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Pop Culture

Le mille vite di Max Pezzali

Che fine ha fatto Max Pezzali? Il cantante simbolo di una generazione, e degli anni Novanta, fatica a trovare un rilancio. Gli anni delle immense compagnie sembrano ormai lontani…

L’estate appena trascorsa ha lasciato Max Pezzali con in mano l’ennesimo flop: Welcome to Miami (South Beach), un tormentone mancato con influenze elettro-pop latinoamericane per lui inedite. In soldoni: quanto più vicino potesse spingersi al reggaeton, ormai il suono pop per eccellenza della bella stagione. La domanda è lecita: perché l’autore di hit come Hanno ucciso l’Uomo ragno, fratello maggiore della generazione X e non solo, passata la soglia degli -anta dovrebbe allontanarsi dalla comfort zone di “tappetini nuovi e Arbre Magique” per raccontare lo stereotipo di una Miami latina? Perché, evidentemente, è disposto a tutto per uscire dall’impopolarità in cui si è cacciato.

La canzone – con cassa dritta e voce effettata – è l’ultimo e più goffo tentativo di rebranding in un riposizionamento che va avanti da vent’anni per imbeccare una formula pop attuale, necessaria da quando la macchina targata 883 si è ingrippata. Negli anni Novanta, con quella faccia da bravo ragazzo di provincia, Max era ovunque: in radio, a Sanremo, al Festivalbar. Dal Duemila, invece, ha faticato e – pur vantando uno zoccolo duro di fan – è uscito dai grandi circuiti mediali, ha perso un’immagine appetibile e un pubblico a cui promuoverla e sta provando a reinventarsi continuamente, senza riuscirci. Il risultato, infatti, è da sabbie mobili: più sgomita per salire su un treno in partenza per il successo (non importa quale), più finisce in un limbo di inadeguatezza e nostalgia. Ma a rendere impossibile una risalita non sono i venticinque anni di anzianità, quanto l’aver perso la capacità – unica, nel suo caso – di parlare al paese reale. Procediamo per gradi.

Popstar atipica

Il periodo d’oro di Pezzali, quello per cui il suo volto ci sembra così familiare e a cui appartengono gran parte delle sue hit, sono gli anni Novanta. Insieme all’amico Mauro Repetto (il “biondo”), sotto il nome di 883 divenne un fenomeno di costume: nel 1992 Claudio Cecchetto e Radio Deejay li lanciarono sotto l’etichetta Fri Records con Hanno ucciso l’Uomo ragno, che nonostante fosse un album d’esordio vendette oltre mezzo milione di copie. E l’immagine di Max (con i capelli) che canta, mentre l’amico balla di fianco, è un’icona dei 90s italiani. Soprattutto, la coppia è stata un unicum: al di là dei motivetti-tormentoni (come quello dell’Uomo ragno), a distinguerli dai colleghi erano i testi – all’epoca a firma Repetto, con Max che si limitava a cantarli e comporre le musiche. Citavano simboli, slang e situazioni adolescenziali, e raccontavano la vita in provincia dei ragazzi con taglio semplice e identificativo. Sono gli anni di Con un deca e Non me la menare, ma anche dell’amore da bar di Sei un mito e Come mai: canzoni “verticali” che diventano cult di una generazione e fanno degli 883 una sorta di fratelli maggiori. 

Più sgomita per salire su un treno in partenza per il successo (non importa quale), più finisce in un limbo di inadeguatezza e nostalgia. Ma a rendere impossibile una risalita non sono i venticinque anni di anzianità, quanto l’aver perso la capacità – unica, nel suo caso – di parlare al paese reale.

Loro, d’altro canto, non sembrano costruiti: venticinque anni a testa, profilo basso e un Pezzali (più in vista dell’amico) popstar atipica, faccia da bravo ragazzo che piace senza bellezza, doti canore e melodie killer, ma per la capacità di raccontare. Una capacità che diventa davvero sua quando, dopo il quasi milione e mezzo di copie di Nord sud ovest est (1993), nel 1994 Repetto lascia il gruppo e il nostro si trova a scrivere anche i testi. È allora che, sempre sotto il logo 883, nasce il Max cantastorie, in continuità con l’amico: al massimo un po’ più di nostalgia e qualche scorrettezza in meno, ma siamo lì. Tant’è che la popolarità della band non ne risente: il nostro parla alla nuove generazioni perché gli appartiene, ne condivide il linguaggio e – grazie al solito stile fotografico ed efficace – gli album La donna, il sogno & il grande incubo e La dura legge del gol! lo consacrano re del pop italiano. È il 1998: le copie vedute sono cinque milioni, Max suona a Milano davanti a centomila fan e i suoi testi arrivano al cuore della gente. È genuino, sincero, non costruito. Liberarsi di lui sembra impossibile, eppure qualcosa si rompe.

