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Concetto noir

Non solo cinema: il noir attraversa tutta la storia del telefilm americano. E negli ultimi anni ha trovato manifestazioni e riletture inedite. Continuiamo a cercare quello che ci turba e ci minaccia.

Esiste una serialità noir? Probabilmente non nel senso classico del termine, ma l’epoca della narrazione esperienziale, con al centro l’esperienza personale del trauma (in crescita costante dal 2001 al #MeToo e oltre), ha fatto emergere con forza nel mondo seriale quelle tematiche che hanno reso il noir – inteso come elemento di elaborazione del traumatico – un fenomeno così fortunato e longevo nel mondo dei media. True Detective, Fargo, Pretty Little Liars, You, Ozark, The Sinner, Absentia, The Blacklist, fino al recente successo di The Undoing (la serie Hbo più vista del 2020): gli esempi sono tanti, premiati dagli ascolti (e dagli streaming), e interessano target diversi tra loro.

Le radici del noir

Si inizia a parlare di “film noir” quando pubblico e (soprattutto) critica francesi recuperano i film americani con crimini e detective prodotti negli anni della seconda guerra mondiale. A caratterizzare questa produzione c’è uno slittamento che dalla trama sposta l’attenzione alla psicologia dei personaggi. Il mistero del falco, La fiamma del peccato, Vertigine: “L’unica cosa che conta è l’enigma della psicologia dei personaggi”, scrive Nino Frank in Un nouveau genre policier: l’aventure criminelle, nel 1946. Diventa centrale in questo corpus l’esperienza personale e soggettiva del protagonista, che si trova ad agire in un mondo (corrotto) di ombre e inganni, di incertezze, in un percorso labirintico alla ricerca della verità. Il reale diventa incerto: da una parte si insegue un maggiore realismo (i set escono dagli studios), dall’altra si spinge sulla vocazione espressionista più allucinata. Con la New Hollywood scende poi in campo il neo-noir, l’iconografia e i tòpoi classici del genere sono aggiornati e (ri)elaborati. E poi il noir si dilata ancora – fino ad arrivare a esiti estremi come quelli di Strade perdute di Lynch, neo-noir al cubo. 

Negli anni Cinquanta entra in gioco la tv, e nel discorso attorno al filone – a cavallo tra i dispositivi – è centrale Alfred Hitchcock. Quello del maestro del brivido è un noir a sé, spesso con un punto di vista femminile, lontano dall’hard boiled e con messe in scena tendenzialmente distanti dall’espressionismo. Con lui però, tra i primi a intuire le potenzialità del piccolo schermo, la serialità noir trova un precoce protagonista d’eccezione. Alfred Hitchcock Presents conta sette stagioni andate in onda dal 1955 al 1961 (Cbs e Nbc), per un totale di 268 episodi. Dal 1962 prende il via una seconda serie, Alfred Hitchcock Hour, tre stagioni, 92 episodi. Tra il 1985 e il 1989 è trasmessa una terza serie, ma Hitchcock è morto, si tratta di una prosecuzione del brand. In questi “corti” si mantiene il punto di vista eccentrico del noir: lo spettatore compie un viaggio da una situazione familiare a una di estraneità, i confini tra vero e falso si assottigliano, la morale si deforma, giusto e sbagliato assumono nuove connotazioni. Il familiare nel noir diventa una minaccia. Come il bicchiere di latte con dentro la lampadina ne Il Sospetto (1941). Sarà avvelenato? Forse sì, forse no. 

In Perry Mason 2020 vediamo un protagonista diverso rispetto a quello che già conoscevamo: prima dell’avvocato tutto d’un pezzo, il protagonista è stato un investigatore privato che incarna alla perfezione i cliché dell’eroe noir: sfortunato in amore, squattrinato, cinico e disilluso; sopravvissuto (non senza traumi) alla Grande guerra, si muove dolente nella Los Angeles da poco scampata (non senza conseguenze) alla Grande depressione. Perry Mason diventa complesso, pieno di contraddizioni.

