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Game of Talents: come nasce un format internazionale

Come nasce un gioco televisivo che funziona? Come si crea un format capace di circolare in tutto il mondo? Uno degli autori ci porta dietro le quinte di Game of Talents, dalla Spagna con furore.

È la prima volta che scrivo un articolo in prima persona, ed è molto probabile che non succeda di nuovo, per lo meno a breve. Perché? Perché non capita spesso di scrivere del successo internazionale di un format alla cui creazione si è partecipato, arrivato in questi giorni in Italia su Tv8, dopo aver fatto un po’ il giro del mondo. Game of Talents è andato in onda per la prima volta in Spagna – dove lavoro da qualche anno – nel marzo 2019 su Cuatro, la seconda rete del gruppo Mediaset. Lì si chiama Adivina qué hago esta noche (Indovina che faccio stasera), è già alla seconda stagione e speriamo di farne presto una terza. Il format è stato poi prodotto in Svezia, in Belgio e Olanda, negli Stati Uniti su Fox, nel Regno Unito su Itv e in Francia su Tf1. Nella stagione 2020-21 è stato tra i dieci programmi più adattati nel mondo, secondo The Wit. A breve, dopo l’Italia, dovrebbe arrivare in un altro paio di Paesi dove è già stato venduto. Fa un certo effetto vedere come una piccola idea, nata quasi per caso durante una riunione, sia poi riuscita a ritagliarsi uno spazio nelle televisioni di mercati anche molto diversi tra loro. Qui proverò a raccontare la genesi del format e il suo percorso internazionale e, usando questo come case study, cercherò anche di spiegare che cosa ho imparato sui modi in cui funziona il mercato dei format.

Genesi

L’idea di Game of Talents nasce all’inizio del 2018. Eravamo in ufficio con Mario Briongos, capo dell’intrattenimento di Fremantle in Spagna, e Belén Martín, una delle nostre autrici, e stavamo buttando giù qualche idea. A un certo punto è venuto fuori il germe di quello che poi sarebbe diventato il format: “E se facessimo un programma in cui devi indovinare quale talento nascondono le persone? Entrano degli invitati e i concorrenti devono indovinare cosa sanno fare”. All’inizio non c’era molto di più. Ma, a pensarci ora, era sufficiente. Di solito una buona idea per un programma la riconosci anche dal fatto che si può raccontare in una sola frase: se non ci riesci c’è qualcosa che non va. Provate a farlo con i programmi di maggiore successo e vedrete che il concept è sempre molto facile da riassumere: The Masked Singer è un gioco in cui i vip cantano mascherati e devi indovinare chi si nasconde nel costume. 

La chiarezza dell’idea aiuta in fase di sviluppo – ogni format pone una domanda e la risposta a quella domanda dev’essere l’obiettivo del tuo sviluppo – e poi nella promozione del programma – quanto più è facile vendere l’idea, più sarà facile attirare l’attenzione del pubblico. Aiuta anche trovare un titolo semplice e diretto. Il titolo è una promessa, la prima soglia di accesso al programma ed è fondamentale non deludere le aspettative che genera. Ma torniamo a Game of Talents, che ancora non si chiamava così. Aveva un altro titolo: Bet on Your Talent, in inglese. Una delle prime cose che ci è venuta in mente, perché all’inizio il gioco aveva un meccanismo di scommesse. Per mesi lo abbiamo chiamato così, poi Cuatro ha scelto il nuovo titolo in spagnolo e per la versione internazionale ne abbiamo scelto un altro del tutto diverso e più esatto, visto che nel frattempo il gioco era cambiato.

