Per gli adolescenti di vent’anni fa, la serie di riferimento era Dawson’s Creek. Per quelli di oggi, le stagioni di SKAM Italia. Tutto è cambiato, nel frattempo, e per una volta è decisamente meglio così.
Persuadersi, durante una pandemia mondiale, che nonostante tutto l’umanità stia progredendo è possibile. Soprattutto se sei over trenta, se durante la quarantena hai scoperto SKAM Italia e se ti ricordi che il teen drama della tua adolescenza era Dawson’s Creek. Credo che le vittime di quella serie dovrebbero incontrarsi e parlarne, come si fa nei gruppi di mutuo aiuto che lavorano sui lasciti di catastrofi lontane ma determinanti. Ideata dallo sceneggiatore Kevin Williamson sul finire degli anni Novanta, Dawson’s Creek è trasmessa su Italia 1 dal 2000 al 2003: subito dopo pranzo, tempo di buttare la cartella, trangugiare un piatto di pasta e rispondere “niente” all’adulto di turno che ti chiede cosa hai fatto a scuola. Per tre lunghissimi anni – che per me e il regista di SKAM Italia, bimbi di metà anni Ottanta cresciuti senza internet, hanno coinciso circa con il periodo che va dai 14 ai 17 –, 128 episodi distribuiti su 6 stagioni, pari a più di 5 mila minuti di montato (pubblicità escluse) ci hanno illuso che sì, un giorno Dawson Leery e Joey Potter avrebbero accettato di non essere solo amici, ma di amarsi.
In età adulta non ho più rivisto un episodio intero, ma mi porto ancora dentro l’estenuante attesa per il primo bacio tra i due: un elastico narrativo teso fino alla crisi di nervi, con Joey che si arrampica tutte le sere alla finestra di Dawson e lui che niente, mette su dei Vhs e le parla di Steven Spielberg. Ogni santa volta. A interrompere l’idillio cinefilo tra i due casti promessi di Capeside (l’immaginaria cittadina lacustre dell’East coast in cui si svolgono “i fatti”) ci pensano Pacey Witter, figlio ribelle del capo della polizia locale (ribelle nel senso che ogni tanto beve una birretta) e Jen Lindley, la “scafata” che viene dalla Grande Mela e mal si adatta ai costumi della provincia, sebbene la nonna giovanile che la ospita si mostri accondiscendente verso il suo passato, che non si sa bene perché si desume torbido. A questo punto gli opposti si attraggono – il ragazzaccio Pacey rapisce Joey con dispiacere malcelato di Dawson, la ragazzaccia Jen si prende Dawson con dispiacere inespresso di Joey – fino a quando, con i nostri già adulti, al tramonto della sesta stagione penitenziale “Dawson e Joey chiariscono la natura del loro rapporto: sono due anime gemelle il cui legame è più forte dell’amicizia e persino dell’amore e destinate a stare insieme in una realtà ultraterrena per sempre” (così il riassunto di Wikipedia, ahinoi fedelissimo).
Col senno di poi
Ora, porca miseria, mettiamoci nei nostri panni di allora. Quale messaggio abbiamo trattenuto da un polpettone cucinato così? A quattordici anni l’idea che esista un legame più puro dell’amicizia e dell’amore, le due dimensioni su cui si esercita purezza tutti i giorni e con foga, non fornisce una grande bussola esistenziale. E infatti io ricordo, nitido e solo, un grande senso di colpa: per la continua confusione delle nozioni di “amica” e di “desiderio” (le categorie che Dawson tiene separate con zelo maniacale), e più in generale per il frullato che sentivo vivo e operante in me, un casino interiore che non trovava nessun riscontro nella love story d’avorio che la collocazione di rete e di palinsesto rendeva irrinunciabile, sebbene già allora avevo chiaro che quella somministrazione quotidiana non mi facesse affatto bene. Lustri dopo ho ricostruito il disegno politico-educativo che ha favorito l’importazione di Dawson’s Creek nel nostro canale per giovani, secondo una meccanica collaudata che ancora oggi traduce il moralismo americano di matrice evangelical nel bigottismo misto cattolico all’italiana: Trump nei rosari. E davvero fa un po’ sorridere chi storicizza l’avanguardismo di quel prodotto contrapponendolo al puritanesimo programmatico di Seven Heaven, o portando a testimone l’omosessualità di Jack McPhee, personaggio secondario che sopraggiunge dalla seconda stagione: perché l’unica cosa che ci ricordiamo di lui è il suo colossale senso di colpa per essere quello che è, e le scene in cui si parla chiaramente del fatto che a lui, ragazzo, piacciono i ragazzi furono tagliate di netto. Sai, altri tempi, il Milan di Silvio vinceva ancora le Champions e Ruby e le Olgettine erano alle elementari…
