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Tendenze

La crisi degli eventi e della spontaneità

Prima della pandemia, utile e dilettevole si intrecciavano spesso in occasione di feste e presentazioni. E tutto un settore ci gravitava intorno. Un’insider ci racconta come queste attività hanno cambiato pelle.

Ci sono direttori creativi che scelgono di lanciare la loro nuova collezione con una miniserie trasmessa in digitale (vedi Alessandro Michele), designer che ti fanno arrivare a casa una tazza di tè accompagnata da una cartolina con QR code dove troverai un video che ti guida tra i nuovi prodotti (Stefano Seletti). C’è chi pensa che le fiere del libro “che facevano così anni Cinquanta” non hanno più senso di esistere: uno perché erano faticose, due perché ormai servivano solo da vetrina, tre perché il ritorno economico per il singolo editore (e per lo scrittore ancora peggio) non era poi così alto. La pandemia ci ha costretto a ripensare un settore che davamo ormai per consolidato nella forma in cui l’abbiamo vissuto fino a oggi.

Nei primi mesi di lockdown ci siamo divertiti a sperimentare forme nuove di incontro e condivisione (nuove per chi non aveva mai vissuto in città diverse dalla propria): tutti a scaricare Zoom, Webex, Google Meet, Teams, e così via. Dagli aperitivi alle tavole rotonde, tutto passava da lì, ma l’effetto festa durava poco: esclusi i primi dieci minuti di risate isteriche e di screenshot dei nostri schermi affollati (ri-postati poi su ogni social possibile, distruggendo per sempre l’estetica dei nostri feed a cui avevamo dedicato così tanta cura), iniziava poi una frustrante fase di ricerca della comprensione, tra audio sporchi e connessioni sconnesse, oltre all’annullamento di ogni etichetta immaginabile, parlando tutti uno sopra all’altro, mangiando a bocca aperta (per non perdere il proprio turno), e così via. 

Altra visibilità

I quindici minuti di visibilità di Andy Wharol, da sogno di pochi sono diventati incubo di tutti. E non ha niente a che vedere con la visibilità a cui aspiravamo prima, quando un uso amatoriale di Facebook bastava per farci sentire famosi. Tutto si è fatto all’ennesima potenza e ogni rete sociale è diventata un trofeo da mostrare con interviste su InstagramTv, corsi di workout gratis o comunque molto economici (rispetto ai cari vecchi abbonamenti in palestra, per cui impegnavamo portafoglio e agenda per almeno un anno, vivendo con il continuo senso di colpa di non sfruttarli abbastanza), presentazioni di libri alla portata di tutti (nel senso che proprio tutti hanno indossato il cappello del critico letterario), interviste di Vieri a colleghi e amici, lezioni di cucina tenute da grandi chef in streaming, letteralmente caduti dalle (tre) stelle dei grandi catering alle infinite stalle delle variazioni dettate dai Dpcm su orari di apertura e chiusura, delivery, sosta, ma seduti, anzi no meglio in piedi, ma distanti almeno un metro (quello sempre).

E i brand? Abituati com’erano a ingaggiare non una ma due, tre agenzie alla volta (una per l’organizzazione dell’evento, l’altra per la sua comunicazione, l’ultima per un supporto verticale a quest’ultima) e a pensare in grande (ospiti da sogno, video showreel autoriali, minimo cento invitati, ognuno con almeno un paio di bicchieri di champagne assicurati), si sono ritrovati anche loro persi in un mare magnum di eventi – fake – virtuali per i quali le stesse agenzie di cui sopra chiedevano lo stesso impegno economico dei tempi pre-Covid, motivandolo con una carrellata di dati su numero di visualizzazioni, di engagement e di partecipazione a più livelli. A un certo punto anche i brand hanno dovuto ammettere a loro stessi che avrebbero dovuto abbandonare la vecchia idea “eventi”, e sostituirla con un nuovo concept: contenuti registrati e organizzati come fossero programmi tv, in cui si segue un copione (e non una scaletta), in cui si invita tutti ad ascoltare comodamente da casa (on demand o in streaming), e in cui il numero di follower dei relatori conta tanto quanto il loro curriculum.

Milano si è svuotata, ma solo nel primo lockdown, quando tanti pensavano che agli eventi e riunioni digitali si potesse partecipare anche dal meraviglioso borgo di Boeri o da casa di mammà al mare. Fallito il primo tentativo – il wifi non prende così bene nei borghi, anzi non prende nemmeno il telefono, e anche mammà dopo un po’ si è stancata – si è entrati nel semi-sogno di una notte di mezza estate: tutti alla rincorsa delle cene all’aperto per ritrovare i contatti (la rubrica!), di aperitivi discreti (e sponsorizzati) con i piedi nella sabbia, di dj set privati (con deejay rigorosamente local, al massimo extra-regione), di presentazioni di prodotti da sagre (ma senza le sagre), dei tamponi pre-partite di calcetto, dei viaggi a Ibiza nonsense. A settembre poi, ancora più indaffarati a cercare nuovi slanci nel digitale al cospetto del nuovo spettro del lockdown, questa volta però non più dai borghi ma in città, meglio se l’ufficio è in centro, anzi perfetto se hai una scrivania in un hub super connesso, o un amico nerd che vada oltre il classico “spegni e riaccendi” in caso di necessità. 

