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La realtà virtuale come opera d’arte totale

Se ne parla da decenni, ma forse è la volta buona. Dalla sezione dedicata alla Mostra di Venezia fino agli esperimenti tra cinema e architettura, la realtà virtuale offre inedite modalità di racconto.

Sono sulla Luna. Intorno a me, il Mare della Tranquillità si stende a perdita d’occhio. Ricordando una delle poche nozioni apprese dal libro di fisica delle superiori, provo ad accennare un salto, ma un cavo mi tira verso il basso e mi scosta il visore. D’improvviso, non sono più a 380 mila chilometri dalla Terra ma in un anonimo stanzino dell’Eye, il museo del cinema di Amsterdam. La mia scampagnata lunare è infatti parte di 1st Step, un documentario in realtà virtuale che celebra le missioni Apollo calando gli spettatori negli ingombranti panni degli astronauti che sulla Luna ci andarono per davvero.

In qualche modo, però, non sono solo ad Amsterdam e sulla Luna, ma anche a Venezia, perché 1st Step fa parte del programma di Venice VR Expanded, la sezione della Mostra del Cinema di Venezia dedicata alla realtà virtuale. Per la prima volta, a causa ovviamente della pandemia, l’evento non si è tenuto sul Lazzaretto Vecchio, una suggestiva isola della Laguna Veneta, ma interamente in realtà virtuale, con tanto di party inaugurale cui si accedeva sotto forma di avatar. Nel corso della manifestazione, sulla Luna ci sono finito – o perlomeno ho finto di finirci – una seconda volta, facendo scalo a Taiwan. In Great Hoax: The Moon Landing, un film d’animazione comico interattivo, il governo di Taipei mi ha chiesto di aiutarlo a ricreare in studio un finto allunaggio, nel tentativo di catapultare il piccolo stato asiatico nel novero delle grandi potenze. È un’opera 6DoF, “six degrees of freedom”, vale a dire che gli spettatori possono muoversi tridimensionalmente nello spazio della storia. Altre opere a Venezia, come 1st Step, sono invece 3DoF, vale a dire che ci si può solo guardare attorno senza muoversi. 

Se ho avuto modo di appassionarmi a un genere di nicchia quale la satira politica taiwanese animata in realtà virtuale, è merito del programma giramondo (44 opere da 24 Paesi) di Michel Reilhac e Liz Rosenthal, i due curatori di Venice VR Expanded. Quando Reilhac e Rosenthal lanciarono la prima edizione dell’evento, nel 2017, la realtà virtuale viveva una fase di hype scatenato. Facebook aveva da un paio d’anni comprato Oculus (azienda che produce visori per la realtà virtuale) per più di due miliardi di dollari; alcuni registi di primo livello come Jon Favreau (quello di Iron Man e The Mandalorian) avevano annunciato di volersi cimentare con la tecnologia; e, più in generale, caterve di articoli entusiastici celebravano la VR (virtual reality) come il futuro di tutto, dal giornalismo alla pornografia, dalla medicina di precisione al cinema. Negli anni successivi, la bolla è prevedibilmente scoppiata e le aspettative messianiche nei confronti della tecnologia si sono ridimensionate. Nonostante ciò, la realtà virtuale non è uscita di scena, anzi.

Complice anche la necessità di stare insieme a distanza dettata dalla pandemia, il 2020 si è rivelato un’annata ottima per la realtà virtuale. Oculus ha da poco messo in vendita il Quest 2, un nuovo visore potente e relativamente economico (perfetto per sfuggire a eventuali secondi lockdown); c’è chi pensa a come costruire gli uffici del futuro in VR; ci sono alcuni usi della tecnologia a scopo terapeutico che sembrano molto promettenti; e persino Jon Favreau è riuscito finalmente a completare e portare al festival di Venezia il suo Gnomes & Goblins, una sorta di videogioco onirico in cui si esplora una foresta incantata popolata da adorabili goblin. Questa eterogeneità di applicazioni fa sorgere spontanea la domanda: ma quindi cos’è la realtà virtuale? Nel suo libro L’Alba del nuovo tutto, l’informatico e filosofo Jaron Lanier – comunemente considerato il padre fondatore della realtà virtuale, ma anche un critico dei social media di primo piano (potreste aver avvistato i suoi non trascurabili rasta nel documentario di Netflix The Social Dilemma) – dà addirittura più di cinquanta definizioni del concetto di VR, spaziando da “la scienza dell’illusione totale” a “il medium digitale che combatte più duramente contro il tempo”. La mia preferita rimane comunque la prima definizione che Lanier fornisce nel libro: la realtà virtuale è “una forma d’arte del XXI secolo che combina le tre grandi arti del XX secolo, vale a dire il cinema, il jazz e la programmazione informatica”. Per capire qualcosa di come sono finito a falsificare l’allunaggio per conto del governo taiwanese, dobbiamo tornare al XX secolo, più precisamente agli anni Quaranta. 

