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Il k-drama alla conquista del resto del mondo

Seconda parte dedicata al successo del k-drama. Dopo Cina e Giappone, la marcia della Korean wave 2.0 va verso l’Europa, l’America Latina e gli Stati Uniti.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 21 - Distretti produttivi emergenti del 05 giugno 2017

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Nel nuovo millennio, le serie tv coreane hanno iniziato una lunga marcia alla conquista di nicchie di mercato sempre più consistenti nei paesi stranieri. In un primo momento c’è stata una forte diffusione in Cina, Giappone e altri paesi dell’est asiatico. Oggi però le serie coreane iniziano a diffondersi anche in Europa e Stati Uniti, oltre ad aver trovato una base solida di appassionati nei paesi arabi e in quelli latino-americani. Iran, Giordania e Arabia Saudita consumano avidamente le serie coreane. Il boom è cominciato con la messa in onda di Jewel in the Palace (anche nota come Dae Jang Geum), originariamente trasmessa in Corea nel 2003. Ambientata sul finire del XV secolo, durante la dinastia Joseon, racconta di un’aspirante cuoca orfana che si fa strada nella cittadella imperiale fino a diventare il primo medico di corte donna. Gli avvenimenti storici sconosciuti, uniti al colore delle vesti tradizionali e alla novità della cucina tradizionale coreana, esercitano una fascinazione esotica. Ma è soprattutto l’innocenza della messa in scena a favorirne la diffusione in società più restrittive e tradizionaliste. Jewel in the Palace e le altre serie importate in questi paesi sono considerate libere da influenze nefaste per i giovani, adatte per l’intera famiglia riunita davanti alla tv. Un discorso diverso vale per paesi come il Perù e il Brasile, in cui le serie coreane devono vedersela con l’agguerrita concorrenza delle telenovelas. Ma anche qui i prodotti coreani sembrano potersela cavare, capaci di creare uno spazio affettivo per un pubblico smaliziato, alla ricerca di un intrattenimento semplice, ma con alta qualità produttiva.

Circolazione social

Per promuovere questo interesse, le compagnie coreane sfruttano al meglio le nuove tecnologie, in particolare i social media. È la korean wave 2.0. Su YouTube si trovano sempre più video ufficiali di gruppi k-pop con i sottotitoli in inglese, per facilitare la comprensione dei testi, mentre si diffondono viralmente video amatoriali provenienti da ogni angolo del globo che ripropongono le coreografie delle canzoni più famose. In aggiunta, è molto semplice guardare le serie gratuitamente e legalmente. Sul modello di Crunchyroll.com, mirato a diffondere l’animazione giapponese, sono nati Dramafever.com, limitato agli Stati Uniti, e Viki.com (unione di video e wiki). Qui il pubblico occidentale può sperimentare decine di serie coreane con tanto di sottotitoli localizzati. Dramafever ha superato il milione di utenti, Viki ha quasi raggiunto i 30 milioni. Sfruttando la passione dei fan, le serie sono tradotte dagli utenti, in un lavoro collaborativo che porta alla creazione di sottotitoli in quasi 50 lingue, italiano incluso. I dati di connessione di Dramafever – che ha aperto una collaborazione con uno dei maggiori fornitori VOD statunitensi, Hulu – permettono di sfatare qualche mito: la penetrazione delle serie coreane riguarda entrambi i sessi (52% donne, 48% uomini) e non coinvolge solo gli immigrati asiatici (il 70% degli utenti è caucasico). Grazie a lungimiranti accordi con i distributori, i due siti permettono di vedere in streaming centinaia di episodi, al prezzo di qualche interruzione pubblicitaria e di un’attesa di qualche settimana per le novità. Per i più impazienti, sono comunque previsti piani di abbonamento mensili.

La più longeva e rispettata tra le sceneggiatrici resta Kim Soo-hyun, attiva dagli anni Settanta a oggi, considerata la regina della serialità e nota per assalire gli attori che modificano le parole presenti nel copione. Si racconta che, durante la messa in onda dei suoi show, su Seoul cali un inquietante silenzio, perché sono tutti incollati davanti alla tv.

È anche tramite questi mezzi che serie pensate per le nuove generazioni come Full House, del 2004, o Boys over Flowers, del 2009, hanno raggiunto un’audience globale trasformandosi in fenomeni di costume. Entrambe sono tratte da fumetti: la prima da un manhwa di Won Soo-yeon, la seconda da un manga di Yoko Kamio. In Full House un’aspirante sceneggiatrice, Ji-eun, si ritrova senza casa, venduta a sua insaputa mentre lei è in vacanza. Durante il viaggio Ji-eun conosce un famoso attore, Young-jae, e al rientro scopre che è proprio lui il nuovo proprietario della casa. Decisa a ricomprare la proprietà, Ji-eun inizia a lavorare come domestica per Young-jae. Cercando di far ingelosire la ragazza di cui è innamorato, l’attore propone però a Ji-eun di sposarlo, con un contratto di sei mesi. La serie ha avuto un seguito incredibile, portando a numerosi remake locali in Vietnam, Filippine, Tailandia, Cambogia e Turchia.

