Nell’era della wokeness e delle narrazioni significative, ripercorriamo due serie che hanno segnato una generazione di telespettatori con le loro storie di alienazione e cinismo contemporanei.
C’è una sitcom americana che si è conclusa nel 1998, dopo nove anni in onda negli USA, con un finale che ha scontentato tutti gli spettatori e i critici. Ventisei anni dopo, però, ha in un certo senso avuto un altro finale, in un’altra serie. La prima serie è Seinfeld – la sitcom per eccellenza –, la seconda Curb Your Enthusiasm. Entrambe hanno in comune Larry David come autore e produttore. In entrambi i finali recitava Jerry Seinfeld. Le accomunava anche un’altra cosa: la cattiveria.
Cinismo generazionale
Seinfeld, presentato come “un telefilm sul niente”, racconta le inezie quotidiane di quattro trentenni, uno dei quali è uno stand-up comedian come il Jerry Seinfeld che insieme a Larry David ha ideato la sitcom. Per essere una serie sul “niente”, Seinfeld è incredibilmente esaustiva. Non c’è minuzia delle vacue giornate dei protagonisti che non venga messa in scena, dall’attesa estenuante per un tavolo al ristorante cinese al disagio di ritrovarsi nel bagno di un cinema senza carta igienica. E il modo in cui Jerry, Kramer, Elaine e George reagiscono è socialmente e moralmente sbagliato.
Vige la regola del no hugging, no learning imposta da Larry David: i protagonisti non devono imparare dai propri errori, i rapporti tra di loro non devono diventare più complessi. A differenza delle sitcom popolari in quegli anni, come I Robinson o Friends, Seinfeld non è trainata da intrecci sentimentali o vicende familiari. Jerry, Kramer, Elaine e George sono single, vivono da soli e le loro brevissime storie d’amore finiscono per motivi insulsi. Non hanno figli e con i bambini hanno interazioni goffe, quando non condite di disgusto. Nel 1988, la NBC, il network che produce telefilm rassicuranti come Casa Keaton e Cuori senza età, accetta di produrre una sitcom a cui mancano le basi che assicurano agli spettatori di identificarsi.
Per di più, Jerry, Kramer, Elaine e George sono egoisti, si comportano male e ogni tanto fanno qualcosa di politicamente scorretto. Jerry deve difendere il suo pulito e ordinato bilocale nell’Upper West Side dagli assalti anti-igienici del vicino Kramer. Mediamente attraente, mediamente di successo, accudente con i genitori che si trovano a distanza di sicurezza in Florida, Jerry è il bravo ragazzo da sitcom andato a male, non il buon partito ma il trentenne single di un’epoca che non considera più la famiglia la massima realizzazione personale. Jerry parla senza filtri mandando a monte le sue brevi relazioni sentimentali, ma rivendica il suo ripudio delle convenzioni sociali e vive nel totale disimpegno.
Nell’episodio The Cigar Store Indian, Jerry regala a Elaine una statua a grandezza naturale di un indiano d’America col copricapo di piume, salvo scoprire che l’amica di Elaine che vuole corteggiare, presente alla consegna dell’inappropriato regalo, è nativa americana, e da lì in poi inanella una gaffe dopo l’altra. Jerry sembrerebbe il più innocuo dei tre (sua madre infatti si chiede “Come può non piacere a qualcuno?”), eppure a causa di una sua disattenzione un uomo viene deportato in Pakistan. Elaine lascia un fidanzato perché non usa i punti esclamativi, ne molla un altro perché ha lo stesso nome di un noto serial killer newyorkese, ne abbandona un altro ancora perché è rimasto sfigurato dopo un incidente. La sua insoddisfazione la porta a collezionare ben ventinove partner nella serie. Nel personaggio di Elaine, che non si accontenta del primo uomo che trova, sessualmente libera, affermata nel lavoro, si prefigura un prototipo di donna delle serie tv che si vedrà solo più avanti (Sex and the City comincia nel 1998).
In Seinfeld la riluttanza a prendersi le proprie responsabilità, l’incapacità di vedere i propri difetti, l’incaponirsi su questioni minori sono gli elementi che hanno convinto gli americani di ogni età a seguire le storie inconsistenti di quattro newyorkesi insopportabili, e che a malapena si sopportano tra di loro.
