Sempre più marchi si fanno pubblicità con influencer e creator, sempre più influencer e creator hanno deciso di lanciare i “loro” marchi. Un cambiamento importante, dove però torna il vecchio marketing.
Milano, ore 12 e trenta: la mia amica è alle prese con la difficile combinazione di date necessaria a far combaciare il calendario della celebrity di turno, quello del suo personal stylist, il piano editoriale del brand e le esigenze di budget. Queste non sono secondarie, si parla di decine di migliaia di euro per questa attività su Instagram. Conosco di nome la suddetta celebrity (un altro termine il cui significato è stato esteso dal marketing digitale), ma sul momento non ricordo esattamente perché sia famosa, al di là dei propri famosi parenti. In ogni caso, ha sicuramente più di un milione di follower e questo basta e avanza, oggi. Questo tipo di attività, mi dice, è oggi una parte sempre più critica del suo lavoro in agenzia.
Dai micro-creator di nicchia ai super famosi, ora sono loro ad avere le chiavi di accesso al pubblico, sono loro che decidono chi deve avere o meno attenzione. Man mano che i social media diventano sempre più strumenti di intrattenimento in stile televisivo e sempre meno spazi di conversazione, i creatori diventano al tempo stesso produttori esecutivi, presentatori e broadcaster. Parallelamente i brand sono costretti a “deformarsi” per adattarsi alla richiesta di intrattenimento – il modello Ceres – oppure, nella maggior parte dei casi, a venire a patti con questi nuovi micro (a volte nemmeno micro) media digitali.
Scontro tra modelli
Nel romanzo American Gods, Neil Gaiman immagina i vecchi dei in crisi di popolarità (oggi diremmo di perdita di follower), che combattono le nuove divinità “digitali”, avvantaggiate nella lotta (hanno più engagement, si direbbe ora). Odino e altri, nel romanzo, decidono di combattere. Al contrario, i marketing gods, gli ex love brands un po’ fuori dai riflettori, hanno deciso di non combattere, ma di portarli, di solito a caro prezzo, dalla propria parte. Buona parte dei budget di advertising passano oggi attraverso canali che non sono programmatici, non sono misurabili (precisamente), e che tirano in ballo una filiera di soggetti che fa rimpiangere la vecchia piramide editori-concessionarie-filiali-agenti-subagenti di vendita per semplicità e trasparenza. La mia collega è evidentemente al centro di una trattativa che coinvolge contenuti, orari, numero di uscite, piattaforme e migliaia di euro. E un personal stylist.
La celebrity economy è, negli anni Venti, qualcosa che muove un enorme ecosistema fluido, in cui la massima monetizzazione delle proprie audience è perseguita con ogni mezzo a disposizione, un trend da far impallidire la televisione lineare, i “malvagi” pubblicitari “tradizionali”. E che, almeno in questa fase, dà ampio sostentamento a tutti: creator, agenti di creator, agenzie di talent, agenzie di brand (spesso costole una dell’altra) e tutta la filiera di tecnici di pre e post produzione, digital marketer e web developer nel mezzo. Ma la pubblicità, perché a tutti gli effetti di pubblicità si tratta, sia pur mediata dal più accomodante o meno opinabile criterio di personalità nel contenuto, trasparenza, affollamento pubblicitario, sensibilità al prodotto promosso e rispetto della propria community da parte della celebrity, non è l’unico modo per monetizzare. E il modello vincente, nella creator economy, per dirlo in termini un po’ nerd, è sempre and, mai or. Si aggiunge, si prova, si verifica ogni modello possibile di monetizzazione.
Man mano che i social media diventano sempre più strumenti di intrattenimento in stile televisivo e sempre meno spazi di conversazione, i creatori diventano al tempo stesso produttori esecutivi, presentatori e broadcaster. Parallelamente i brand sono costretti a venire a patti con questi nuovi micro (a volte nemmeno micro) media digitali.
Nella teoria classica del marketing si fa riferimento spesso ad alcune ere geologiche: si cita l’onusta era del prodotto di massa degli ottimisti anni Sessanta, l’era del marketing, della pubblicità di massa e del negozio fisico, l’era del cliente empowered dal digitale. Oggi, per molti settori, è iniziata l’era della celebrity-creatrice. Non che gli imprenditori non fossero già delle divinità: immaginate Enzo Ferrari con Instagram, 500 milioni di follower. Ma preferisco non immaginarlo con Instagram. È il percorso che si è invertito: non è più il prodotto a rendere celebre l’imprenditore, è il contrario. Il ciclo (immaginatelo in senso orario) prodotto-pubblicità-negozio-consumatore si è invertito: il consumatore è “catturato” in una community, collegata a un o una creator che decide cosa è meglio (più redditizio) offrirgli, cioè il prodotto. A volte sono prodotti già esistenti (sponsorizzazioni, a volte vere e proprie televendite social), a volte sono prodotti “in collab” (in cui l’influencer si scopre avere inaspettate doti di designer o di alchimista), a volte, ed è il caso in questione – qui avviene la seconda usurpazione a dispetto dei brand consolidati, dopo quella della audience – produce direttamente i propri prodotti, con il proprio marchio – di solito simile al proprio nome o meglio al nome del suo profilo.