Scrittura al femminile

Il fatto che la protagonista di Full House sia una sceneggiatrice non è casuale: la stragrande maggioranza delle serie coreane è scritta da donne, mentre i registi sono quasi sempre uomini. Tra le sceneggiatrici più quotate ci sono le sorelle Hong, Jun-eun e Mi-ran, dal particolare piglio comico; Kim Eun-sook, famosa sia per mélo patinati come Lovers in Paris (2004) che per commistioni più fantasiose come Secret Garden (2010), sulla classica inversione di corpo tra una donna e un uomo; e Park Ji-eun, che in My Love from the Star (2013) racconta di un alieno sulla Terra da quattro secoli che nella Corea odierna si innamora di un’attrice. La più longeva e rispettata tra le sceneggiatrici resta però Kim Soo-hyun, attiva dagli anni Settanta a oggi, considerata la regina della serialità e nota per assalire gli attori che modificano le parole presenti nel copione. Si racconta che, durante la messa in onda dei suoi show, su Seoul cali un inquietante silenzio, perché sono tutti incollati davanti alla tv.

Boys over Flowers, scritto da un’altra donna, Yoon Ji-ryeon, è un franchise ancora più complesso. Il manga, serializzato tra 1992 e 2003, ha venduto oltre 55 milioni di copie. Prima della trasposizione coreana, aveva raggiunto il piccolo schermo in forma di anime (1997) e poi di serie giapponese dal vivo (2005-2007). Esisteva anche una versione taiwanese, intitolata Meteor Garden (2001-2002). Hanno tutte avuto un enorme successo, ma nessuna ha raggiunto la notorietà della versione coreana. Jan-di sta facendo una consegna per la tintoria di famiglia nella scuola più elitaria della Corea, quando impedisce a un ragazzo vittima di bullismo di suicidarsi. Per evitare scandali, la scuola offre una borsa di studio alla ragazza, che ha così la possibilità di entrare in un mondo di privilegi. Ben presto Jan-di scopre che la scuola è in mano agli F4, quattro (bellissimi) rampolli delle famiglie più ricche del paese, temuti anche dagli insegnanti. Jan-di però non si fa intimidire e stringe un legame con due di loro. La popolarità della serie coreana ha dato vita a un culto, con i giovani di mezza Asia pronti a imitare i loro idoli nei vestiti e nel taglio di capelli. Lo dimostrano le cronache di Singapore, città-stato in zona equatoriale: dopo la messa in onda, i fan andavano in giro con le sciarpe alla moda degli F4, incuranti del caldo umido.

Se nella prima fase della korean wave le serie erano percepite come un compromesso di valori tradizionali e consumistici, con storie dal sapore familiare e appeal intra-generazionale, oggi la produzione è più segmentata. Le serie più trendy puntano a incuriosire un pubblico giovane e globalizzato. La semplicità di fondo e il richiamo a concetti idealizzati come l’amore puro restano costanti, ma si mescolano a temi alla moda in cui imperano street style, cellulari, vaghi ideali artistici e spleen esistenziali. I protagonisti sono sempre giovani e bellissimi, con volti acqua e sapone e capelli fluenti, mentre le storie hanno un sapore più pop, non a caso ispirate volentieri a fumetti nati sul web, come nel caso del sorprendente successo di Misaeng (letteralmente “non ancora”), del 2014, prodotta da tvN, che ha registrato un record di ascolti per le tv via cavo, passando da una media dell’1,3% di share del primo episodio a una dell’8,4% per l’ultimo; o il recente Cheese in the Trap, sulla difficile relazione tra due studenti universitari, andato in onda a inizio 2016 sempre su tvN e ispirato a un web comics di Soonkki.

Le serie coreane sentimentali riescono a entrare in tutti i mercati, sfruttando caratteri diversi a seconda del luogo. Per i paesi asiatici vale un discorso di prossimità culturale, per quelli economicamente avanzati conta l’effetto nostalgico, che fa riferimento alla purezza dei sentimenti rispetto alle più aspre serie occidentali, mentre in altri contesti ancora subentra un principio di desiderio, per cui le serie rappresentano una vetrina consumistica al momento irraggiungibile dagli spettatori. In ogni caso le serie coreane puntano consapevolmente all’ibridazione culturale tra Occidente e Asia, proponendosi come nesso tra un passato ideale di relazioni semplici e dirette e un presente fiabesco di consumi illimitati.


Stefano Locati

Dottorando in Letterature e media, è giornalista e studioso di cinema asiatico. Ha fondato i siti asiaexpress.it e hkx.it. Ha scritto, con Elena Canadelli, Evolution. Darwin e il cinema (2009) e, con Emanuele Sacchi, Il nuovo cinema di Hong Kong (2014).

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