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Frammenti

Il marziano contro tutti

La televisione, la sua storia, ma anche i ricordi, le vite di tutti noi. Un intreccio costante. Prosegue il percorso d’autore attraverso i decenni. Con la tv di Carmelo Bene e il palco del Maurizio Costanzo Show.

Tutto è cominciato così, negli anni Settanta e tutto, poi, è confluito magnificamente nel Costanzo Show, una sera di fine giugno, nel 1994, su Canale 5. Comunque, dicevamo, è cominciato nel 1974 (avevo otto anni). Allora seguivo con trepidazione la serie Ufo. In quella serie si immaginava che in un futuro non lontano (e cioè nel 1980) la Terra fosse sotto la minaccia di alieni (di colore verde, respiravano mediante un liquido, verde anche esso. Il sibilo dei loro dischi volanti, opera di Barry Gray attraverso i primi sintetizzatori elettronici, lo risento ancora, in qualche notte insonne). A contrastare la minaccia c’è la base Shado. Il comandante in carica era Edward Straker (l’attore Ed Bishop). Un personaggio strano: caschetto e frangia e capelli color biondo platino (la tv era in bianco e nero, ma collezionavo figurine della serie, a colori). I dischi volanti, gli alieni verdi, il sibilo, i raggi laser, enormi computer, il futuro minaccioso dallo spazio profondo, tutto questo alimentava la mia infanzia e la fantasia e pensavo: che sarà di me quando arriveranno gli anni Ottanta?

Tempo dopo, eravamo nel 1977 o giù di lì, un pomeriggio accendo la tv (un Grundig portatile in bianco e nero), ho un po’ di svogliatezza, quegli attacchi di noia che colpiscono gli undicenni, allora mi piazzo davanti allo schermo e chi mi appare? Il comandante Straker, in primo piano. Faccione enorme e frangetta. Recitava una poesia, credo. La sua voce era una specie di rantolo, sembrava stesse male, poi cambiava, diventava un sussurro, poi ancora un sibilo nasale. Avevano rapito Straker? Poi passa mio padre e sbuffa: madonna questo. Chi è? Chiedo. Mah… uno… uno che quando parla non si capisce niente, Carmelo Bene. Vero, forse, non capivo, ma piano piano mi ritrovai con la bocca aperta ad ascoltare questo Carmelo Bene/Straker. E poi successe: Bene (o Straker) mi guardò. Dallo schermo tv, dico. Come se volesse darmi il benvenuto: nel magico mondo del buio e dell’incomprensibile. E ci sono entrato, da quel giorno, incantato dalla musicalità di questo strano attore che non somigliava a nessun attore che fino a ora conoscevo, ho cominciato a seguire, quasi a ogni apparizione televisiva e non, e ogni volta ne ho tratto gran giovamento: era un triplo spettacolo, musicale, intellettuale, estetico.

A proposito di musica. Nel 1982 lo vidi a Mister Fantasy, intervistato da Mario Luzzatto Fegiz. Parlava di Pinocchio ed elogiava l’orecchio musicale dei bambini, il solo capace di percepire lo spavento, l’irrimediabile spavento della bara precoce, diceva una cosa così. Questione di orecchio, quindi. Da poco mi ero comprato un apparato stereo, alta fedeltà. Alla mia discografia che comprendeva rock americano e inglese e la nascente new wave inglese, aggiunsi due album di Carmelo Bene, la Lectura Dantis, in occasione del primo anniversario della strage di Bologna – con quella splendida dedica finale: dedico questa serata, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti dell’orrenda strage. E poi quattro diversi modi di morire in versi: Blok, Majakovskij, Esènin, Pasternak, una meravigliosa cavalcata sonora attraverso l’utopia sovietica, per bocca di quattro poeti, tra lirismo, follia e senso del futuro, tra vita e morte: ascoltavo quelle sonorità, era come un bagno, il sudiciume andava via.

Bene (o Straker) mi guardò. Dallo schermo tv, dico. Come se volesse darmi il benvenuto: nel magico mondo del buio e dell’incomprensibile. E ci sono entrato, da quel giorno, incantato dalla musicalità di questo strano attore che non somigliava a nessun attore che fino a ora conoscevo, ho cominciato a seguire, quasi a ogni apparizione televisiva e non, e ogni volta ne ho tratto gran giovamento: era un triplo spettacolo, musicale, intellettuale, estetico.