In quella prima riunione, stavamo parlando del successo dei guessing game (quasi un anno prima di The Masked Singer su Fox, che ha rilanciato il genere e, per certi versi, aiutato anche le vendite internazionali di Game of Talents e altri programmi simili). Volevamo farne uno. Parte del nostro lavoro di creativi è anche quello di capire le nuove tendenze, magari di anticiparle. Abbiamo pensato a quante volte, al ristorante o in aeroporto, per ammazzare il tempo proviamo a indovinare che lavoro fanno le persone, quanti anni hanno, se sono sposati o amanti, se stanno insieme da molto o poco tempo. O quando, per esempio, a Got Talent c’è sempre quel momento di attesa in cui un nuovo concorrente sale sul palco e tu ti chiedi “chissà cosa farà?”. Bene, su quel “chissà cosa farà” abbiamo deciso di costruire un intero gioco. Ci sembrò il guessing game perfetto per Fremantle, casa dei game show e dei talent show. 

Pitch e pilota

Nei giorni successivi mi misi a scrivere varie versioni, mentre mi documentavo sugli altri programmi dello stesso genere per evitare di ripetere meccanismi già usati (sul mercato c’erano giochi di successo come I soliti ignoti o Guess My Age). Avevamo tutti la sensazione di avere tra le mani una buona idea, ma con i game c’è un solo modo per capire se funzionano davvero: giocarci. Così abbiamo preparato una serie di simulazioni. Nel gioco, i concorrenti vedono una serie di personaggi e, a partire da un menù di talenti possibili, devono cercare di indovinare chi fa cosa. Era divertente vedere le strategie che usavano i vari “concorrenti” (segretarie, autori, redattori, stagisti, chiunque in ufficio partecipava a queste prime simulazioni). Il loro feedback era importante per pulire il gioco. Alcune simulazioni andavano meglio, altre peggio, ma il gioco funzionava: era divertente. Non c’erano di mezzo i soldi veri, ma la tensione c’era. Le simulazioni, fatte con video di altri programmi, ci hanno aiutato a decidere la liturgia, a stabilire i passi di scaletta, a “vedere” il gioco e capire come aiutare il pubblico a casa a seguire tutto quello che succedeva in studio. Uno degli errori che si fa spesso, e che ho fatto mille volte, quando si scrive un gioco è scordarsi di far giocare chi lo guarda da casa, non solo chi è in studio. Le simulazioni servono per studiare i cosiddetti worst case scenarios, tutte le situazioni limite che possono capitare. Il meccanismo deve funzionare sempre, senza incepparsi: per questo bisogna prevedere tutte le situazioni possibili. C’è di mezzo anche un po’ di matematica, algoritmi per i più raffinati, per capire quante probabilità ci sono di dare i vari premi e tenere il montepremi sotto controllo.

Abbiamo pensato a quante volte, al ristorante o in aeroporto, per ammazzare il tempo proviamo a indovinare che lavoro fanno le persone, quanti anni hanno, se sono sposati o amanti, se stanno insieme da molto o poco tempo. O quando, per esempio, a Got Talent c’è sempre quel momento di attesa in cui un nuovo concorrente sale sul palco e tu ti chiedi “chissà cosa farà?”. Bene, su quel “chissà cosa farà” abbiamo deciso di costruire un intero gioco.

Eravamo pronti per il pitch. Abbiamo deciso quasi da subito che la cosa migliore per convincere la rete era, di nuovo, farli giocare. In questo caso non serviva un teaser. Abbiamo preparato anche per loro una simulazione con video degli invitati, indizi, schede magnetiche per collocare soldi e talenti. Tutto molto artigianale. Ma a volte, questo lavoro è molto artigianale. Con forbici, scotch, pezzi di carta, schizzi su fogli o simulazioni 3D bisogna “costruire” uno studio che non esiste e far “vedere” quello che succede in quello studio. Il pitch è andato bene. Per la prima volta, la riunione si è conclusa con un “dobbiamo fare subito una puntata pilota”. Di solito le reti ci mettono settimane o mesi a rispondere, devi inseguirle e cambiano spesso opinione. Ma in questo caso non c’erano dubbi. Con Mediaset, abbiamo continuato a sviluppare l’idea e il pilota arrivò in poco tempo, nel maggio 2018. Tutto sembrava andare a gonfie vele. Il format piaceva e a livello internazionale c’era già molta attesa. Era chiaro che Game of Talents, come ho poi ripetuto spesso in conferenze e workshop interni nei quali lo abbiamo presentato, aveva il Dna dei programmi di Fremantle. Era un game e insieme un talent show. Nelle campagne promozionali lo hanno spesso presentato così: “è come se un game show e un talent show escono fuori una sera a cena, si conoscono, si piacciono, si mettono insieme, si sposano e fanno un figlio; ecco, quel figlio è Game of Talents”. È un gioco e anche grande spettacolo di varietà. Fremantle (nota per X Factor, Got Talent e game come The Price Is Right, che a pensarci bene è stato uno dei primi guessing game) era la casa di produzione perfetta, credibile per il format. Non lo dico per parlare bene del posto in cui lavoro. Ma perché riuscire a vendere un format originale è complicato e a volte l’esperienza della casa di produzione in un genere influisce al momento della decisione da parte delle reti.

