Tutto chiede salvezza, Prisma e Mare fuori sono fiction italiane che, in modi diversi, si sono fatte notare. E alcuni tratti le accomunano: la trasformazione dei giovani personaggi, il desidero di fuga e rinascita.
Mare fuori, Prisma e Tutto chiede salvezza sono tre contenuti seriali che raccontano con molta originalità il passaggio dei giovani protagonisti alla vita adulta. Un periodo in cui si ha la percezione di essere più liberi rispetto alle generazioni passate, di vivere in un mondo senza confini. In opposizione al racconto di questi primi anni Duemila in cui molte cose sono etichettate come fluide e quindi imprendibili, non può sfuggirci che le tre serie sopracitate sono ambientate in luoghi chiusi, soffocanti e limitanti. I tentativi di fuga, l’evasione e l’allontanamento dalle ambientazioni diventano potenti motori narrativi per mostrare la ricerca più antica dalla notte dei tempi: trovare nella trasformazione tipica della crescita, il proprio – libero – posto nel mondo. Nel tempo della massima libertà tecnologica, mentre i confini sono quelli invisibili di internet e quando la corporeità sembra superflua e inutile e per decifrare la società basterebbero i big data, proprio in questi anni in cui a parole sembra che nessuna libertà possa essere negata è successo che tra le serie italiane più seguite sulle piattaforme, tre siano ambientate in posti circoscritti, delimitati e quasi invalicabili. Mare fuori, Prisma e Tutto chiede salvezza si sviluppano in luoghi chiusi e controllati come la provincia, il reparto di un ospedale psichiatrico e un istituto penale minorile. La fuga e l’allontanamento dei personaggi segnano un rito di passaggio, una iniziazione al futuro, e danno vita al viaggio degli eroi e delle eroine. L’originalità delle trame è data soprattutto dal fatto che, tra slanci e rischi, i veri protagonisti delle serie, più che i personaggi stessi, sono i loro corpi.
Tutti abitano i loro corpi come fossero dei rifugi sicuri o usandoli come l’unica lingua con cui possono esprimersi. Il corpo diventa metafora del linguaggio con cui vorrebbero farsi sentire.
La maggior parte delle vicende è quasi tutta concentrata in quelle ambientazioni ed è al loro interno che i protagonisti subiscono lo stress narrativo: troviamo ragazzi affetti da sindrome bipolare, adolescenti in cerca dell’identità sessuale, autolesionisti e piromani, piccoli ladri o aspiranti criminali che o vorrebbero vivere una sessualità libera e lontana dallo stereotipo del criminale machista o lo vorrebbero incarnare appieno. Molti sono giovani coraggiosi che rinnegano l’appartenenza originaria, alcuni addirittura imparano un dialetto e si trasformano completamente agli occhi dei propri genitori. E poi ci sono ragazze e ragazzi senza troppa voglia di andare a scuola, perennemente pieni di dubbi, reginette talentuose e neo-adulti cresciuti troppo in fretta. Tutti abitano i loro corpi come fossero dei rifugi sicuri o usandoli come l’unica lingua con cui possono esprimersi. Per alcuni il corpo diventa metafora del linguaggio con cui vorrebbero farsi sentire e comunicare.
Traumi e ferite
Guardando le serie si ritroveranno gli adolescenti di questi nostri tempi tecnologicamente tormentati, con gli smartphone sempre in mano, come fossero un prolungamento delle dita e delle loro menti. Sempre lì ad aspettare messaggi in chat, telefonate e a scambiarsi vocali, tante parole e tante lacrime. Immancabili ci sono gli scontri con gli adulti – genitori, educatori, medici eccetera – con cui raramente si riesce a trovare anche una complicità inattesa. I loro corpi, però, ingombranti, a volte pieni di troppa forza o del tutto inospitali, sono lì a ricordare il senso di finitezza e di inadeguatezza tipico di quell’età, perché i corpi subiscono una metaforica, ma non tanto, forza di gravità e quando sono illuminati dalla realtà quotidiana, producono e proiettano le loro ombre. Sono quelle ombre che gli sceneggiatori usano per sviluppare le dinamiche narrative che svelano lo sforzo della crescita. E i loro corpi, e anche quelli degli adulti con cui si confrontano, subiscono ferite, traumi e riportano le cicatrici del viaggio.
Con le loro azioni, infatti, possono mettere a rischio la libertà e finire in carcere (Mare fuori), possono morire se non accettano le cure (Tutto chiede salvezza), o rischiano di ritrovarsi in un corpo ostile, se non accettano di lottare per affermare la loro vera identità (Prisma). Nell’avventura della crescita sono quasi esclusivamente i loro corpi a rischiare il tutto per tutto. Per ogni protagonista o antagonista, anche di quelli adulti, il corpo è l’unico strumento utile per prendere le misure e partecipare con consapevolezza al mondo, l’unico mezzo per raggiungere la prossima meta che, spesso, ancora non esiste.