Quindici anni dopo questa autentica tortura generazionale – resa ancor più incidente dalla mancanza di alternative mediali –, e dopo i successi di altri teen drama americanissimi, da The O.C. a Gossip Girl, all’alba degli anni Venti il genere torna in auge e dalla Norvegia arriva in soccorso SKAM. Una parola che in vichingo significa “vergogna”: il sentimento numero uno dell’adolescenza, ammesso nel titolo a mo’ di primo step per superarla. La creatrice della serie è Julie Andem, aveva poco più di trent’anni, e su mandato del servizio pubblico norvegese (ripeto: su mandato del servizio pubblico) ha ritagliato storie e personaggi dalla realtà, intervistando decine di sedicenni di oggi a cui ha chiesto cosa sia importante per loro, quali siano i loro pensieri, desideri, problemi. In SKAM drama e comedy si fondono nel nome della verosimiglianza: gli episodi sono corti (in media venti minuti), in linea con le odierne soglie di attenzione ma anche per lasciarti sempre il giusto appetito; fotografia e cronologia degli eventi riproducono l’estetica di un profilo Instagram, e tutto lo storytelling è affidato a più media, visto che il sito della serie e i profili social dei personaggi disseminano contenuti coerenti alle date e orari indicati negli episodi. Una costruzione crossmediale che paradossalmente ha riprodotto la fruizione sincronica e “di comunità” che fu di Dawson’s Creek, con l’apprezzabile differenza che i personaggi di SKAM parlano come chi li guarda, non come sceneggiatori quarantenni colti di cinema. E soprattutto: evolvono.
Dal 2018 il compito di calare questo format nord-europeo nel contesto italiano è assolto con pregevole disinvoltura dal regista e showrunner Ludovico Bessegato (già noto per Il candidato e altri lavori). Nella produzione di TIMvision – oggi integralmente disponibile su Netflix, dove il 15 maggio scorso è uscita la quarta stagione – temi e personaggi restano gli stessi, ma la spremuta vincente è versata in un liceo di Roma, vera protagonista aggiunta. Eva, Gio, Martino, Niccolò, Eleonora e Sana si muovono agili, impreparati e divertenti (capito Dawson? divertenti!) su problemi più grandi di loro, ingooglabili perché interiori: attraverso la storia tra Eva e Gio la prima stagione indaga la relazione tra amore, amicizia e tradimento; con Martino e Niccolò ci addentriamo in omosessualità e malattie mentali (lontanissimi dall’ipotesi che tra le due sfere ci sia una relazione, quale autore italiano avrebbe mai azzardato l’affiancamento di queste due tematiche?); attraverso i verdissimi occhi di Eleonora viviamo e superiamo la tragedia del revenge porn; insieme a Sana affrontiamo la relazione tra donna e Islam, fede e laicità. Ed è proprio su quest’ultimo personaggio che la serie dà il meglio di sé.
E alla fine arriva Sana
Sana crede in Allah, frequenta la moschea e porta il velo. La sua famiglia, italo-tunisina ma di seconda generazione (già la mamma di Sana è nata in Italia) sarebbe stata disponibile a farla andare a scuola senza hijab ma Sana è come è: sopporta il giudizio delle sue amiche musulmane quando esce con le sue compagne di liceo e sopporta il giudizio di queste quando si rifiuta per esempio di bere, sviluppando un brutto carattere che, questo sì, rischierà di privarla delle sue relazioni. Insomma, per una volta abbiamo la religione slegata dal tema dell’immigrazione e per una volta abbiamo una musulmana italiana presumibile, che soffre il dubbio di essere “un incrocio venuto male” in una società per lei non facilitante, senza per questo scegliere tra drammatiche opzioni binarie o voler dare fuoco al mondo. Sana è a volte triste e a volte arrabbiata, ma non si dipinge mai vittima, neanche quando due coetanei irrompono nel bagno del locale per avere un rapporto sessuale, interrompendo una preghiera improvvisata su un campetto del subbuteo, steso in supplenza del tappetino. Una scena cruda, ma non insulsa, non esilarante, né politicamente orientata, perché non suggerisce né che i giovani occidentali siano dei decadenti né che la preghiera sia una pratica medievale (e Sana per ricordarsene usa un’app).