Oltre alla sua capacità di fare storia attraverso la letteratura e letteratura attraverso la poesia, c’era la sua phonè. Per quello che ne capivo e studiavo all’epoca, Carmelo Bene amplificava, dilatava la sua voce, non per gonfiarla ma per ridurla, non per potenziare l’io ma per annullarlo. Come quando leggiamo: se avviciniamo il più possibile il foglio a noi, alla fine non vediamo più niente – diceva Bene. Era quello il suo intento principale: il niente, buio, l’irrappresentabile. Solo se facciamo scomparire i tratti noti, i contorni definiti, i modelli e ritmi soliti di recitazione (che noia re/citare un testo) possiamo cambiare la nostra percezione. Una volta lo ascoltai, sempre in tv, e ora vatti a ricordare che programma era, una lettura di Giacomo Leopardi, “Il sabato del villaggio”. Che tra l’altro a scuola mi annoiava tantissimo: il pessimismo storico, cosmico, e poi l’ermo colle, non ci capivo niente. Invece, con la lettura di Bene fu come ascoltare, anzi come vedere concretamente accanto a me un altro Leopardi, un mio amico. Nel finale della lirica, Bene quasi gridava: godi fanciullo mio stato soave. Non dimenticherò mai quell’accorato amplificato grido di battaglia: la vita strazia il cuore – sembrava dire Leopardi e Bene faceva da medium – non c’è soluzione allo strazio, allora combatti. Certo il combattimento non è sufficiente, ma è una condizione necessaria. Andavo malissimo a scuola, sempre rimandato, ma quel grido di battaglia perlomeno trasformò sia i miei sabati sia il mio rapporto con lo studio. 

Lo vidi (vatti a ricorda in che programma) cantare l’Ulisse dantesco e lì specificava che la virtù era una disposizione d’animo ovvia nel Trecento, invece la conoscenza faceva paura, quindi, tradotto, al contrario di quanto facevano altri, le ultime parole di Ulisse “fatti non fosti per vivere come bruti”, si cantavano sottolineando la forza della virtù ma facendo tremare e vibrare e rendendo così inquieta la canoscenza (come parlare in un anfratto, rimbombava tutto). Carmelo Bene insomma scavava dentro di sé o guardava oltre, cercava modi barbarici di porgere il verso (così, per distruggere gli accampamenti oziosi dove si rifugiavamo: il già detto, l’ovvio, la comprensibilità senza sforzo) e allora sussurrando, masticando, cantilenando gridando, il già noto esplodeva: l’ovvio con il quale ci consolavamo decadeva. Si aprivano spazi deserti, ovvero incomprensibili. Tuttavia, se imparavi a muoverti, ad ascoltare i suoni, quel deserto risuonava dentro di te, e i pezzi si ricomponevano in forme insolite e bellissime.

E arrivò dunque il 27 giugno 1994 – in piena euforia per i mondiali – il Costanzo Show, versione uno contro tutti – Bene tornava dopo molti anni di assenza dalle scene, non riusciva a vendere l’Hamlet Suite e aveva bisogno di un lancio sui media e così fu: l’indomani del Costanzo Show gli arrivarono proposte di ingaggio per i due anni successivi – racconta la sua ultima compagna Luisa Viglietti. Comunque, con tutti si intendevano una serie di critici (Anselmi, Volli), giornalisti (Lunardi, Cotroneo, Latella), attori e personalità varie. Il format era chiaro, sotto lo sguardo di Costanzo, con un meccanismo di domande e risposte, i “tutti” (quelli del buon senso) avrebbero messo in difficoltà “l’uno” (il marziano che parlava un’altra lingua). L’uno contro tutti, ossia il trionfo delle micro opinioni, quel tipo di format che ancora oggi regna, andò da subito in corto circuito. Divenne gli infiniti doppi di Carmelo Bene contro la monotematicità dei tanti. Interrogato su fatti privati Bene rispondeva sul piano esistenziale, pressato dai giornalisti ribatteva che la stampa informa dei fatti non sui fatti, sollecitato sull’impegno rispondeva “me ne fotto del Ruanda” (facendo sentire a tutti il gelo del nostro costante disimpegno), invece di ascoltare le opinioni degli interroganti faceva notare che non solo erano microopinioni ma il dramma era un altro: le microopinioni fondano la democrazia che diventa demagogia, un tema che ancora oggi fatichiamo ad accettare. Il gioco della botta e risposta, dunque, saltò. Bene ruppe le fondamenta: io non esisto e non sono qui, ho preso a calci in culo me stesso, mi sono fatto a pezzi, maledico mia madre che non mi ha abortito. Annullandosi fece da schermo, così che riempimmo la pagina vuota con le nostre parole che tuttavia si ingolfarono perché, visto le premesse, non trovarono benzina.