Il più meschino è George, che per la sua connaturata tirchieria causa involontariamente la morte della futura moglie, che quando scopre un incendio butta a terra bambini e vecchiette pur di mettersi in salvo, che quando un suicida gli sfonda la macchina gettandosi dal tetto dell’ospedale pensa solo a farsi risarcire il danno. Non potendo contare sull’aspetto fisico o sul successo lavorativo, cerca di apparire migliore di quello che è mentendo. George, basato su Larry David, è divertente, ma pretende di avere sempre ragione e di piacere a tutti. Quando incontra una persona che proprio non lo sopporta (la fidanzata di Jerry) e che non riesce a “convertire”, non vede altra soluzione che quella di innamorarsi di lei. La vita sembra punirlo nelle prime stagioni, tanto che a un certo punto si ritrova disoccupato ed è costretto a tornare a vivere con i suoi, come molti trentenni dei nostri giorni. Kramer, il più eccentrico e inconsapevole dei quattro, traboccante di idee bislacche e a volte geniali, interpretato dal genio della comicità fisica Michael Richards, assume dei senzatetto per trainare dei risciò perché “hanno un’intima conoscenza delle strade” (una battuta che, come ha ammesso Jerry Seinfeld in una recente intervista per il New Yorker, non sarebbe più possibile) e incita l’amico Newman a buttarsi dal balcone, stanco delle sue minacce di suicidio.
La riluttanza a prendersi le proprie responsabilità, l’incapacità di vedere i propri difetti, l’incaponirsi su questioni minori sono calate in storie di diversi livelli di verosimiglianza, in molti casi successe nella realtà agli autori (che cambiavano ogni anno, probabilmente perché esaurivano gli aneddoti) e non allontanano lo spettatore, anzi, svolgono una funzione catartica. È quello che ha convinto gli americani di ogni età a seguire le storie inconsistenti di quattro newyorkesi insopportabili, e che a malapena si sopportano tra di loro.
Riscrivere le regole
Nel finale di Seinfeld, che negli USA è stato seguito da 76 milioni di spettatori, Jerry, Elaine, Kramer e George vengono sorpresi da un poliziotto mentre prendono in giro un “ciccione” che viene derubato, senza andare in suo aiuto. Vengono arrestati per la “legge del buon samaritano” appena entrata in vigore in New Hampshire, e finiscono in carcere. Al processo sfilano le numerose persone che negli anni hanno subito torti più o meno gravi da loro. Con una simile sfilza di testimonianze dei loro comportamenti riprovevoli, i quattro vengono condannati. In prigione, Jerry continua a fare il comico, esibendosi davanti ai detenuti, in una citazione di The Producers di Mel Brooks, uno dei film preferiti di Larry David. Quest’ultimo aveva lasciato Seinfeld dopo sette stagioni, ma era stato richiamato per scrivere il finale. Finale che non era piaciuto per niente. Perché condannare quei personaggi che in 180 episodi non avevano mai imparato la lezione? Perché punire chi era sempre restato meravigliosamente impunito, grazie a una scelta autoriale tanto anticonformista e liberatoria? A differenza di Jerry Seinfeld, Larry non si è mai pentito del finale. E siccome Larry David non è un tipo che dimentica tanto facilmente, questa cosa se l’è legata al dito per venticinque anni.
Nel frattempo, David aveva creato la sua serie tv, Curb Your Enthusiasm, realizzando il sogno di farsela produrre da HBO, una rete premium cable, per avere più libertà, tra cui quella di usare linguaggio scurrile, che era proibito in tv per Seinfeld, o espressioni non-PC come cunt o retarded. Se in Seinfeld non ha mai recitato, a parte qualche cameo, nella sua serie Larry David è il protagonista – che si chiama come lui, e come lui è un ebreo newyorkese che vive a Los Angeles, è un noto autore e produttore e ha fatto i soldi con la tv.
Anche Curb è un telefilm sul niente in cui vige la regola del no hugging, no learning, ma è poco scritto, con molte parti improvvisate, laddove Seinfeld aveva una sceneggiatura a prova di bomba. Tutto ruota intorno a Larry, un George non più sfigato, diventato uomo di successo, ma ancora incapace di accettare le convenzioni sociali, e per di più perennemente assediato dagli inconvenienti di queste convenzioni. Se George teneva a far rispettare la sua idea di contratto sociale (“we live in a society!”), e i suoi amici spesso riconoscevano le sue ragioni (ma non i suoi sforzi), Larry va oltre, perché le regole che intende con ogni mezzo far rispettare sono soltanto sue – regole che, come dice sua moglie Cheryl, “solo lui conosce”. Larry David dà vita a una ininterrotta, pedante, esilarante riflessione filosofica sulle seccature della vita.
Quando ventisei anni dopo deve concludere Curb, Larry David torna al plot del finale di Seinfeld. E ai fan di Seinfeld – che spesso si sono tramutati in fan di Curb – la sorpresa è piaciuta molto: hanno visto il finale non solo come una citazione, ma come una seconda chance per Jerry, George, Elaine e Kramer.
Nella sua Los Angeles superficiale quanto l’erba curata dei campi da golf che frequenta, Larry vuole avere sempre ragione. Nell’episodio The Doll, si accolla il compito di comprare un regalo per il baby shower di una coppia di amici, sceglie una bambola “di origine mista” (“biracial doll”) e spiega orgogliosamente ai futuri genitori che è “mulatta”, ignaro di stare usando un termine razzista. La testardaggine gli impedisce di riconoscere il suo errore, ma Larry si sente in buona fede, e di fatto lo è: è un anziano che non sa adattarsi allo zeitgeist. A differenza di Jerry con la statua dell’indiano, lui vuole dimostrare le sue buone intenzioni, non rimediare alla gaffe solo per portarsi a letto una donna.