Nasce il procedurale. Dragnet prende forma in radio nel 1949 per sbarcare due anni dopo in tv con ascolti record: nel 1954 è secondo solo alla sitcom I Love Lucy; otto stagioni (1951-59), poi altre quattro (1967-70), due nel 1989 e altre due nel 2003. Protagonista è un poliziotto, Joe Friday (Jack Webb), ogni episodio un caso da risolvere. L’atmosfera è realistica, sobria: esiste solo trama verticale e dimensione professionale; del noir tiene la tematica criminale, non il punto di vista. Legal drama per antonomasia, Perry Mason nasce invece dai romanzi di Erle Stanley Gardner e – dopo il passaggio radiofonico – sbarca in tv nel 1957. Nove stagioni e 36 film dal 1985 al 1993 (più quattro senza Raymond Burr, e arriviamo al 1995). Ultimo avvistamento? Nel 2020. La lunga serialità accoglie un crime addomesticato, per famiglie, gli aspetti più perturbanti del noir sono completamente epurati; i telefilm di Hitchcock – dove invece l’elemento minaccioso permane – sono invece autoconclusivi, antologici. 

Nevrosi e perturbante

Il noir è un genere nevrotico. La patina scura di cinismo e pessimismo, il lato oscuro dell’eroe e la disillusione sembrano – per molto tempo – mal adattarsi alla longevità seriale. Dalle ceneri del noir cinematografico nasce però il neo-noir, un genere che pesca dai classici, li rielabora, li cita e li stravolge: i generi e gli stili si ibridano, in sala escono Blow Out e Blade Runner, fino a The Dark Knight e Drive. In tv, una volta esperite le rivoluzioni di Twin Peaks (neo-noir metafisico) e X-Files (neo-noir fantascientifico), la serialità accoglie a braccia aperte proprio quel carattere eccentrico e nevrotico fondamentale per la golden age del noir e, dagli anni Novanta in poi, sono superate tutta una serie di restrizioni. NYPD. New York Police Department (Abc, 1993-2005) è per il poliziesco del piccolo schermo una svolta, apre la strada a un maggiore realismo, senza lesinare violenza e sesso (motivi di una messa onda travagliata). La complessità di molte serie vicine al noir arrivate poi – The Shield, Justified, Dexter, Breaking Bad – derivano da qui. Banshee (Cinemax, 2011-16) è un buon esempio di come i serial della contemporaneità hanno potuto osare e liberarsi dai vincoli che per decenni hanno normato la natura a-normale dell’universo noir. La serie gioca tutto sul ribaltamento dei ruoli (un ex criminale che si sostituisce allo sceriffo), sull’iper-violenza e sulla pervasività della corruzione. Non è però la rappresentazione esplicita di sesso e brutalità a renderla “nera”, ma la spregiudicata ambiguità e il cinismo dei personaggi.

Scavare in profondità. In Perry Mason 2020 vediamo un protagonista diverso rispetto a quello che già conoscevamo: prima dell’avvocato tutto d’un pezzo, il protagonista è stato un investigatore privato che incarna alla perfezione i cliché dell’eroe noir: sfortunato in amore, squattrinato, cinico e disilluso; sopravvissuto (non senza traumi) alla Grande guerra, si muove dolente nella Los Angeles da poco scampata (non senza conseguenze) alla Grande depressione. Perry Mason diventa complesso, pieno di contraddizioni.

Nei recenti The Undoing (Hbo, 2020) e Your Honor (Showtime, 2020) assistiamo alla messa in scena di alcuni capisaldi noir: il perturbante (criminale) che sconvolge le dinamiche familiari, costringendo i protagonisti a mettere in discussione morale e identità (propria e altrui). In The Undoing la protagonista (Nicole Kidman) si trova davanti a una verità inaspettata: il marito (Hugh Grant), un oncologo infantile all’apparenza encomiabile, ha un’amante (Matilda De Angelis) trovata morta ammazzata. Tutto ciò che le sembrava sicuro ora è ostile: il marito, la loro casa, la polizia, la propria mente. Le domande che si fa sono le stesse che si pone il pubblico: cosa è vero e cosa è falso? Come agire di fronte a molti indizi ma senza una prova conclusiva? In Your Honor (Showtime, 2020) la verità è subito chiara, a essere centrale è il dilemma morale. In una New Orleans segnata da conflitti razziali e corruzione, un giudice decide di coprire il figlio, responsabile di un incidente mortale, per proteggerlo dalla vendetta di una famiglia mafiosa. Fino a che punti i “buoni” possono sbagliare a fin di bene? Quale il limite, quale il prezzo? La miniserie è un adattamento dell’israeliana Kvodo, operazione simile a quella di Homeland (Showtime, 2011-2020), basata su Hatufim, serie israeliana. Così come The Killing (Fox, 2011-2014) è il remake di una serie danese o The Bridge (FX, 2013-14) quello di una scandinava. Il neo-noir televisivo si nutre della globalizzazione: le nevrosi hanno sempre più carattere mondiale, travalicano i campanilismi.

