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Serie tv

Esterno notte, eterno Moro

Anche da una storia riletta infinite volte tra pagine e schermi, proprio dal cuore profondo e oscuro del nostro immaginario nazionale, la miniserie di Bellocchio propone qualcosa di nuovo, valido, utile.

Non tutti i remake sono uguali. Ci sono quelli realizzati a partire da prodotti audiovisivi già esistenti, riproposti ciclicamente per motivi più o meno nobili, per esempio attualizzare un’opera a uso e consumo delle nuove generazioni (un po’ come accade per le traduzioni di grandi classici), o per motivi più commerciali: l’usato sicuro garantisce un ritorno economico immediato, e poco importa quel retrogusto di minestra riscaldata troppo in fretta. E poi ci sono i remake della realtà, veri e propri rifacimenti di fatti autentici e traumatici. Ogni Paese ha la sua Storia, o meglio le sue storie maledette su cui si continua a insistere, ancora e ancora, alla ricerca di un senso ultimo che, a quanto pare, non arriva mai. In Italia abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: la cronaca nera, le stragi, la mafia, il terrorismo. Nella pletora di eventi maggiori e irrisolti ce n’è uno che rappresenta un’ossessione quasi patologica: il sequestro Moro. Saggi, romanzi, inchieste, speciali, film, documentari, docu-fiction, approfondimenti. L’elenco di opere dedicate a quei due mesi del 1978 è interminabile e, ogni tanto, premendo il tasto refresh, la lista si aggiorna con un nuovo titolo.

Esterno notte è una miniserie televisiva di Marco Bellocchio in sei episodi, presentata al festival di Cannes 2022, uscita al cinema in due parti e infine andata in onda su Raiuno nel corso di tre serate con una media di 2,9 milioni di spettatori e il 16,5% di share. Costituisce un singolare esempio di accumulo e citazioni incrociate da far venire le vertigini: al tempo stesso auto-remake (Buongiorno, notte, 2003) e remake mascherato (Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, 1986, con cui ha in comune un numero sorprendente di scene e suggestioni), ma anche sequel, o spin-off sui generis, se consideriamo il personaggio di Aldo Moro, già interpretato al cinema da Fabrizio Gifuni (Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, 2012). C’era dunque bisogno di un’altra cosa su Aldo Moro, di altre scritte in sovrimpressione di color rosso sangue, di altri archivi con Bruno Vespa ed Emilio Fede, di altri funerali di Stato con o senza feretri?

“Ogni riferimento a persone ed a fatti realmente accaduti”

Non per fare spoiler, ma il problema con la realtà è che finisce sempre male. O meglio, finisce sempre in un solo modo, un modo che non ci piace, non ci soddisfa, non ci appassiona. Se le persone comuni vivono nella vana illusione di sottrarsi alla prevedibilità delle umane vicende, il potere della letteratura, del cinema, di qualsiasi forma di racconto risiede proprio nella possibilità di riscrivere la realtà, di piegarla alle esigenze artistiche, di immaginare nuovi finali. Di sognare. Lo sa molto bene Bellocchio, che nella sua carriera ha arato in lungo e in largo i terreni del documentario e della vera-finzione, o della finta-realtà: gli esordi autobiografici, gli anni di piombo, il figlio di Mussolini, Tommaso Buscetta. Non fa eccezione Esterno notte. Alla fine di ogni episodio, ma prima dei titoli di coda, appare infatti la seguente scritta: “Ogni riferimento a persone ed a fatti realmente accaduti è avvenuto mediante la rielaborazione artistica e creativa degli autori […] Il ruolo dei soggetti pubblici e privati richiamati nella serie è stato liberamente reinterpretato per finalità drammaturgiche”.

Parole che rimandano curiosamente ad altre opere dedicate ad Aldo Moro. Nel libro La seduta spiritica (minimum fax, 2021), Antonio Iovane avverte così lettori e lettrici: “Diverse scene, dialoghi e situazioni sono state ricreate attraverso l’immaginazione. Dove la ricostruzione presentava lacune si è avvicendata l’invenzione, il verosimile ha scalzato il vero e la fiction ha soppiantato il reportage”. Ne Il Dio disarmato (Einaudi, 2022), che si concentra sui tre minuti dell’agguato da parte delle Brigate Rosse, Andrea Pomella è più cauto, parla di invenzione deduttiva, che “rispetta le circostanze” e che “ricopre in via esclusiva un ruolo di connettore, umanizza il resoconto storico e giornalistico allo scopo di elaborare l’evento che, più di tutti, dal secondo dopoguerra in poi, ha determinato gli sviluppi futuri, politici e sociali, d’Italia”. L’eccezionalità del caso Moro rende queste premesse e postille necessarie, parti integranti del racconto. La realtà è talmente accecante che, al pari di Icaro, chi osa avvicinarvisi sente il bisogno di compensare la hybris con lo scudo magico dell’arte. In Buongiorno, notte lo sceneggiatore Enzo Passoscuro risponde così alla brigatista che lo accusa di aver scritto un testo falso e assurdo sul caso Moro: non è vero che l’immaginazione non ha mai salvato nessuno, “l’immaginazione è reale”.