Era quello il suo intento principale: il niente, buio, l’irrappresentabile. Solo se facciamo scomparire i tratti noti, i contorni definiti, i modelli e ritmi soliti di recitazione (che noia re/citare un testo) possiamo cambiare la nostra percezione.

Carmelo Bene parlava per citazioni di citazioni di citazioni e solo per ribadire che non parliamo ma siamo parlati (non si informi – diceva – si disinformi), oppure smontava il tutto attraverso il coltissimo turpiloquio: non parlo di ontologia, parli con il signor Heidegger e vada a fare in culo. E si permise momenti di grande verità tragica, la democrazia garantisce l’invivibilità della vita, non la risolve, chi sceglie la libertà sceglie il deserto. Oppure: la vera libertà è libertà dal lavoro non del lavoro. O ancora: questi non sono giochi di parole, sono schiaffi alla vita puttana. Insomma, aspettavamo il climax noto, la risoluzione, la redenzione, la confessione e tutti gli altri escamotage narrativi che costruiscono una storia, e invece ci trovammo su un ramo narrativo di cui nemmeno sapevamo l’esistenza: il panorama era un deserto, perché era saltato il landscape tradizionale (un po’ come quando andiamo a teatro solo per ascoltare Amleto declamare essere o non essere e troviamo Bene/Amleto che scarta un bacio Perugina e legge velocemente le prime righe del monologo, per poi buttare il tutto).

Attraverso l’anomala narrazione di Bene, siccome ne eravamo incantati ci avvicinammo allo schermo e lo schermo si avvicinò a noi, perdendo così le distanze consuete e tipiche, i contorni si sfocarono, le immagini traballarono, le voci si fecero confuse, saltò tutto e all’improvviso non vedemmo più niente, quindi vedemmo tutto: il nostro linguaggio si mostrò per quello che era ed è ancora, bacato. Lo infestano i luoghi comuni e il sempre presente ovvio che rimanda al già noto e dunque all’immobilità del linguaggio stesso. L’arte ne subisce le conseguenze, perché quello strumento che dovrebbe svelare altro non fa che ribadire l’ovvio. Risultato di quella serata? Una media di ascoltatori intorno a 1.003.000, e share di 16,63, e 6 milioni di contatti per almeno un minuto. Molte proteste, soprattutto da parte del pubblico mattutino (quando il Costanzo andava in replica). Perché non avete cambiato canale?, chiese Costanzo. “Non riuscivamo a staccarci dal video” e “Volevamo vedere fin dove sarebbe arrivato”, furono le risposte, citate da un articolo di Repubblica dell’epoca. Carmelo Bene guardava la televisione ininterrottamente e la televisione negli anni a venire si sarebbe riempita di talk e di opinioni, spesso sorrette da quel linguaggio bacato che Bene faceva per tutto per amplificare smontare, capovolgere, affinché guardassimo la materia brutale dei nostri sogni. Anche per via di quella serata al Costanzo, ho seguito Bene come spettatore in tanti suoi spettacoli: bisognava farci l’orecchio ma ne vale la pena.

Ho visto anche La figlia di Iorio all’Argentina, l’ultima recita romana. Ero seduto all’ultimo palchetto, in alto alla destra del palco: tutto esaurito. L’avevo visto entrare abbastanza malconcio. L’avevo visto poi piegarsi per prendersi gli applausi e poi, all’improvviso, aveva alzato la testa e puntato lo sguardo su di me: mi ha sorriso e salutato con la mano. Ho ricambiato, come se lo conoscessi da sempre, era Straker per me bambino e un uomo stremato ora, sul palco che per tutta la vita, da marziano ha difeso la Terra dagli alieni dell’ovvio. Gli ho sorriso, e infine, a sipario chiuso, ho capito che mi aveva guardato due volte, all’inizio e alla fine, sarebbe morto da lì a poco, ma tanto tutto comincia quando si è già alla fine.


Antonio Pascale

Giornalista e scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con Il Mattino, Lo Straniero e Limes. Tra le sue opere: La città distratta (1999), La manutenzione degli affetti (2003); S'è fatta ora (2006), Le aggravanti sentimentali (2016).

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