Il video non è neutro. Ogni strumento, dall’emoticon al montaggio, è portatore di un punto di vista, magari nascosto ma presente. Che pratiche dell’altrove possono ribaltare e cambiare di segno.
Sembrerebbe che le nuove tecnologie siano uguali per tutti gli utenti, quale che sia il loro contesto geografico e culturale. In realtà questa apparente forma di omogeneità si riferisce al funzionamento degli algoritmi, alla natura dei codici utilizzati, a volte ai linguaggi verbali o visivi, ma già quando ci inoltriamo in questo campo le cose diventano più complesse. Gli emoticon, nati con l’intento di compensare l’assenza di gestualità e di attenuare la natura apodittica, definitiva, del linguaggio scritto hanno dato luogo a dispute nate spesso dalla loro natura poco univoca. Le faccine rimandano a una civiltà occidentale in cui la faccia non ha la gravità che possiede in altre culture. E sostituiscono alla varietà dei volti una standardizzazione che esclude quelle che non sono solo “fattezze”, ma veri e propri tratti culturali. Gli emoticon oscillano tra il politically correct di un universalismo occidentale e il carattere razzista dello stesso universalismo. E a poco valgono le faccine con gli occhi a mandorla o nere. Il linguaggio delle emozioni non è universale e ciò che si esprime nei gesti e nelle espressioni tantomeno.
L’esempio degli emoticon ricorda il gap che esiste nelle relazioni tra culture diverse e di come la presunzione che tutto sia traducibile e comunicabile nasca da un punto di vista etnocentrico. Nell’esperienza di contatti tra culture le cose non stanno in questo modo e lo spazio dei malintesi e della non comprensione è molto ampio. Il corollario positivo di tutto questo è che la stessa tecnologia, invece di essere un elemento unificante, fa risaltare invece le differenze nell’uso, nelle motivazioni, nel senso che si dà alle immagini che si muovono su uno schermo.
Gli emoticon oscillano tra il politically correct di un universalismo occidentale e il carattere razzista dello stesso universalismo. E a poco valgono le faccine con gli occhi a mandorla o nere. Il linguaggio delle emozioni non è universale e ciò che si esprime nei gesti e nelle espressioni tantomeno.
Un collettivo cinematografico
Un caso magnifico di uso diverso dello schermo ci arriva dalla comunità aborigena australiana “Karrabing Film Collective”. È una comunità indigena i cui componenti vanno dai bambini di sei anni fino agli anziani e che risiede in maniera nomade nei territori del Nord dell’Australia, nella baia di Anson. Un territorio che è stato coinvolto in pesanti cambiamenti, abbandoni, inquinamento, devastazione e che però per la comunità rappresenta il territorio del sogno, secondo la cosmologia aborigena per cui i luoghi sono il risultato del sogno degli antenati, siano essi animali mitici o progenitori. La comunità, poverissima, utilizza i telefoni portatili per girare delle storie che si muovono tra la fantascienza, il racconto tra madri e figli, le evocazioni di zombie, mostri fate, il tutto condito con una grande auto-ironia e comicità. Elizabeth Povinelli è una critica d’arte, filosofa e antropologa che da trent’anni vive con la comunità e ne è stata “assorbita”. Il suo essere diventata la zia di alcuni ragazzi e ragazze della comunità ha prodotto negli ultimi dieci anni il Karrabing Film Collective. Nella comunità tutti “filmano”, dai bambini agli anziani, ed Elizabeth monta i loro filmati, dopo avere discusso con loro lungamente la storia, la messa in scena, la composizione. Il risultato è una serie di video “sognanti” di una forza e ingenuità tale da essere diventati un punto di riferimento per altre comunità indigene nel mondo. Infatti, uno degli scopi del Karrabing è l’attualizzazione della cosmologia indigena e il racconto di come essa non sia un residuo del passato, ma il modo con cui gli aborigeni leggono il presente e le sue catastrofi. In più il collettivo è diventato l’ospite di molti musei di arte contemporanea, allargandone l’influenza e rendendo possibile alla comunità stessa di trarne dei proventi per la sussistenza.