La realtà virtuale e il mito del cinema totale

Lo scrittore francese René Barjavel – nato a Nyons nel 1911 e morto a Parigi nel 1985 – era un talento poliedrico. È famoso per i romanzi di fantascienza e per aver inventato il “paradosso del nonno” (il celebre paradosso sui viaggi del tempo che ha ispirato anche alcuni concetti di Tenet), ma fu anche colui che, in qualità di sceneggiatore, portò il Don Camillo di Guareschi al cinema. Tra lo spazio profondo e la Bassa Emiliana, Barjavel trovò anche l’ispirazione per scrivere Cinéma Total, una visionaria raccolta di riflessioni sui media del futuro. L’opuscolo passò abbastanza inosservato nella Francia dell’epoca ma vari studiosi concordano nel ritenere che influenzò in modo importante André Bazin, il grande critico cinematografico francese che teorizzò il “mito del cinema totale”. In poche parole, sia Barjavel sia Bazin concepiscono il cinema come un’arte destinata alla perfetta rappresentazione del mondo e come un medium con l’insita ambizione di rendere lo spettatore partecipe, di immergerlo nel mondo della storia. Questo approccio teleologico conduce i due intellettuali francesi a simili conclusioni: “il cinema non esiste ancora!”, esclama Barjavel; “il cinema deve ancora essere inventato!”, gli fa eco Bazin.

I due non concordano però su quali tipi di storie il cinema debba raccontare. Per Bazin, bisogna puntare tutto sul realismo integrale, su una rappresentazione documentaria che sia uno specchio fedele della realtà. Per Barjavel, al contrario, a un certo punto occorre liberarsi della zavorra del reale ed esplorare nuovi, fantastici mondi. “Nell’era del cinema totale”, scrive lo sceneggiatore di Don Camillo, “animali, persone e oggetti […] ma anche tutti i nostri sogni e ogni straordinariamente bella o brutta creatura [inclusi, aggiungerei, adorabili goblin] che sia mai nata dall’immaginazione dei poeti prenderanno forma davanti agli occhi degli spettatori, e si muoveranno intorno a loro, luccicando, facendo rumore, solidi di vita”. Come evidenzia la regista ed esperta di effetti speciali americana Raqi Syed in un saggio per Senses of Cinema, l’idea di realtà virtuale è figlia di questo mito del cinema totale, del sogno di uno schermo che sia allo stesso tempo così grande da combaciare con il campo visivo degli spettatori e così intimo da trovarsi a pochi centimetri dai loro occhi. 

Prima che arrivassero i visori VR, spiega Syed, il cinema aveva alimentato il fuoco dei suoi sogni di totalità attraverso le pellicole di grande formato (non a caso anche Nolan disse che l’idea alla base di girare Dunkirk in Imax 70mm era quella di “creare una sensazione di realtà virtuale senza bisogno di visori”), gli effetti speciali (che aumentano il senso di immersione nel film) e il concetto di volume come uno spazio per raccontare storie (anche in questo caso a fini immersivi, si pensi ai piani sequenza). A queste tre strategie si aggiungono a partire dagli anni Ottanta anche i visori per la realtà virtuale, fuoriusciti dai laboratori Nasa (l’agenzia spaziale americana ha più volte svolto un ruolo importante nella storia del cinema, a partire dalla colorizzazione inventata da Markle per documentare proprio lo sbarco sulla Luna). Una tra le prime aziende private che smanetta con la realtà virtuale mettendo in commercio i primi visori VR deliziosamente cyberpunk si chiama VPL Research e l’ha fondata nel 1984 il “Buddha a piedi nudi coi rasta,” per usare l’epiteto affibbiatogli dal New York Times, il già citato Lanier.

La realtà virtuale come medium definitivo

Un modo efficace per capire l’humus in cui le invenzioni di VPL Research vedono la luce è dare un’occhiata alle copertine di High Frontiers, Reality Hackers e Mondo 2000, tre magazine, antesignani anarchici di Wired, che tra gli anni Ottanta e i Novanta immaginano un futuro in cui tecnologia e droghe psichedeliche si mescolano per trascendere la coscienza umana e plasmare nuove realtà. Lo stesso Timothy Leary, evangelista dell’Lsd negli anni Sessanta e Settanta, si dice pronto a convertirsi al nuovo credo tecno-utopista e battezza la VR come “acido digitale”. Insomma, la realtà virtuale sembra proprio il medium definitivo, capace di scardinare, stile mescalina di Huxley, le porte della percezione.