Dal personal brand al prodotto
Vale la pena soffermarsi un attimo su cosa significa produrre, oggi. Pochi brand possiedono interamente la propria filiera: la maggior parte si limita a ordinare i “propri” prodotti presso terzisti, che siano in Italia, Turchia, Romania o a Shenzen non fa molta differenza, in questo schema di ragionamento. La produzione, salvo intoppi per motivi pandemici, oggi è una commodity: i prodotti si equivalgono tutti, a grandi linee, o si possono far equivalere a seconda della premiumness scelta. Avete notato come negli ultimi tempi ogni estetista sotto casa e ogni farmacista che si rispetti abbia creato un proprio prodotto a marchio? Quello che conta è altro: arrivare al consumatore, ottenere la sua attenzione e la sua fiducia, e chiudere la vendita senza troppi intermediari. Certo, dal piazzare un proprio adesivo su di un barattolo standard di crema viso a farsi creare un proprio prodotto ci sono diversi gradi di personalizzazione, ma molto spesso non è lì che si giocano i destini dei creator brand. E la vendita, il negozio, l’ultimo tassello del sistema di vendita dell’era del marketing tv più store? La pagina funziona anche come store (mettere su uno store con Shopify e altri è cosa da giorni, non mesi). Link in bio (o nelle stories) e il gioco è fatto: in gergo, direct to consumer.
La celebrity economy è, negli anni Venti, qualcosa che muove un enorme ecosistema fluido, in cui la massima monetizzazione delle proprie audience è perseguita con ogni mezzo a disposizione, un trend da far impallidire la televisione lineare, i “malvagi” pubblicitari “tradizionali”. E che dà sostentamento a tutti: creator, agenti di creator, agenzie di talent, agenzie di brand (spesso costole una dell’altra) e tutta la filiera di tecnici di pre e post produzione, digital marketer e web developer nel mezzo.
I brand dei creator non sono tuttavia una novità assoluta degli anni Venti: il primo brand che viene in mente, a noi italiani medi, è ovviamente la celebrità nativa digitale per eccellenza, Chiara Ferragni, la cui nascita del prodotto a marchio (la “linea Chiara Ferragni”) è fissata nel 2013 dal sito Influencer Marketing Hub. Ma è la progressione recente che balza agli occhi: la stragrande maggioranza dei creator brand presenti nella top 100 dello stesso sito è nata dopo il 2020. Naturalmente, non è detto che la maggior parte di questi brand sia diventato davvero di successo. L’affollamento è un problema nel mercato, celebrity economy o no. Ogni follower si trova oggi a dover scegliere, oltre che dal bouquet dei brand tradizionali, spesso sponsorizzati dalla celebrity, anche da tutta la cornucopia dei creator brand che lui o lei segue su Instagram (dico Instagram perché è lì che si forma il creator brand, nella nuova vetrina dello shopping digitale).
Mi incuriosisce che quasi tutti i megabrand di creator siano nel campo beauty o fashion. Certo dipende anche dal fatto che c’è, per il marketing, un’allettante intersezione tra la prevalenza femminile tra le celebrity e quella tra le clienti di quei particolari mercati. In particolare, la cosmesi è la mission del 40% dei top creator brand. Ai primi tre posti ci sono creator brand di star digitali come Ipsy by Michelle Phan, Kylie Cosmetics di Kylie Jenner, Skims di Kim Kardashian: assieme generano più di un miliardo di dollari di fatturato. E scavando più in dettaglio nei numeri si scopre che ciprie, eyeliner e altri prodotti attinenti al trucco facciale occupano una parte maggioritaria di questi fatturati. In effetti, cosa vediamo più frequentemente nelle stories delle celebrity? Il viso. Primi piani in pose posh, lunghe disquisizioni fissando la telecamera dello smartphone (dell’assistente) nelle stories: il primo piano della celebrity è sempre lì davanti a noi, nei nostri schermi personali sempre accesi. Il product placement è facilitato, probabilmente. E l’aspirazionalità che si genera tra follower e celebrity fa il resto, facilita la vendita. “Voglio essere come te”, almeno nell’eyeliner.
Non che il creator brand sia sempre e per sempre una gallina ovaiola di fatturati dorati. Buona parte di essi sono oggi costretti ad acquistare pubblicità su quelle stesse piattaforme che li hanno fatti nascere e crescere (Meta, principalmente) per mantenere il flusso di vendite che il solo bacino delle follower, soprattutto dopo averlo sovrasfruttato tartassandolo di everyday promo e novità imperdibili, da solo non può più soddisfare. Il principale vantaggio dei creator brand (la rapida accessibilità a un pubblico, la fiducia senza limiti che questo pubblico concede loro) è anche il suo limite principale. Il mercato finisce dove finisce l’area di influenza della celebrity, nella maggior parte dei casi. Il posizionamento era chiaro, o non serviva, in quel territorio. E quando si esce dal territorio si gioca con le regole degli dèi tradizionali. Certo, questi hanno meno engagement e manca loro la devozione assoluta di un manipolo di fedeli, ma hanno la robustezza di chi è sopravvissuto a tutte le ere geologiche del consumo. Loro, in tutti i sensi, non invecchiano. E non hanno bisogno di quel personal stylist.
Gianluca Diegoli
Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.
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