Ora, nessun adolescente che leggesse questa mia recensione pericolosamente pencolante verso il giovanilismo si avvicinerebbe a questa serie, ma la magia di SKAM è proprio questa: con ascolto e realismo ha conquistato una platea per definizione estenuata dalle descrizioni e dalla pedagogia del mondo adulto. E dire che, lo spiega bene questo articolo della rivista il Mulino, di pedagogia in SKAM Italia ce n’è moltissima, o meglio non in superficie… Mentre empatizza con il disagio multicolore dei suoi coetanei, il sedicenne che guarda SKAM impara come si mette un preservativo (la dottoressa del consultorio lo mostra alle giovani senza strane metafore ammiccanti, utilizzando un pene di gomma adagiato sul tavolo – per chi volesse intonare l’inno norvegese in piedi sul divano qui trovate il testo), impara i commi della legge sulla “pornovendetta” appena varata dal Parlamento (Eleonora li snocciola dinanzi al suo aguzzino sbigottito), impara che la scuola pubblica garantisce uno sportello di ascolto e supporto psicologico. Molto spesso nella cantina delle palestre, ma se ti inoltri c’è. Insomma, mentre si divertono gli adolescenti imparano a non sentirsi soli. Scusate se è poco, avrebbe detto il Maestro.
Eva, Gio, Martino, Niccolò, Eleonora e Sana si muovono agili, impreparati e divertenti (capito Dawson? divertenti!) su problemi più grandi di loro, ingooglabili perché interiori: attraverso la storia tra Eva e Gio la prima stagione indaga la relazione tra amore, amicizia e tradimento; con Martino e Niccolò ci addentriamo in omosessualità e malattie mentali; attraverso i verdissimi occhi di Eleonora viviamo e superiamo la tragedia del revenge porn; insieme a Sana affrontiamo la relazione tra donna e Islam, fede e laicità. Ed è proprio su quest’ultimo personaggio che la serie dà il meglio di sé.
Nelle interviste reperibili su YouTube, gli attori del cast italiano (mediamente classe ’97 e visibilmente più maturi dei personaggi che interpretano) insistono festosi su due punti: uno, l’importanza delle amicizie autentiche strette sul set e dello scambio di opinioni con il regista anche nel merito dei testi (e qui vabbè, potremmo essere nell’antico mito della produzione partecipata, ma visto il risultato non c’è motivo di non credergli); due, il dispiacere per il fatto che “una serie così quando noi eravamo al liceo non c’era”. Credo che questa dichiarazione vada presa seriamente, e che stia qui buona parte del successo di SKAM Italia. Nel bisogno senza epoca che questo prodotto è andato finalmente a colmare.
Per esempio
Da ex spettatore delle inutili verbosità adultoidi di Dawson e compagni, ho ritagliato due sequenze di SKAM Italia, per portarle ai miei compagni di inizio millennio non appena Bill Gates la smette con i vaccini e inventa la macchina del tempo. La prima è un frammento della prima scena d’amore tra Eva e Gio: la camera indugia sui piedi che si attorcigliano e dalle dita di Eva penzolano quegli orribili, puzzolenti, filamenti dei calzini, nemici di ogni primo approccio fisico. Ode al regista che li ha messi al centro, perché al centro erano e al centro rimangono. La seconda è il dialogo tra Sana e Martino, dove la diversità del secondo agevola la comprensione della diversità della prima. La gestione del dialogo è semplice e potente, perché si svolge lontanissimo da quell’atmosfera pietista e un po’ ideologica con cui i prodotti culturali liberal tendono a difendere i discriminati per antonomasia. Sana e Martino non esistono per testimoniare il progressismo di chi li ha creati. Siamo veramente dinanzi a due ragazzini cui è capitato di avere un orientamento sessuale e una fede, e che con i loro mezzi parlano di questa cosa, delle scelte e dei pesi che ne conseguono. Ci sono solo loro nella penombra, e in loro ci siamo tutti.
Sana: “Vuoi provare tu a essere una ragazza musulmana con il velo in Italia? Poi vediamo se non diventi suscettibile”.
Martino: “Sono gay, un po’ di queste cose le so”.