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Max Pezzali, Claudio Cecchetto e Paola e Chiara (coriste degli 883)

Un cantante pop qualunque

I limiti emergono nel 1999 con Grazie mille: il nostro ha compiuto trent’anni e non può descrivere con fedeltà la realtà dei ragazzi perché ne è ormai fuori. E anche la percezione che l’Italia ha di lui è cambiata: non più il ragazzotto di provincia, ma quella meno appetibile di uomo realizzato che resta easy. Per non cedere, Max forza il primo rebranding in direzione finto-giovane, adottando una grafica stile manga e buttandosi sull’euro-dance allora di moda. Vende meno (500mila copie), ma abbastanza da insistere con 1 in + (2001): un’americanata – la prima prodotta dalla Warner, tutt’ora sua etichetta – che presenta un Pezzali ancor più ragazzino e smaliziato. Smaliziato. Pezzali. Ma scherziamo? Appunto: i risultati sono stabili (ancora 500mila copie), ma i testi adolescenziali sono scaduti. A trainare il brand adesso sono brani come Grazie mille e Nient’altro che noi: qualunquisti e “di mestiere”, che pensionano il cantastorie di provincia atipico in favore di una popstar sui generis. Il punto è che Max – che finora aveva giocato la carta del raccontare per arrivare primo – non è più il fratello maggiore dei ragazzini, ma uno dei tanti senza segni particolari, costretto a inseguire. Quanto può durare?

Nel dubbio – dopo aver dato fondo al suo ascendente sui giovanissimi con il pezzo Ci sono anch’io nel film Disney Il pianeta del tesoro (2002) – per tenersi in contatto con la sua generazione (nel frattempo cresciuta) nel 2004 compie un altro rebranding: pensionare il marchio 883 e risvegliarsi cresciuto e solista. A nome “Max Pezzali”, gli album Il mondo insieme a te (2004) e Time Out (2007) giocano la carta dell’adult-pop, per porsi come guida dei quasi-quarantenni con il solito resoconto immediato settato, stavolta, sulle vicende dell’età adulta. Il tutto, ovviamente, abbinato alla nuova immagine di bonaccione maturo, un po’ imbolsito e con la passione per le moto. Non sfondano: la svolta ha scarso appeal pop (a chi interessano i quarant’anni?), è troppo generalista e manca di un linguaggio efficace. E a salvare la nave sono ancora pezzi qualunque come Eccoti. Gli ultimi, però.

Dal 2008, infatti, si arriva a un punto morto: le nuove canzoni usa e getta non garantiscono fedelissimi, e partono dietro ai vari Pausini e Antonacci che su quelle storielle hanno costruito un impero; la forza del raccontare è svanita uscendo dall’unico contesto di riferimento, la gioventù; la narrazione adulta non ha potenziale commerciale (un po’ per natura, un po’ per demerito di Pezzali), e finisce nel cestino. Ai concerti le facce non si rinnovano, e Max capisce che è il caso di inventarsi qualcosa. Qualsiasi cosa.

