko, un gioco d’azzardo giapponese, un flipper verticale che rende fisico e visibile un concetto intangibile su cui si basano le vite dei personaggi della serie, Sunja prima tra tutti: la scommessa. Anche quella di Apple è stata una scommessa: Pachinko è una serie complessa oltre che costosa, recitata in tre lingue, in costume, con un forte focus femminile, e con pochissima azione. Il casting poteva essere una leva di marketing importante (e forse lo è, in parte), ma sembra che non ci sia stata nessuna pressione da parte della piattaforma, e che anche i nomi più conosciuti ai fan della serialità coreana come Lee Min-Ho (che qui interpreta Hansu) sono stati selezionati sulla base di un lungo casting. 

Fatta eccezione per il Giappone, dove quasi non se ne parla per ragioni storiche e politiche, la serie ha conquistato la critica internazionale proprio per quella dimensione epica che ne ha inizialmente rallentato la produzione, per la forte determinazione della sua protagonista e per gli alti valori produttivi. The Guardian definisce Pachinko “a sumptuous South Korean epic like nothing else on TV”, e Rolling Stone aggiunge che la serie è “technically impressive on all levels”. Anche la critica coreana sembra aver apprezzato il risultato, felice che si sia data rilevanza globale a un capitolo poco conosciuto della storia nazionale. Trarre conclusioni sul successo presso il pubblico è più difficile senza dati ufficiali alla mano, ma il fatto che sia già stata rinnovata per una seconda stagione fa ben pensare. 

Senz’altro anche Pachinko è un prodotto glocal come lo sono la maggior parte dei k-drama, ma in maniera diversa e più sottile, ed è forse per questo che ha il potenziale per attrarre anche spettatori che non si sono mai avvicinati al genere: non ammicca in nessuna occasione alla cultura pop occidentale (come spesso fanno i k-drama targati Netflix), ma riesce comunque a strizzare l’occhio all’utente occidentale con l’alternanza dell’inglese alle due lingue orientali e con la sua struttura narrativa costellata di continui salti temporali che ricordano successi d’oltreoceano come This is Us. È il racconto stesso che si fa portavoce nel mondo della lingua, della storia e delle tradizioni di una nazione, facendole passare attraverso quanto di più universale ci possa essere, le vicende di una famiglia come un’altra. Bisognerà attendere l’uscita della seconda stagione e di altri titoli per comprendere se Pachinko resterà un esempio isolato o darà inizio a un nuovo filone di k-drama. Quel che è certo è che differenziarsi dai prodotti della concorrenza pur rimanendo fedeli all’essenza del prodotto stesso è un ottimo modo per entrare in un mercato. E Apple l’ha ben compreso.


Francesca Palumbo

Da sempre affascinata dal racconto delle culture e dell’universo femminile nella serialità e nel cinema, si interessa anche di musica pop e fenomeni digitali. Lavora al Marketing strategico di RTI.

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