immagine di copertina per articolo Ascesa e caduta del direct-to-consumer
Marketing digitale

Ascesa e caduta del direct-to-consumer

Sempre più marchi cercano di rivolgersi direttamente al cliente. Fornendo brand e servizi, cambiando il mercato, ma finendo per aprire store e fare spot. Ora che i negozi sono chiusi, che faranno?

Mi ricordo che qualche settimana fa c’era la fila di ragazzine e mamme davanti alla profumeria sotto casa. Non succedeva spesso. Ma quello non era un giorno qualsiasi: arrivava in negozio Cristina “Estetista Cinica” Fogazzi, prima estetista, poi influencer, poi imprenditrice e front-woman di un brand di beauty molto conosciuto tra le giovanissime e in genere nelle generazioni post-digitali. Dopo essersi fatta conoscere online, ha iniziato a distribuire nei negozi tradizionali, passo necessario in un Paese ancora refrattario all’ecommerce di massa. L’Estetista Cinica e il suo brand Veralab, con circa 300mila utenti online al mese, trascinati da un profilo Instagram da 500mila follower, sono un caso italiano di successo del Direct-To-Consumer, un termine che negli ultimi anni ha sostituito il più comune ecommerce, per rappresentare la creazione di brand attraverso i social media (qui un account Instagram) e la successiva distribuzione online, a scavalcare il dettaglio tradizionale, e poi, come in questo caso, a integrarvisi successivamente. Se in Italia il fenomeno è costituito ancora più che altro da una serie di piccoli business che ce l’hanno (più o meno) fatta, nel mondo il DTC è diventato un catalizzatore di interessi e investimenti da miliardi di dollari.

Il commercio senza isocrone

C’era una legge universale nel commercio: devi servire (sempre e solo) le necessità dei clienti che vivono in un intorno geografico definito da quanto gli stessi clienti sono disposti a spostarsi. Isocrone sono dette in gergo le linee ricurve che collegano ogni punto nella mappa per cui il tempo necessario (per andare a comprare) è equivalente. L’intorno è più grande se i clienti possono spostarsi velocemente: per esempio quando in città una zona è servita dalla metro, o in provincia dall’autostrada. 

Da anni i clienti sono sempre meno disposti a spostarsi. Lo smartphone ci fa confrontare la difficoltà nello shopping fisico con quello online – che appare sempre più facile, conveniente e ubiquo. Consegne in 48 ore un paio di anni fa erano considerate avanguardia. Oggi molti inseriscono di default il filtro Prime su Amazon per avere la consegna (gratuita) in 24 ore. Per la spesa si confronta la prospettiva di recarsi a riempire il carrello al supermercato con le possibilità metropolitane di farsi recapitare la spesa in due ore o la cena in 20 minuti. Perciò i supermercati si rimpiccioliscono e si riavvicinano alle persone. I Carrefour diventano Express, i Conad City, e perfino Esselunga, che da sempre segue il mantra un brand un formato, ha deciso di provare negozi più agili. 

Negli ultimi tempi, i clienti sono sempre meno disposti a spostarsi. Lo smartphone ci fa confrontare la difficoltà nello shopping fisico con quello online – che appare sempre più facile, conveniente e ubiquo. Per la spesa e il cibo, si confronta la prospettiva di recarsi a riempire il carrello al supermercato con le possibilità metropolitane di farsi recapitare la spesa in due ore o la cena in 20 minuti.

L’ecommerce non ha isocrone, non ha intorno geografico: apparentemente deve solo riuscire a far compilare facilmente il checkout dallo smartphone. Dopodiché può arrivare dappertutto, con il furgoncino, “isole comprese”. L’Italia è – online – un unico mercato. Ma anche l’Europa comincia a diventarlo. Gli Stati Uniti sono al solito il laboratorio avanzato, in cui i soldi da investire dei venture capital superano le occasioni di investimento (trovare sempre nuovi biglietti vincenti alla lotteria delle startup è complicato) e in cui il vero limite per sperimentare nuovi modelli di business è solo la fantasia. Si è esaurita da tempo le possibilità per i modelli che dovevano “essere come” più “per”: dopo “essere come Uber” per la “toeletta del cane” o “essere come Tripadvisor” per “imbiancare casa” lo spazio per nuove avventure è divenuto asfittico. Ora l’appetito della finanza è attratto dalla disruption digitale di business consolidati da 50 anni di combinato disposto brand di massa – televisione – supermercati. 