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The Voice

Rebranding, rebranding, rebranding

Nel 2011 il ridimensionamento è reale: il nostro ritrova il Festival di Sanremo dopo l’ottavo posto del 1995, in un contesto in cui non si sarebbe più augurato di tornare. Ma il rilancio dal basso fallisce per un pezzo debole (Il mio secondo tempo, un’evocazione dell’età adulta triste), e moltiplica i rebranding. Funzionali come palliativo, inutili per sventare il declino. Per esempio: visto che nel frattempo il rap è il genere in vista, nel 2012 esce una re-edit di Hanno ucciso l’Uomo ragno per i vent’anni con i vari Emis Killa, Club Dogo e Fedez. L’idea è cavalcare le mode verso un pubblico giovane, ma il risultato è solo un disco d’oro. Eppure si insiste nel revival, ridisegnando Pezzali come negozio d’antiquariato ambulante: nel 2013, per il ventennale(+1) esce Max20, raccolta di duetti con artisti come Ramazzotti e Jovanotti e inediti scritti con – UDITE UDITE – Mauro Repetto. Sì: per una manciata di canzoni gli 883 sono di nuovo insieme, perché l’onda degli esordi non si è esaurita ancora. La mossa paga (doppio platino) e la nostalgia diventa costante, tanto che nel 2017 l’ennesima compilation (Le canzoni alla radio) festeggerà i venticinque, a spolpare i fedelissimi. Nel 2022 le primavere saranno trenta: siamo avvisati.

Il punto è che Max – che finora aveva giocato la carta del raccontare per arrivare primo – non è più il fratello maggiore dei ragazzini, ma uno dei tanti senza segni particolari, costretto a inseguire. Quanto può durare?

Ma è fuori delle celebrazioni retrò che il rebranding dà il meglio, con ammiccamenti incoerenti per aggiornare la fanbase. Il primo, evidente riciclaggio della nuova serie è datato febbraio 2016, quando il nostro si ripropone ai millennial che l’avevano dimenticato con un video con i The Jackal, come totem-anni Novanta della (ancora) nostalgia. Risultato: Max sembra un meme, un anatema del passato fuori dal suo mondo. Va peggio qualche mese dopo, come giudice di The Voice of Italy. L’idea – anche qui – è riciclare il personaggio prima che la musica: rendersi popolare come ha fatto l’amico J-Ax, appetibile a famiglie, teenager e pubblico generalista – il resto viene da sé, si sottintende. È un passaggio a vuoto: a un giudice servono malizia e rigidità, che non si addicono all’immagine incancellabile (semmai invecchiata) del Max bravo ragazzo. E per incongruenza con il passato anche questa reincarnazione si perde, e l’identità diventa schizofrenica. In mezzo, un album in studio (Astronave Max) che nel 2016 punta su un pezzo scritto con Niccolò Contessa de I Cani, provando a giocare d’anticipo sull’esplosione dell’itpop. Risultato: un ibrido che non piace né ai fan di Calcutta, né agli storici degli 883.

Va meglio – ma è emblematico – il tour con Francesco Renga e Nek nel 2017. Per quanto le uniche collaborazioni precedenti fra i tre fossero in Max20 e l’operazione sembrasse assemblata con il nastro isolante dalla Warner (una “Festa per i venticinque anni di carriera” in cui gli invitati si conoscono a malapena), un po’ per l’eccezionalità della faccenda e un po’ perché “l’unione fa la forza” (commerciale), i concerti vanno sold-out. Il rilancio collettivo è come popstar qualunque, prendendo atto della maturità con un rebranding adulto-generalista. Ma se Nek e Renga contano su voci, aspetto fisico e canzoncine, a Max (che in quei campi non incide) non resta altro che la visibilità riflessa di due artisti con cui, anni prima, non avrebbe avuto nulla da spartire. E – a fine giro – si ritrova al punto di partenza, pronto (?) all’ennesimo rilancio. Rilancio cercato con l’ultima incarnazione, quella latina di Welcome to Miami (South Beach). Ma un pezzo che nasce per mettersi in scia della moda non può che raccogliere le briciole, e confondere ancora più le acque intorno all’identità già tribolata del cantante. E infatti così va.

Insomma: chi è il Pezzali di oggi? Tutti e nessuno: sembra che ogni occasione sia buona per garantirsi un minimo di visibilità, indipendentemente dal contesto, senza progettualità. Raccogliere ciò che passa e andare oltre, ammiccando a qualche moda o – quando serve – ai coetanei cresciuti. Vivacchiare. Ma – è evidente – Max non ha nulla su cui puntare se non la sua innata ex-capacità di raccontare, e senza quella si trova in un imbuto in cui sopravvivere così: di riciclaggio in riciclaggio.


Patrizio Ruviglioni

Classe 1995, ossessionato dalla cultura pop. Scrive anche su IL, Esquire e Rolling Stone. Il primo concerto che ha visto è stato quello di Max Pezzali.

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