Il Karrabing racconta cosa significa appropriarsi di uno strumento trasformandone uso, senso e finalità, e soprattutto creando uno “stile”. È il modo con cui una cultura sagoma su di sé lo schermo, lo usa senza pregiudizi per raccontare in maniera diretta. Fa parte di una nuova attività che si diffonde nelle comunità indigene, quella di appropriarsi di strumenti “occidentali” che vanno dal video ai musei per raccontare un presente che sfugge agli stessi occhi dell’occidente. Si tratta di una ridefinizione stessa dell’essere indigeni. Sfugge peraltro anche a definizioni come militanza, correttezza politica, arte impegnata, e costruisce un campo nuovo di mitologie da raccontare, quelle di un mondo sull’orlo del collasso ambientale in cui gli indigeni hanno molto più da dire di noi, perché per loro, per la loro cultura, il collasso è già avvenuto. La cosa interessante è che nei loro video, “Mermaids”, “The Road”, “Day in the Life”, “The Family”, c’è una forma di speranza dove il sogno sostiene la realtà e viceversa. L’uso esilarante di overlapping, velature, flashback rende l’insieme tanto lontano da qualunque forma di realismo banale da farci capire la forza effettiva delle “vie dei canti” e dei “dream-roads”.
Nella comunità tutti “filmano”, dai bambini agli anziani, ed Elizabeth monta i loro filmati, dopo avere discusso con loro lungamente la storia, la messa in scena, la composizione. Il risultato è una serie di video “sognanti” di una forza e ingenuità tale da essere diventati un punto di riferimento per altre comunità indigene nel mondo.
L’esempio di Karrabing si accompagna a una fioritura in molte altre comunità native dell’uso del video. Una storia che, come racconta Michael Taussig, nasce da una critica dello sguardo occidentale sui “selvaggi” e dal suo capovolgimento operato negli anni Settanta dall’artista cileno Juan Downey, che si reca a vivere per sei mesi tra gli Yanomani e capovolge il punto di vista della videocamera, un sostituto delle lance e dei fucili, dove il “puntare” per registrare assume una valenza dialettica e dialogica.
Più tardi sarà un artista cherokee, Jimmie Durham, a usare il video giocando con tutte le ambiguità del mondo dei musei e delle gallerie d’arte, ma sempre mettendo in dubbio che l’indigenità sia qualcosa di fisso e immutabile e provocando lo spettatore con una ironia corrosiva. Oggi l’incrocio tra un uso diverso dello schermo e la relazione che esso mette in atto tra chi fa e chi guarda rende queste ricerche un campo fertilissimo per rinnovare il nostro sguardo. Nel mondo indigeno, spesso, chi produce una danza, un travestimento, una messa in scena, un canto, è responsabile degli effetti che queste manifestazioni possono avere negli spettatori. Spesso deve “rimborsarli” per le emozioni provocate. L’artista, il filmmaker è messo di fronte all’evidenza. Se vuole essere efficace deve anche rendersi responsabile delle conseguenze. Il suo non è un fare di cui si può sbarazzare con un broadcasting o una proiezione, ma qualcosa che agisce e deve attendersi dai fruitori una manipolazione e recriminazione. C’è in tutto questo la logica della trasmissione dei beni nelle culture indigene. I video, come qualunque altro bene, creano legami, debiti, dipendenze reciproche e nuove forme di libertà condivise.
Franco La Cecla
Antropologo, insegna in Naba a Milano Visual Culture e in Iulm Milano Arte e Antropologia. Ha pubblicato con Anna Castelli Scambiarsi le Arti, Arte & Antropologia (2022) e Tradire i sentimenti, rossori, lacrime, imbarazzi (2022). Altri lavori recenti, Essere Amici (2019) e il documentario È assurdo per un bianco essere in Africa.
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