Il pilota in realtà non andò benissimo. Nonostante tutte le simulazioni, una volta in studio il programma era confuso. Il meccanismo di scommesse iniziale troppo complicato. Il programma era anche un po’ caro. Ma la rete ci credeva. E allora ci siamo messi al lavoro per cambiare il gioco. Le puntate pilota sono cruciali non tanto per capire cosa funziona, ma cosa non funziona. Sulla carta quasi tutto funziona, ma in studio poi molte cose non reggono. Poi ci sono elementi che in studio sembrano fortissimi e se li vedi montati si sgonfiano. Con Dani Grande, il director del programma (così si chiama in Spagna, dove l’organizzazione del lavoro nei programmi è diversa dall’Italia, il capo progetto o capo degli autori) abbiamo smontato il format pezzo per pezzo. Lo abbiamo semplificato, eliminato le scommesse. Per settimane non riuscivamo a rinunciarci, ci sembravano l’essenza del format. Abbiamo deciso che, per chiarezza, gli invitati non sarebbero entrati tutti insieme, come all’inizio, ma uno per volta. E, poche settimane prima della registrazione della prima stagione, abbiamo tirato fuori l’idea delle sfere che oggi nascondono i premi in quasi tutte le versioni e che aggiungono un elemento di fortuna al gioco. Le sfere, uno degli elementi oggi iconici del programma, insieme al sipario che si alza per rivelare i talenti, sono arrivate quasi alla fine e servivano a risolvere anche un problema pratico di liturgia della scaletta, separando il momento in cui il concorrente scopre se ha indovinato il talento che ha l’invitato da quello in cui scopre quanto ha vinto (o perso, se ha sbagliato), per fare in modo che le due emozioni non si sovrappongano.

Debutto

Tra gennaio e febbraio 2019, un anno dopo l’abbozzo della prima idea, stavamo già girando la prima stagione. È andato in onda a maggio, con ottimi ascolti. Quando lo abbiamo presentato al Mip di Cannes ha riscosso subito grande interesse. Fox ha commissionato un pilota negli Stati Uniti. Intanto era esploso il fenomeno The Masked Singer e Fox era in cerca di nuovi guessing game: poco dopo lanciò I Can See Your Voice (un gioco in cui bisogna indovinare chi sa cantare e chi no, senza ascoltare la voce) e appunto Game of Talents. Che un piccolo format, creato in un Paese che non è tra i principali esportatori del mercato, riesca ad arrivare negli Stati Uniti è un piccolo evento. Non ci sembrava vero. Il team statunitense di Fremantle ovviamente ha fatto quello che gli americani fanno sempre con i programmi: la parola è “supersize”. Grazie a loro, il gioco acquista una dimensione nuova, più spettacolare. Il format cambia: non è più un solo giocatore che, aiutato da un vip, cerca di indovinare i talenti e portarsi a casa il premio, come nella nostra prima stagione, ma diventa una sfida tra due coppie di concorrenti. Gli ingredienti del format non cambiano, ci sono tutti: quelle che cambiano sono le dinamiche interne. Si aggiunge un nuovo round, si usa un finale diverso: il format diventa molto più game.