La rubrica, le relazioni

Le agenzie si sono fatte trovare più pronte per rispondere alle esigenze dettate dal new normal: nel loro portfolio hanno almeno quattro-cinque piattaforme diverse per registrare quei contenuti (non li chiamano più “eventi”) costruiti intorno a te, al brand, al moderatore che presenta in tv ma soprattutto presenta se stesso sui social, tutti i giorni, più volte. Questa volta la promessa è stata mantenuta, anche perché tutti se l’aspettavano già che la fiera del libro non si sarebbe fatta, e la settimana della moda sarebbe stata sostituita da un palinsesto di video on demand, o al massimo da un picnic all’aperto, distanziati (sempre). Permettetemi una digressione sugli “eventi distanziati”: forma ibrida in cui effettivamente esci per andare a fare qualcosa, ma poi ti ritrovi seduto a un tavolo con la persona che ti ha accompagnato o, ancora peggio, da solo, senza la possibilità di conoscere effettivamente qualcuno al bancone del bar, o mentre cerchi di farti strada tra la folla che chiacchiera, balla, cerca di procacciarsi una polpetta gourmet, o di attirare l’attenzione del fotografo (un minuto di silenzio per i fotografi degli eventi).

Le relazioni personali, che poi sono quelle professionali (specie a Milano) che nascevano dagli eventi ora non nascono più. Siamo tutti rimasti fermi a quelli che conoscevamo già da prima, forse in estate abbiamo aggiunto qualche numero, ma alla fine non si è avuto il tempo di crederci per davvero. Così nascono progetti nuovi ma si fa fatica a coinvolgere persone nuove, l’immaginazione è tanta ma ha pur sempre un limite, specie se gli unici spunti arrivano dai talk in tv o dalla cacofonia dei social network. Nelle (infinite) call ci si conosce, è vero, ma non è la stessa cosa. C’è un bel libro sulla spontaneità dell’incontro, Wow, No Thank You di Samantha Irby, che parte dall’idea che sia bellissimo vivere isolati (lei si è trasferita da Chicago a Kamalazoo, cittadina del Michigan), per poi ricredersi: organizza un pranzo “per fare amicizia” con una conoscente, Emily, al quale arriva piena di dubbi e di ansia, dettati appunto da quella finta spontaneità. Più passa il tempo e più stiamo diventando come Samantha, o peggio: la pandemia ci ha disabituati alla socialità, non parliamo più, al massimo ci scriviamo, non capiamo il tono di una mail ed è subito paranoia, viviamo in continuo on–off dal social dilemma

La stagione è finita?

Un recente numero del New York Magazine (settimana del 23 novembre) è dedicato alle feste senza fine che durante il lockdown si sono semplicemente spostate di un piano (sottoterra) senza fare una piega. Speakeasy con un senso, finalmente. Ma se andiamo oltre le città (e i sotterranei) del peccato, la stagione degli eventi resta sospesa. In una delle ultime occasioni di incontro permesse in un museo ho rivisto il fondatore di un’agenzia di eventi nota a Milano soprattutto per le sue bellissime feste (a tema, ad Halloween, tutte matte), che mi ha confessato di aver iniziato a pianificare un cambio di vita e di voler aprire un hotel in un paesino di montagna in Abruzzo: “tanto la stagione degli eventi è finita”. In effetti se prima incontravi un deejay in un bar a fare colazione alle 8 di mattina non era mai perché si era appena svegliato, ma perché non andava ancora a dormire. Oggi invece capita anche questo: gente della notte sempre sveglia di giorno che non sa più cosa inventarsi e che adesso incontri (da sola) al bar quando fuori è ancora buio, con la brioche in mano, gli occhi spenti e fissi sullo smartphone, gli airpods che inondano la mente di note legate a ricordi di serate lontane. Nemmeno Jo Squillo ci crede più: sfiancata dalla dimostrazione continua e forzata che ballare a casa da sole, ascoltare un nuovo album, o ordinare da bere, sia una figata comunque. E così siamo arrivati a novembre: i festival ancora si organizzano, c’è chi lo fa in modo nuovo e ha il coraggio di sperimentare fino in fondo, chi invece pensa ancora che cambiare solo alcune variabili rispetto alle abitudini di sempre sia la via di mezzo che accontenta tutti. Le feste di Natale intanto sono alle porte: i brand scalpitano, noi anche, i siti di e-commerce si arricchiscono (è possibile arricchirsi all’infinito? sì), le case editrici sopravvivono, le pr organizzano retreat di yoga, i club si svuotano, delle residenze per artisti restano solo le residenze, le fiere sbiadiscono sempre di più. E gli influencer? Loro resistono, anzi, sono il nuovo gotha, gli unici ad aver capito, già da tempo, che sarebbe arrivata, prima o poi, la fine degli eventi.


Serena Scarpello

Giornalista di formazione televisiva, è autrice del saggio d’inchiesta Comunicare meno, comunicare meglio (Guerini Next) e di numerose pubblicazioni su temi culturali. È Head of Content di MoSt, agenzia creativa di Studio Editoriale e direttore responsabile di alcuni brand magazine. Insegna Brand Journalism al Master in Comunicazione e Marketing Politico e Istituzionale della LUISS School of Government.

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