Anche quando tenta di uniformarsi alla nuova sensibilità, Larry fallisce sempre. Tenere o no aperta la porta per una donna che sembra decisamente lesbica? È un gesto maschilista? E quanto conta la distanza della donna dalla porta? Larry vuole fare la cosa giusta. Alla fine decide di non aspettarla ma la donna si offende. In un’altra puntata, sente una persona usare la n-word e racconta fedelmente l’episodio usando a sua volta la parola – per intero – ma viene sorpreso da più persone nere, in un’unione di politicamente scorretto e cringe che è la cifra stilistica di Curb. Larry è fonte di un imbarazzo per procura quasi insostenibile per lo spettatore. E come e più di George, Larry non scappa quando viene sorpreso in situazioni imbarazzanti, ma si incaponisce a spiegare il suo punto di vista, col risultato che tutti gli dànno contro. Mai si è sentito gridare così tanto in una serie tv.
Il cerchio si chiude
Quando ventisei anni dopo deve concludere Curb, durata ben dodici stagioni, Larry David torna al plot del finale di Seinfeld. Come Jerry, Elaine, George e Kramer, Larry è lontano dalla sua città e come loro infrange una legge appena entrata in vigore: in una giornata torrida, offre una bottiglia d’acqua a una persona in fila per votare, cosa che è vietata in Georgia (davvero). Viene arrestato, si susseguono testimonianze dei suoi cattivi comportamenti, viene condannato.
Ma a differenza dei protagonisti di Seinfeld, Larry viene liberato, grazie all’intervento di Jerry Seinfeld. “Oddio, è così che avremmo dovuto scrivere il finale!” dice Larry. E Jerry: “Come abbiamo fatto a non pensarci?”. Il pentimento di Larry David, dopo anni in cui aveva difeso la sua scelta, è inaspettato (ancor di più se si pensa che il titolo della puntata è No Lessons Learned). E ai fan di Seinfeld – che spesso si sono tramutati in fan di Curb e ne hanno apprezzato i continui riferimenti e il coinvolgimento del cast – la sorpresa è piaciuta molto: hanno visto il finale non solo come una citazione, ma come una seconda chance per Jerry, George, Elaine e Kramer.
Eppure, anche se un’altra conclusione sarebbe stata più appropriata per Seinfeld, questa non sarebbe stata quella giusta. È invece giusta per Curb e dimostra quanto il protagonista di questa serie sia molto meno cattivo, sebbene più politicamente scorretto. Larry finisce in carcere per aver fatto il buon samaritano. Per le sue buone intenzioni. I protagonisti di Seinfeld non hanno quasi mai buone intenzioni, al massimo vogliono evitare di fare brutta figura. Larry segue un suo codice comportamentale – cinico e bizzarro –, ma Jerry e gli altri un codice non ce l’hanno, sono irredimibili.
Mentre veniva trasmessa la prima volta, a Seinfeld si criticava di rappresentare nei suoi personaggi il prototipo del newyorkese individualista, superficiale, figlio dell’atomizzazione della società degli anni Ottanta. Ma se è vero che c’è molta New York nella quotidianità dei protagonisti (Elaine lavora in una casa editrice, Jerry si esibisce in quello che potrebbe essere il Comedy Cellar, tutti ordinano cibo cinese a domicilio e vanno più di una volta negli Hampton), le loro pulsioni sono universali. In una situazione fastidiosa, davanti al bivio se fare ciò che viene più comodo a noi, a scapito degli altri, noi dobbiamo frenarci: Jerry o gli altri no, scelgono cosa è meglio per loro. Quel riflesso condizionato ad agire con egoismo non è newyorkese né un frutto voluttuoso degli anni Ottanta. È quello che tutti vorremmo fare. Il rifiuto delle convenzioni sociali è un tema così potente che Larry David l’ha trapiantato con successo a Los Angeles, con un protagonista non più giovane che ha accompagnato la sua solida fan base fino al 2024. Tutti vorremmo ignorare placidamente i codici di comportamento e i nostri difetti, e non potendolo fare la nostra catarsi è guardare all’infinito le due serie tv comiche meglio scritte di sempre. Non che ci sia niente di male in questo.
p.s. a voler essere pignoli, anche nel finale di Seinfeld ha recitato Larry David, che compare brevemente in un cameo.
Francesca Mastruzzo
Lavora in editoria come redattrice e traduttrice dall’inglese e dal russo. Ha scritto per A, The Towner, Finzioni, il Venerdì di Repubblica.
Vedi tutti gli articoli di Francesca Mastruzzo