Decidiamo di usare parte della loro struttura per la nostra seconda stagione: due concorrenti si sfidano, ciascuno accompagnato da un vip. Ero sempre stato scettico sul fatto che un guessing game, in cui il ragionamento ad alta voce del concorrente è fondamentale, potesse funzionare con due concorrenti, ma la struttura elaborata negli Stati Uniti funzionava. La nostra seconda stagione era prevista per marzo 2020. Poi sappiamo tutti cosa è successo: il Covid, il lockdown, la tv che si ferma. Viene tutto rimandato di qualche mese e, quando registriamo la nuova stagione (in onda poi a giugno 2020), siamo tra i primi programmi in Spagna a tornare in studio. Ma dobbiamo farlo senza pubblico, seguendo i protocolli e con forti limitazioni sul casting di concorrenti e invitati. È stata una sfida per tutta la produzione. Il format dimostra però la sua flessibilità: si può girare tranquillamente senza pubblico, funziona lo stesso. E così senza pubblico si gireranno le prime versioni internazionali dei primi mesi del 2021 in Svezia, in Belgio e Olanda, negli Stati Uniti e poi qualche mese dopo nel Regno Unito e in Francia. La versione italiana in onda in questi giorni è tra le prime ad avere di nuovo il pubblico in studio. Si nota, certo. E non ne farei di nuovo a meno. Ma il fatto che il programma potesse funzionare anche senza pubblico è stato certamente uno dei motivi che hanno aiutato la diffusione del format in quei mesi.

Eravamo pronti per il pitch. Abbiamo deciso quasi da subito che la cosa migliore per convincere la rete era, di nuovo, farli giocare. In questo caso non serviva un teaser. Abbiamo preparato anche per loro una simulazione con video degli invitati, indizi, schede magnetiche per collocare soldi e talenti. Tutto molto artigianale. Ma a volte, questo lavoro è molto artigianale. Con forbici, scotch, pezzi di carta, schizzi su fogli o simulazioni 3D bisogna “costruire” uno studio che non esiste e far “vedere” quello che succede in quello studio. Il pitch è andato bene.

Spesso è questione di tempi: Game of Talents è un guessing game che arriva quando il genere è di nuovo in auge, per Masked Singer, ed è un programma di intrattenimento da studio che si può girare anche senza pubblico in una pandemia, quando le reti di tutto il mondo devono rimandare altri grandi format. Questione di tempi e di flessibilità. Ma anche di capacità di adattarsi alle esigenze delle varie reti. Del format ci sono state versioni diversissime, per durata (da un’ora a due ore), tipo di gioco (individuale o a coppie), premi (soldi o punti), tipo di concorrenti (con vip o senza), numero di talenti, tipi di round e budget di produzione. È quello che si chiama l’adattamento di un format, un processo che spesso segue passi ben definiti (allungare la durata, aggiungere uno studio o un presentatore a format che non ne hanno), ma che è sempre rischioso perché a volte può snaturare il prodotto originale.

Dal particolare al generale

Questo racconto dietro le quinte e in prima persona della creazione e distribuzione di un format (sperando di non aver rivelato troppi segreti!) ha senso solo se aiuta a capire aspetti dell’industria meno noti. La parte più sorprendente è vedere come un’idea cambia, come un format già chiuso e andato in onda da qualche parte, non un paper format (cioè un’idea ancora da produrre), può cambiare pelle, adattarsi, migliorare. Nel caso di Game of Talents era interessante vedere come ogni versione successiva, rispettando l’essenza del format, aggiungeva elementi, dava maggior peso ad altri che magari nella nostra versione per vari motivi (budget, tempo, casting) erano solo accennati, o piegava alcuni elementi già esistenti a esigenze nuove. Il format era lì, lo riconoscevi, il motore centrale del gioco continuava a girare, ma allo stesso tempo il programma era diverso. Aveva fatto un lungo viaggio, era passato tra altre mani creative.