Ogni Paese ha la sua Storia, o meglio le sue storie maledette su cui si continua a insistere, ancora e ancora, alla ricerca di un senso ultimo che, a quanto pare, non arriva mai. In Italia abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: la cronaca nera, le stragi, la mafia, il terrorismo. Nella pletora di eventi maggiori e irrisolti ce n’è uno che rappresenta un’ossessione quasi patologica: il sequestro Moro.

Il risultato di questo intreccio è, di volta in volta, qualcosa su cui non vale la pena interrogarsi più di tanto: Cossiga ha davvero intercettato in diretta il papa Paolo VI che tramava nell’ombra? Il piattino di quella seduta spiritica si è davvero mosso sotto gli occhi di Romano Prodi? Lo scrittore Pomella si è davvero imbattuto, casualmente, nel set della serie di Raiuno mentre scriveva il suo libro? Le risposte non ci interessano: l’unica cosa che conta è saper raccontare una storia, anche se è stata già sviscerata in tutti i modi. A furia di cercare in fondo al lago della Duchessa, finalmente, qualcosa di nuovo verrà fuori.

La goccia che scava

Con Esterno notte Marco Bellocchio è riuscito là dove altri registi cinematografici hanno fallito: realizzare una vera serie televisiva. Non cinema travestito da tv, ma una tv che resta orgogliosamente tv. E lo ho fatto sul servizio pubblico, l’ultimo baluardo in cui è possibile ritrovare, ogni tanto, le vestigia della triade che fu (educare, informare, intrattenere) e che ha nel proprio Dna la capacità di saper parlare a pubblici ampi e diversi, da quello più popolare a quello più colto. Accanto a ottimi prodotti come Mina Settembre o Imma Tataranni devono infatti trovare posto prodotti più complessi, che non siano solo intrattenimento ma nemmeno solo di nicchia.

Esterno notte si presenta con una premessa chiara: il sequestro Moro declinato attraverso gli occhi dei vari protagonisti della vicenda (Moro stesso, Cossiga, il Pontefice, la brigatista, la moglie). La narrazione sembra procedere seguendo una linea dritta ma poi, a ogni episodio, compie salti all’indietro e in avanti, mette pause, abbaglia con suggestioni oniriche e squarci di grottesco, infine riparte verso il porto sicuro del déjà-vu. Bellocchio e gli altri sceneggiatori Bises, Rampoldi e Serino usano il limite strutturale (tutti conoscono questa storia, tutti sanno come va a finire) come occasione per prendersi delle libertà: non interessa l’universale, la compattezza del racconto, è giunto il momento di concentrarsi sui particolari, sui detriti rimasti sul campo. Il tempo della serialità è diverso dal tempo del cinema, permette di andare a grattare la superficie fino a toccare la carne viva dei personaggi. E così, come in un gioco di prestigio, gli autori negano alla serie quello che dalle serie ormai ci si aspetta. Il primo dogma a saltare è quello del protagonista perennemente in scena. L’Aldo Moro interpretato da Gifuni scompare alla fine del primo episodio e rimane poi a galleggiare come principio immanente, riapparendo nei sogni, negli incubi, nelle allucinazioni. Lo spettatore si dimentica del suo corpo, salvo poi essere preso a schiaffi dal brusco ritorno al cuore emotivo della vicenda: nel terzo episodio la sofferenza del Papa alle prese con il cilicio è solo una pallida imitazione della sofferenza metaforica, ma vividissima, di Moro che porta la croce durante la via Crucis e che, alla fine, esce mestamente di scena, mentre il coro tragico dei democristiani rimane immobile e impietrito sulla soglia della Storia.

Come nelle Vite immaginarie di Marcel Schwob, è attraverso i piccoli, minuscoli dettagli quotidiani che la serie dà il meglio di sé, rendendo necessario anche ciò che appare insignificante. Il rumore di una goccia che cade con cui si apre la serie (cui fa eco la locuzione Gutta cavat lapidem usata da Moro in un dialogo con Cossiga); il bavaglino di Andreotti mentre mangia il gelato; la radio che cita Gian Maria Volonté mentre Moro consuma una rapida cena in penombra; la locandina del film Anima persa che appare in secondo piano; gli uomini delle scorte di Moro e Berlinguer che parlano di Cuccureddu e di calcio mentre i loro capi siglano l’inutile compromesso. 

Con Esterno notte Marco Bellocchio è riuscito là dove altri registi cinematografici hanno fallito: realizzare una vera serie televisiva. Non cinema travestito da tv, ma una tv che resta orgogliosamente tv. E lo ho fatto sul servizio pubblico, l’ultimo baluardo in cui è possibile ritrovare, ogni tanto, le vestigia della triade che fu (educare, informare, intrattenere) e che ha nel proprio Dna la capacità di saper parlare a pubblici ampi e diversi, da quello più popolare a quello più colto.