In quasi tutte le dinamiche di queste fiction, come nella maggior parte della vita di ciascuno di noi si potrebbe aggiungere, il corpo è il primo strumento per interfacciarsi con il mondo. Per citare l’artista Olafur Eliasson, siamo un apparato sensorio che esplora la realtà ciascuno con i propri desideri, ricordi, pensieri, insicurezze, pulsioni e passioni. Il viaggio di ciascun protagonista concorre alla ricerca del sospirato e agognato posto nel mondo – archetipo di ogni romanzo di formazione. Raggiungere quel luogo che, accogliendoli, li farà sentire se stessi per i personaggi non è semplice. I diversi set delle tre serie, chiusi e coercitivi, potrebbero essere letti come metafore della società del controllo, dove tutto è registrato e sorvegliato, ma ai fini narrativi sono utili a caricare i protagonisti di audacia e coraggio per mostrarne l’anelito alla libertà, un ulteriore motore narrativo per sottolineare il rito di passaggio verso un ambiente diverso da quello di provenienza. La posta in gioco per tutti è sempre come una roulette russa, un prendere o lasciare: per cosa vorrebbero vivere o si lascerebbero morire?
Libertà (im)possibile
Cercano la libertà di poter amare chi si vuole e si desidera (Prisma), di avere un lavoro fondato sulle proprie passioni, di poter superare le distanze territoriali, le differenze sociali o di abbattere le mura del carcere perché è ingiusto che quello sembri essere l’unico destino (Mare fuori). Oppure cercano di spalancare le porte del reparto psichiatrico, di poter raggiungere una stanza dove assaporare una tenerezza mai provate prima, una vita rallentata dove la performance non è dirimente (Tutto chiede salvezza). E ancora: cercare di abbandonare la provincia, chiusa, bigotta e fascista, per guadagnare un posto nella grande città dove potersi trasformare senza avere addosso gli occhi di chi ti conosce (Prisma). Nelle tre serie un posto particolare lo occupano la poesia, la musica e anche la preghiera che diventano gli strumenti liberatori per esprimersi facendo esplodere al massimo il climax narrativo di tutti i caratteri. Una liberazione che per i protagonisti è quasi sinonimo di salvezza.
Tanti di noi, nelle nostre case che prima del Covid ci sembravano dei rifugi, abbiamo fatto esperienza del confinamento, abbiamo desiderato evadere, trasgredire alle regole per affermare le nostre libertà. E allora probabilmente il successo di queste tre serie, a posteriori, può essere spiegato anche come un desiderio di esorcizzare quelle sensazioni, perdute ma non lontane.
Come spesso accade nelle serie di ambientazione carceraria o di liberazione da una situazione di costrizione, lo spettatore si ritrova tra le due forze narrative principali, una centrifuga e una centripeta. Quella centripeta, come se fosse la forza di gravità, è quella contro cui combattono i protagonisti, quella che li tiene al chiuso o legati alla loro realtà, ed è la forza narrativa che ci permette, come spettatori, di indugiare nelle fatiche dei singoli eroi, di giustificare, quasi fosse un guilty plesure, l’ennesimo cliffhanger che stresserà ancor di più i vari protagonisti e permetterà alla serie di continuare. La forza centrifuga invece porta alla libertà, va verso l’esterno, verso il cambiamento in positivo per il protagonista e verso la risoluzione dei conflitti, ma ci porterebbe anche verso il finale di un’intera serie o di una stagione. Questa forza è quella contro cui combattiamo noi spettatori che vorremmo le serie non finissero mai. A volte è difficile provare il processo di immedesimazione totale, se non per alcuni sviluppi narrativi, e per assurdo se da una parte sembriamo tifare per i protagonisti, dall’altra ci rendiamo conto che la soluzione ci porterebbe alla conclusione delle vicende.
Noi spettatori, difficile non pensarlo, durante la pandemia abbiamo provato cosa volesse dire essere obbligati a vivere le nostre quotidianità in ambienti chiusi, invalicabili, quasi come fossimo imprigionati. Tanti di noi, nelle nostre case che prima del Covid ci sembravano dei rifugi, abbiamo fatto esperienza del confinamento, abbiamo desiderato evadere, trasgredire alle regole per affermare le nostre libertà. E allora probabilmente il successo di queste tre serie, a posteriori, può essere spiegato anche come un desiderio di esorcizzare quelle sensazioni, perdute ma non lontane, provate mentre eravamo obbligati a vivere tra quattro mura. Queste tre serie parlano anche di noi e della nostra trasformazione e ci ribadiscono l’importanza di liberare i corpi dai pregiudizi, dalle troppe aspettative della società e delle famiglie. Solo una volta liberi, come per i protagonisti, si possono abitare nuovi corpi e si può costruire e abitare un mondo diverso. Non è questo il senso del cambiare, del trasformarsi e del diventare grandi?
Salvatore Ditaranto
Si occupa di marketing, ideazione di contenuti video per app e canali tv in Rcs. È appassionato di arte e di letteratura e scrive per magazine e testate online.
Vedi tutti gli articoli di Salvatore Ditaranto