Guardando le versioni internazionali noi stessi abbiamo scoperto cose del format che abbiamo creato di cui non ci eravamo accorti. Stiamo imparando di nuovo a farlo, guardando come lo stavano facendo gli altri, anche se poi gli altri produttori tornano a noi per consigli o idee. Nei grandi gruppi internazionali, una volta che un format inizia a viaggiare esiste la figura del flying producer, un consulente con esperienza di produzione che è l’incaricato di aiutare gli altri Paesi a mettere in piedi il programma, che risolve dubbi e protegge il marchio, garantendo standard minimi e comuni di produzione. Il flying producer, come dice il nome, viaggia nei vari Paesi per seguire la produzione (anche se durante la pandemia di “flying” hanno avuto ben poco…), fa consulenze online e diventa responsabile di tenere insieme tutte le variazioni che i vari mercati adottano, condivise con il resto di produttori mediante workshop specifici. Il flying producer è in rapporto costante con i creatori originali del format, per chiedere un parere su una variazione che si sta studiando in un Paese o una mano su specifiche questioni creative o produttive. Il creatore originale non perde il controllo sul format, ma ogni produttore locale sa cosa è meglio per il suo territorio. Versione dopo versione, la bibbia del format (il documento che riassume le “istruzioni” per produrlo) si arricchisce. Il know how cresce. Forse la parte più importante di una bibbia è quella dei cosiddetti “learnings”. Non tanto i piani di produzione, il disegno dello studio o le norme del gioco. Certo, anche questo. Ma la parte in cui si racconta “cosa abbiamo imparato” durante la produzione del format, quali errori abbiamo commesso, cosa non rifaremmo in una seconda stagione. Credo di sapere molto di più ora sul format di quanto ne sapessi all’inizio. Ed è sorprendente notare come alcune scelte iniziali, le regole, le liturgie, i “beat” del format, spesso decisi in maniera istintiva, siano ancora validi.

Perché un format sia un successo a livello globale è (quasi sempre) necessario che lo sia innanzitutto a livello locale. Altrimenti, è complicato che altre reti possano investire su un prodotto che non ha funzionato nel Paese di origine. Questo non significa che l’adattamento sia immediato. Alcuni format ci mettono anni a viaggiare, altri sono immediati. Alcuni devono aspettare che una versione in un Paese chiave, come gli Stati Uniti o il Regno Unito, faccia da trampolino di lancio per il mondo. È successo a The Masked Singer, un successo per anni in Corea e Thailandia, diventato fenomeno globale solo grazie a Fox. Ci sono format che hanno bisogno di diventare altro per poi incontrare una struttura definitiva. È noto che fu grazie alla versione italiana di Affari tuoi, che trasformava l’originale olandese, che Deal or No Deal è diventato un format di successo adattato in una ottantina di Paesi. Paragonato a questi format, a Game of Talents resta molta strada da fare, sta solo muovendo i primi passi. 

Questo non è un articolo celebrativo. L’ho scritto solo perché penso che può servire ai lettori più curiosi o a chi inizia a muovere i primi passi in questa industria, per due ragioni. La prima è che ci aiuta a capire qualcosa di più su come funziona il mercato, sui mille aspetti in gioco nella produzione e distribuzione di un format, sulle mille cose che possono andare storto nel processo. La seconda ragione è che si può fare, che è possibile che un piccolo format, nato in Spagna o in Italia, faccia pian piano il giro del mondo. Non succede spesso, ma è possibile. In Italia, dove i format esportati si contano davvero sulle dita di una mano (l’ultimo è forse stato Undressed), sembra ancora più complicato. Ma non è impossibile. È solo questione di trovare l’idea giusta e una rete che ci creda. Il resto è anche questione di fortuna. E come sappiamo la fortuna va un po’ aiutata. Non arrendersi è già un buon inizio.


Algerino Marroncelli

Quando era bambino, passava i pomeriggi costruendo scenografie di plastilina e giocando “alla tv”. Da grande, ha lavorato in Italia come autore e regista e ha scritto due saggi sulla televisione. Fino a sbarcare nel 2008 a Madrid per lavorare prima a Magnolia e ora a FremantleMedia, dove si occupa dello sviluppo di programmi originali e dell’acquisizione di format internazionali. Su Twitter è @AlgeMarroncelli.

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