La possibilità di catturare momenti decontestualizzati di vita altrui solleva interrogativi sulla moralità dei contenuti che pubblichiamo online e sul rapporto tra pubblico e privato. Quando, attraverso i social, diventiamo strumenti di sorveglianza più che di giustizia?
Due persone conversano su un aereo, flirtando. Sono un uomo e una donna. Lui invita lei a passare la serata con lui. Accanto, un’altra persona ascolta la loro conversazione. A chi non è successo? Passare ore su un mezzo pubblico, magari con le cuffie scariche, senza un libro da leggere e appassionarsi a storie di sconosciuti. La spettatrice però non si limita a raccontare la scenetta al suo gruppo di amiche: la filma e la pubblica su TikTok, rivolgendosi alla moglie dell’uomo, che porta la fede: “Se questo è tuo marito, che sta volando sull’aereo United Airlines 2140, probabilmente questa notte la passerà con Katy (la donna con cui stava parlando, ndr)”. La viralità del video porta migliaia di persone a dare la caccia alla famiglia del presunto traditore. Ovviamente scoprono il nome della moglie, pubblicano anche le foto della figlia di otto anni. Centinaia di utenti esultano di fronte alla caduta del marito fedifrago: fioccano storie di persone che avrebbero desiderato essere al posto della moglie. “Avrei voluto tanto che mio marito fosse stato esposto sui social media”, ha raccontato una persona, il cui partner l’ha tradita mentre era incinta. “Ma non esisteva niente del genere nel 2007”.
L’episodio, per fortuna verrebbe da dire, ha scatenato diverse polemiche e fatto sorgere numerose domande, anche tra chi, per mestiere, non si occupa di privacy e politiche delle piattaforme. Stiamo andando verso una società della micro-sorveglianza? Oppure ci siamo già dentro? E chi ha il potere di deciderne le regole?
Caccia al traditore
Su TikTok, la ricerca “catching cheaters” offre migliaia di risultati. Alcuni video sono simili a quelli della coppia in aereo, altri mostrano conversazioni in cui un uomo si contraddice di fronte alla domanda della fidanzata “come è andato il weekend di pesca con i tuoi amici ?”, altri ancora riportano istruzioni su come sottoporre il proprio partner a un test di lealtà, assoldando terze persone per fungere da tentatori via messaggio privato.
I video del loyalty test mostrano gli screenshot delle conversazioni, con anche dettagli come l’età, la città di residenza, la professione. Per una persona sufficientemente motivata, o vicina all’ambiente di riferimento, non dovrebbe essere troppo difficile risalire all’identità delle persone in questione. Un account riporta la storia di un padre che chiede il loyalty test per la figlia, che esce con il figlio del suo migliore amico. Attorno alla domanda di “test di lealtà” sono nati anche vari servizi commerciali che offrono tentatori e tentatrici per mettere alla prova la solidità di una relazione. Molti dei video sono conditi con commenti sessisti, slut shaming, e mettono in scena comportamenti possessivi e paranoici, che nel migliore dei casi sono un sintomo di una dinamica di potere squilibrata.
I micro-video sono dispositivi di intrattenimento, ma anche di sorveglianza. Una battuta infelice, un comportamento disgustoso ma non penalmente né eticamente rilevante, diventano la chiave per dei veri e propri riti di punizione collettiva.
Il discorso intorno all’infedeltà appare piuttosto semplice. Chi direbbe mai che tradire è una cosa giusta da fare? Dall’altro lato, però, un atto indubbiamente discutibile dal punto di vista morale diventa una scusa per violare la privacy del partner ed esporlo alla gogna pubblica. Le reazioni di solidarietà che questi video suscitano non fanno che rafforzare il punto di vista vittimario di chi subisce un tradimento, anche quando si tratta solo di alcuni messaggi scambiati con un bot su Instagram.
Mettendo in piazza il proprio dolore di persona tradita si de-umanizza completamente l’altro, seguendo la dinamica semplificatoria tipica dei social. Lo schema narrativo è quello del bene contro il male, di Davide contro Golia. In questo schema, i “tentatori” che vendono test di lealtà sono ovviamente dei preziosi alleati su cui contare – anche se si tratta di sconosciuti, e anche se ci vuole veramente poco a falsificare uno screenshot. Nel caso di alcune donne che sbugiardano i fidanzati di altre persone, filmandoli live mentre tradiscono, fa capolino anche una prospettiva pseudo-femminista: le ragazze si difendono a vicenda dagli uomini che spezzano loro il cuore. Sono girl’s girls.
Non sappiamo nulla delle storie individuali delle persone coinvolte. Sappiamo a malapena i loro nomi. Non sono che personaggi in una scena brevissima che raggiunge i nostri schermi. Ma il loro dolore, i loro conflitti, diventano content, intrattenimento decontestualizzato per le masse.
Il piano politico
Il piano della giustizia a mezzo social è molto più esteso dei drammi tra partner infedeli. C’è un’altra storia che vale la pena raccontare. Ad aprile del 2023, l’influencer e tiktoker Mahnoor Euceph ha filmato su un treno italiano tre studentesse che commentavano con frasi razziste l’aspetto di alcune persone di origine cinese, uno dei quali era il fidanzato di Euceph. La scena, postata su TikTok, è diventata virale. Prontamente le tre ragazzine sono state identificate, le loro scuole e università sommerse di messaggi indignati, tanto che la Cattolica di Milano, dove una delle tre era iscritta, ha fatto sapere di essere pronta a “compiere i dovuti accertamenti su quanto accaduto e sulle relative responsabilità”. Tutte e tre le ragazze sono si sono cancellate dai social media, rimuovendo ogni traccia della loro presenza online. In questo caso la questione si fa, se possibile, ancora più spinosa, perché Euceph ha affermato di stare agendo contro un problema sistemico come il razzismo, e che il suo agire avesse una valenza politica.