Flash forward. È il 2016 e Zuckerberg – sorridendo come un emoji – attraversa una sala gremita di persone che indossano un nuovo visore per la realtà virtuale. Sembra una sequenza di un film di fantascienza distopica in cui il villain che vuole conquistare il mondo è finalmente riuscito a soggiogare le masse, narcotizzandole con una nuova arma. La realtà virtuale sembra sul punto di rivelarsi un bad trip. Le sue istanze più pericolose (nel senso in cui Nixon definiva Leary “l’uomo più pericoloso d’America”) sono state inglobate e rese innocue dalle grandi aziende tech. Facebook in particolare è determinata a mantenere una posizione di predominio sul medium, avendo precocemente acquistato Oculus nel 2014. Fondata nel 2012, Oculus si era presentata come una delle prime prorompenti novità nel campo della realtà virtuale dopo un mezzo letargo durato una ventina d’anni, simbolicamente iniziato con la bancarotta di VPL Research nel 1990. Ma tra la Mondo House (la dimora vittoriana dove bagordavano gli editor di Mondo 2000) e l’anonima sala per conferenze corporate dove Zuckerberg fa la sua presentazione, trovano posto le vie di mezzo come la sezione sulla realtà virtuale della Mostra di Venezia sull’isola del Lazzaretto Vecchio che, come scrivevamo, è lanciata nel 2017.

Edizione dopo edizione, Venice VR si afferma come uno dei luoghi cardine dove il cinema rivendica la sua centralità nel percorso artistico della realtà virtuale, nel solco delle teorie di Barjavel e Bazin. Ciò non toglie ovviamente che le opere presentate vadano ben oltre il cinema, inglobando le tradizioni artistiche più disparate, dai videogiochi (uno dei giurati di quest’anno era Hideo Kojima, quello di Metal Gear) al teatro, passando per la musica e la radio. “Nel mondo della realtà virtuale confluiscono talenti provenienti da tantissimi campi”, ha dichiarato la curatrice di Venice VR Liz Rosenthal, “il mix di tutte queste conoscenze è necessario per creare progetti che siano belli robusti. Oggi nella realtà virtuale troviamo artisti visuali, attori teatrali, registi cinematografici, tecnici del suono, designer di videogiochi e ovviamente informatici e ingegneri come gli esperti di riconoscimento dei gesti”.

Seguendo una delle definizioni di Lanier, siamo finiti a rintracciare le origini della realtà virtuale nel Novecento, ma probabilmente dovevamo spingerci più indietro nel tempo, perlomeno all’Ottocento, perché questa idea della VR come arte totale che assalta i sensi e che è in qualche modo la summa di tutte le altre arti ricorda il teatro wagneriano e l’idea di Gesamtkunstwerk. Nel saggio L’opera d’arte dell’avvenire, il compositore tedesco sostiene che in origine l’arte era una cosa unica, monolitica e che la sua frammentazione in tante diverse pratiche è causa del suo decadimento. In futuro, dice Wagner, le arti torneranno a unirsi e a tenerle insieme sarà l’architettura, un ideale che il compositore tedesco prova a concretizzare facendosi costruire da Ludovico II il teatro immersivo di Bayreuth. Al di là della retorica wagneriana, anche la realtà virtuale sembra configurarsi come una sorta di opera d’arte totale coordinata da un autore che, per il modo in cui dispone gli elementi narrativi nello spazio della storia, ricorda più un architetto che un regista cinematografico. 
Ok, siamo arrivati all’Ottocento, ma permettetemi di fare un altro salto indietro nel tempo per evidenziare un’ultima caratteristica narrativa della realtà virtuale, la sua potenzialità di darci finalmente adattamenti visuali decenti di opere letterarie finora portate al cinema o in televisione senza grande successo. Andiamo al 1726, anno in cui Jonathan Swift pubblica I viaggi di Gulliver, il celebre romanzo satirico narrante le peripezie di Lemuel Gulliver. Una versione in realtà virtuale dell’opera (chiamata ovviamente GulliVR) potrebbe trasmettere in tutto lo splendore la sensazione di essere un gigante in una terra di Lillipuziani e poi, cambiando completamente prospettiva, quella di essere un nano tra i giganti di Brobdingnag. Tutto questo non potrebbe avvenire con la stessa potenza visiva né al cinema né in una serie tv né in un videogioco. Calarsi in prima persona, come nel romanzo di Swift, nei panni xxs o xxl di Gulliver, sarebbe infatti possibile solo grazie ai “trucchi magici”, come li chiama Lanier, di quella tecnologia, business, mito e ossessione che è la realtà virtuale.


Davide Banis

Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.

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