Illuminando gli anfratti più bui, tramite uno zoom violento che però lascia tutto perfettamente a fuoco, i personaggi finora rimasti nell’ombra sono svelati in tutta la loro tragica complessità. Il Cossiga immaginato da Bellocchio è un personaggio solo, rifiutato da tutti, abbandonato persino dai suoi stessi creatori. Non è il protagonista della pièce: è il sostituto buttato al centro della scena, senza istruzioni. È obbligato a essere il motore di una storia non sua. Deve improvvisare, deve scriversi da solo, per prove ed errori. Supplica, invano, la moglie che non lo degna nemmeno di uno sguardo, supplica gli amici americani, i colleghi, chiunque. Nessuno lo vuole. È allo sbando, prende coscienza di sé solo nel momento in cui va a sbattere contro i muri. Non sa cosa farsene del proprio potere preveggente (le macchie sulle mani, il destino di Moro) né del proprio potere tout court: lo sfogo violento in cui verbalizza l’inutilità del suo curriculum eccellente di fronte alla rozzezza delle Br (“D’altronde il loro capo Moretti è un perito industriale, e io devo tacere!”) dice moltissimo a noi spettatori di oggi ma non scalfisce il proprio interlocutore, per cui è solo un povero cristo (“Riesce a dormire con il Valium?”). È un Cossiga che non assomiglia al Cossiga di cui pensavamo di sapere tutto, e proprio per questo motivo non vorremmo mai abbandonarlo: rimaniamo estasiati di fronte al suo smarrimento, ai piccoli gesti cui si aggrappa per non perdere la bussola, come quando srotola la bandiera italiana che si era attorcigliata. Riusciamo persino a provare sulla nostra pelle la repulsione per il veggente calabrese che lo abborda nei corridoi del Viminale, o le emicranie che lo conducono alle allucinazioni.

A tutto tondo 

Lo stesso accade con il personaggio di Nora, la moglie di Aldo Moro, che si sottrae alla subalternità della storia, stagliandosi come personaggio a tutto tondo. Di lei riusciamo a toccare le contraddizioni, gli spigoli, i repentini cambi di rotta. Nel mondo alla rovescia in cui si risveglia all’improvviso è l’unica a rimanere lucida. La fede e la ragione sono le stelle polari che le permettono di accogliere in sé la follia degli eventi pur sapendo che non c’è niente da fare. C’è solo un momento in cui pare vacillare, una notte più tormentata delle altre. Si alza dal letto, va in cucina e accende tutti i fornelli, come in un atto di ribellione a un destino già scritto. Ma basta il pensiero del marito, la cui preoccupazione ossessiva era proprio quella di chiudere sempre il gas, per tornare in sé. Il tenero ricordo dell’uomo che ha perduto l’unica cosa che desiderava, il controllo sulle cose, le dà la forza per affrontare chiunque, persino il Papa e gli altri politici. In un drammatico dialogo con Zaccagnini, Nora si oppone con tutte le sue forze alla teoria del “Moro pazzo”: “L’anima più profonda di mio marito è sempre stata quella del mediatore, del conciliatore, dell’uomo di buon senso, l’anima del democristiano, ecco. Così sono i democristiani, o dovrebbero esserlo: cristiani”.

Se Moro rappresenta dunque il democristiano per eccellenza (“Il meno implicato di tutti”, come lo definì Pasolini), la Dc allora rappresenta l’Italia, perché racchiude in sé i tre pilastri su cui si fondava, si fonda e si fonderà il nostro paese: Famiglia, Chiesa e Politica. Ora pro nobis, ora e per sempre. Ecco perché c’era bisogno di una serie su Aldo Moro e ancora ce ne sarà bisogno, in futuro. Perché il suo sequestro e il suo omicidio da parte delle Brigate Rosse sono un trauma collettivo che non abbiamo mai risolto, un trauma che dobbiamo passarci di generazione in generazione, perché le colpe dei padri ricadono, eccome, sui figli. Riscrivere ogni volta un pezzetto della storia di Moro significa tenerlo ancora vivo, in eterno, poter immaginare uno, dieci, cento finali diversi. Bellocchio lo sa perfettamente, e infatti dal 2003 pone a sé stesso e a tutti noi la stessa domanda: e se Moro si fosse salvato? 

Il film Buongiorno, notte si chiudeva con il presidente della Dc che usciva indisturbato dalla propria cella e camminava per le strade di una Roma carica di nubi. Esterno notte si apre con quella che sembra una naturale prosecuzione di quel cliffhanger. Dal letto della clinica in cui si trova adesso, Moro ringrazia la generosità delle Br e si dimette dalla Dc sotto gli occhi insulsi di Cossiga, Andreotti e Zaccagnini. Un what if in grande stile che non viene seguito fino in fondo ma aleggia su tutta la serie. Non è un caso che l’esecuzione di Moro ci sia mostrata unicamente attraverso la messa in scena di un gruppo di attori dilettanti, vorticosa finzione nella finzione che lascia Moro nuovamente in sospeso, in attesa che qualcun altro venga a raccogliere il testimone dalle mani di Bellocchio. C’è ancora tanto da raccontare, su Moro e sull’Italia. Basta continuare a scavare.


Nico Morabito

Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.

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