Di fronte a entrambi gli esempi possiamo interrogarci sul ruolo granulare che hanno assunto i social network, e soprattutto i contenuti virali, rispetto ai nostri comportamenti, più o meno privati, anche quelli che si svolgono al di fuori della piattaforme. I micro-video sono dispositivi di intrattenimento, certo, ma anche di sorveglianza. Sono strumenti molto potenti proprio per la loro capacità di annullare la complessità e al contempo raggiungere milioni di persone. Non c’è nemmeno la mediazione della parola scritta: una persona viene filmata mentre commette un particolare atto. Una battuta infelice, un comportamento disgustoso ma non penalmente né eticamente rilevante per la vita pubblica, diventano la chiave per dare inizio a dei veri e propri riti di punizione collettiva.
Norma e sorveglianza
“Viviamo in una sorta di stato di sorveglianza autoindotto, in cui non c’è più necessariamente il panopticon governativo, ma in cui tutti gli altri tirano fuori i loro telefoni e filmano, sorvegliando costantemente”, ha dichiarato a BuzzFeed News Jenna Drenten, professoressa associata presso la Quinlan School of Business della Loyola University di Chicago, esperta di cultura digitale. La sorveglianza è il primo problema politico dell’interazione tra comportamento offline e viralità online. Filmare una persona senza consenso è chiaramente una violazione molto grave della sua privacy. Il suo nome, la sua immagine e i suoi comportamenti restano in rete per sempre, utilizzabili per scopi che non sempre l’ignaro tiktoker che desidera raccogliere like è in grado di prevedere.
C’è poi un aspetto della viralità social che potremmo definire normativo. La possibilità di essere sorvegliati nei nostri comportamenti privati ci porta a una forma di autocensura: se andiamo contro a determinate convenzioni sociali possiamo incorrere nella sanzione della pubblica gogna, con alti costi personali o professionali. Si potrebbe ribattere che regole come “non tradire il partner” o “non essere razzista” siano generalmente delle norme buone da seguire. Ma la punizione a mezzo social non ha, appunto, un contesto di riferimento. Facciamo un attimo un esercizio di pura speculazione. Immaginiamo che l’uomo dell’aereo e sua moglie siano una coppia aperta, non monogama o che vivano una situazione poliamorosa. Non abbiamo modo di saperlo. La punizione pubblica a mezzo virale non segue un processo chiaro o lineare, si limita a rafforzare una vox populi senza nessun intento critico, tanto meno politico o trasformativo.
Call out e purificazione collettiva
Il metodo del call out pubblico può essere molto utile per riequilibrare una situazione di potere diseguale, come è stato il caso del movimento #MeToo. Un gruppo di persone che subisce un’ingiustizia usa i social media per denunciarla e incentivare un’azione correttiva, volta a modificare la situazione o a sensibilizzare la collettività su un determinato problema.
Filmare una persona senza consenso è una violazione molto grave della sua privacy. Il suo nome, la sua immagine e i suoi comportamenti restano in rete per sempre, utilizzabili per scopi che non sempre l’ignaro tiktoker è in grado di prevedere.
Credo però che l’eredità più problematica del #MeToo, e in generale della metodologia del call out social, sia l’illusione che denunciare un fenomeno pubblicamente equivalga ad affrontarlo, confondendo quindi il metodo con il fine. Se pensiamo all’azione di Mahnoor Euceph, vediamo chiaramente questo meccanismo in atto: per quanto l’idea di evidenziare comportamenti razzisti sia nobile, non possiamo fare a meno di chiederci che senso abbia mettere alla gogna pubblica tre studentesse che non detengono un particolare potere mediatico o politico. E soprattutto: se siamo testimoni di atti razzisti, non è più utile intervenire direttamente, magari facendo presente alle persone in questione quanto le loro parole siano violente e inappropriate o mostrando solidarietà a chi subisce gli insulti?
La trasformazione in content, il rischio permanente di call out e l’assenza di contesto sono i tre elementi che danno origine alla ritualità della rabbia virale. La persona identificata come origine del male viene espulsa, simbolicamente uccisa, in un rito di purificazione collettiva a mezzo social. È un processo pericoloso, che non mette in gioco le radici dei comportamenti dannosi o considerati problematici: non ci si chiede, ad esempio, se siamo di fronte a una crisi permanente del modello monogamo, o se viviamo in un paese con radici razziste più profonde di quello che crediamo. Costruiamo il mostro, lo de-umanizziamo, lo rendiamo una manifestazione dei demoni collettivi che non siamo capaci di affrontare. Nel frattempo, l’algoritmo continua a girare. Noi restiamo immobili. L’origine dell’ingiustizia resta molto lontana dai nostri occhi e dai nostri schermi.
Irene Doda
Irene Doda si occupa di temi legati al lavoro e alla tecnologia. Ha scritto per Wired Italia, L’Indiscreto, Emma e per altre testate online e cartacee. Autrice del saggio L’utopia dei miliardari. Analisi e critica del lungotermismo (2024).
Vedi tutti gli articoli di Irene Doda