Nel caso di Homeland il fattore noir funziona alla perfezione nella prima stagione, poi – disinnescato il meccanismo iniziale – la serie prosegue su toni differenti. Nella rivisitazione americana Nicholas Brody (Damian Lewis) è un sergente dei Marine liberato dopo otto anni di prigionia in Iraq. Al rientro in patria viene accolto come un eroe, Carrie Mathison (Claire Danes), un’analista della Cia, sospetta che Brody sia in realtà una minaccia, convertito da prigioniero a collaboratore di al-Qaida. Abbiamo così due protagonisti che cavalcano in maniera speculare (opposta e complementare) due paradigmi del noir: lui è il protagonista ambivalente (patriota o terrorista?), lei l’eroina contro un sistema che non le dà credito (è bipolare: ha intuizioni geniali o deliri visionari?). Il pubblico tifa per entrambi, la strada verso la verità è un labirinto.

L’era del trauma 

In Prodigal Son e in Clarice il procedurale torna a guardare ai serial killer, che – per definizione – sono coprotagonisti perfetti per la serialità. Prodigal Son (Fox, 2019) ha per protagonista Malcolm Bright (Tom Payne), un profiler con la capacità di capire la mente criminale, figlio di un famoso serial killer. La conflittualità del rapporto paterno, corroborata dal peso di una possibile eredità genetica (il male si tramanda di generazione in generazione?), è centrale nella rappresentazione dell’eroe tormentato, con un passato oscuro, in una realtà dove si sovrappongono ricordi e sogni, e il confine tra bene e male si assottiglia. Clarice (Cbs, 2021), sequel de Il silenzio degli innocenti senza Hannibal Lecter (per problemi sui diritti), ha meccanismi simili. In entrambe è centrale l’elemento del trauma e della rimozione, la narrazione del sopravvissuto che lotta con il rimosso (l’incertezza del reale) e lavora per l’accettazione della propria condizione/natura – perfetta esemplificazione di come il noir (con la sua predilezione per la discontinuità) sappia interpretare le nevrosi delle contemporaneità. Nelle loro alterazioni, tempo, spazio e memoria sono i cardini attorno a cui il noir costruisce il proprio universo narrativo ed estetico. 

In Clarice, sequel de Il silenzio degli innocenti senza Hannibal Lecter (per problemi sui diritti), è centrale l’elemento del trauma e della rimozione, la narrazione del sopravvissuto che lotta con il rimosso (l’incertezza del reale) e lavora per l’accettazione della sua condizione/natura. Perfetta esemplificazione di come il noir sappia interpretare le nevrosi delle contemporaneità. Nelle loro alterazioni, tempo, spazio e memoria sono i cardini attorno a cui il noir costruisce il suo universo narrativo ed estetico.

E la femme fatale? Una presenza rara, che mal si adatta alla serialità: non torna mai, il suo è un paradigma autodistruttivo. Catherine Tramell (Basic Instinct) è forse l’unica tornata per un sequel (Basic Instinct 2), e l’operazione revival non ha funzionato. Luther (Bbc, 2010 – 2019) è uno dei pochi prodotti seriali a poter vantare una vera dark lady, la psicopatica narcisista Alice Morgan (Ruth Wilson), che tira le fila a latere dell’intreccio (con una presenza altalenante del corso delle stagioni). Altra notevole femme fatale seriale è Villanelle (Jodie Comer) di Killing Eve (Bbc America, 2018): lei incarna e rinnega tutte le femme fatale che l’hanno preceduta. È fantasma delle pulsioni represse che ha già superato l’attentato alla mascolinità (concetto già morto, sepolto e sorpassato) e si configura come agente del caos. 

Il noir – anche nel dispositivo seriale – trova la fortuna nella capacità di sovvertire i ruoli, rinnovandoli e ribaltandoli: è una capacità dinamica che – grazie al meccanismo – sopravvive anche in generi e confini (sociali e geografici) distanti tra loro; si nutre di incertezza, al di là della fotografia in bianco e nero e delle atmosfere fumose anni Quaranta, è un linguaggio che travalica il linguaggio stesso di cui si è nutrito. Né genere né stile, il noir più propriamente è un luogo, lì dove giace la contraddizione.


Lorenzo Peroni

Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.

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