Sana: “Scusa ma è diverso, è vero che c’è un sacco di gente che ti discrimina, ma è anche vero che ci sono un sacco di persone che ti amano e ti seguono anche senza essere gay».
Martino: “Non ti seguo”.
Sana: “Per me non è così… Anche le persone che dicono di stare dalla mia parte, quelle più aperte, che dicono ‘no io non sono razzista’, quando guardano il mio velo alla fine sotto sotto pensano sempre male”.
Martino: “Io non penso male”.
Sana: “Se ti dicessi che per me portare il velo è una scelta femminista? Che mi dici? Te lo dico io, pensi che sono pazza e che il velo è solo una cosa bigotta che mortifica le donne”.
Martino: “Che ne sai di quello che penso io?”.
Sana: “Perché pensate tutti la stessa cosa. Cioè che sono una sottomessa, una che viene oppressa di propri genitori, e se anche vi dico che nessuno mi costringe e mettere il velo, perché è una mia scelta, è una mia scelta arrivare vergine al matrimonio, voi pensate che mi hanno fatto il lavaggio del cervello…”.
Martino: “Però capisci anche che noi tante cose non le sappiamo. Nessuno ce le spiega”.
Sana: “Tipo?”.
Martino: “Tipo, che ne so del perché tu metti il velo se non me lo dici. Io poi non te lo chiedo perché ho sempre paura di fare delle gaffe, ma non so ancora se dire ‘musulmano’ o ‘islamico’ o ‘arabo’, non so se ti posso dare un bacio per salutarti, se posso baciare Nico davanti a te, non so se posso dire ‘cazzo’ davanti a te o ti offendi, non le so queste cose, e se qualcuno te le chiede ti innervosisci”.
Sana: “Mi innervosisco perché sono domande stupide”.
Martino: “Perché pensi che i miei amici non facciano domande stupide a me? Però se ogni volta io non mi mettessi lì a spiegare la differenza tra ‘transessuale’ e ‘gay’ Luchino sarebbe ancora convinto che voglio diventare donna. Se noi vogliamo fargli capire delle nostre differenze dobbiamo dargli delle risposte intelligenti alle loro domande stupide”.
Sana: “Sembri il mio Imam”.
Il dialogo tra Sana e Martino si svolge lontanissimo da quell’atmosfera pietista e un po’ ideologica con cui i prodotti culturali liberal tendono a difendere i discriminati per antonomasia. Sana e Martino non esistono per testimoniare il progressismo di chi li ha creati. Siamo veramente dinanzi a due ragazzini cui è capitato di avere un orientamento sessuale e una fede, e che con i loro mezzi parlano di questa cosa, delle scelte e dei pesi che ne conseguono. Ci sono solo loro nella penombra, e in loro ci siamo tutti.
Forse è questa la seconda forza di SKAM Italia. Forse il suo pubblico non è solo di adolescenti. Forse la sua produzione viene da lontano, da un bisogno che attraversa le generazioni, le società europee, le mutazioni che stiamo vivendo, fatti che solo oggi abbiamo messo in fila in una bella forma adatta ai ragazzi. Se è vero che i maturandi cui il Covid-19 ha sottratto una primavera che non tornerà più sono nati mentre io e Bessegato guardavamo Dawson’s Creek, nella scelta ampia e accurata che la produzione ha fatto delle musiche decifro la proposta di un patto d’amore intergenerazionale. La gavettonata di fine anno che chiude la terza stagione si svolge sulle note dei Blink 182. Mentre guardavo giovani odierni saltellare su What’s My Age Again? – un singolo del 1999, ospitato nel disco rosso di Festivalbar 2000 – mi sono confuso in loro, e ho sentito che i torti di Dawson erano finalmente vendicati.
Nicola Pedrazzi
Nato l'estate di Chernobyl a Bologna, dove vive. Giornalista pubblicista, è redattore della rivista il Mulino e scrive per diverse testate, tra cui Osservatorio Balcani Caucaso, Kosovo 2.0, Riforma, Confronti. Dal 2012 al 2016 ha vissuto e lavorato a Tirana, in Albania: ufficialmente per una ricerca sulle relazioni italo-albanesi durante il comunismo (L'Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti. Gli amici italiani dell'Albania Popolare, Besa, 2017), ma noi sappiamo che era là per seguire Agon Channel.
Vedi tutti gli articoli di Nicola Pedrazzi