Perfino marchi storici come Kraft o Heinz sembrano avere gli anni contati nei commenti degli analisti finanziari. Dal 2018 le azioni della corporation dell’alimentare hanno perso quasi il 40% e per le agenzie di rating il debito della corporation è passato da BBB- a BB+, “spazzatura”. Il bersaglio grosso della finanza che scommette sulla distruption è diventato il triangolo della spesa frequente di tutti: cibo-casa-cura personale. È lì che si trova la maggior parte del ricavo dell’industria del retail e anche il settore meno intaccato finora dalla trasformazione digitale. E l’intorno geografico di questi settori è ancora intatto. Le persone si spostano ancora per comprare, e spesso non trovano ciò che cercano, o semplicemente non sanno se in negozio lo troveranno: per l’online, sempre alla ricerca dell’acquisto perfetto senza sforzo da proporre ai consumatori, significa che c’è margine aggredibile via ecommerce. Cioè per fare spostare le cose e lasciare a casa le persone, attaccando un appesantito retail fisico.

Alla conquista della spesa

Tuttavia, non sempre ciò che sembra contendibile nei business plan si rivela poi davvero facile da conquistare. E non sempre quando rompi un equilibrio sarai tu a goderne i frutti. Eppure, tutto sembrava in discesa per il direct-to-consumer: target più ristretti da servire con prodotti più specializzati per le loro esigenze, target stanchi di prodotti di massa che lasciano tracce online con il percorso per farsi raggiungere, la digitalizzazione delle filiere che consente economie di scala per produrre quantità inferiori di pezzi, diminuzione delle spese di spedizione e logistica, nuovi modelli di servizio (dal noleggio all’abbonamento) disponibili grazie all’online. Le condizioni per attaccare il blocco brand-tv-retailer, all’apparenza, c’erano tutte. 

La spesa quotidiana si è spesso rivelata un boccone troppo grosso pure per i venture capital californiani. Walmart e Target erano fortezze inespugnabili. Anche Amazon arrancava. Molti nella storia (da Webvan in poi) erano saltati in aria dopo poco o si erano arresi alla concorrenza. Altri, come Instacart (in Italia c’è Supermercato 24) sono semplici servizi organizzati di McJobs di delivery che fanno la spesa al posto del consumatore, dagli stessi scaffali. Margini di guadagno minimali e incerti. No, bisognava puntare a qualcosa che fosse leggero da spedire, facilmente conservabile, differenziabile più nella comunicazione che nella sostanza, magari via social media e community online. L’identikit corrisponde perfettamente al settore del beauty e della cura della persona.

Prodotti diffusi in sempre più larghe fasce di popolazione, anche maschili, ricorrenti nell’uso, leggeri da spedire, e con ampi margini conferiti più dal valore del brand che dal prodotto in sé. Possibilità di sperimentare nuovi modelli di business come l’abbonamento di BirchBox, che invia campioncini (forniti dai brand a basso costo) a scadenza mensile, allo scopo di vendere poi gli stessi prodotti ma in formato normale. Le beauty box sembravano inarrestabili grazie al passaparola degli unboxing postati su YouTube e Instagram. 

Ma perché limitarsi a rivendere un brand altrui, quando puoi creare il tuo brand, magari focalizzato su un particolare tipo di consumatore o un suo bisogno differenziato? Perché non creare un servizio che permettesse agli uomini di avere a domicilio tutto il necessario per barba, viso, intimo, in modo da sollevarli dalla connaturata pigrizia nello shopping e ritrosia verso store su misura per il gusto femminile? Dollar Shave Club era nato (dall’introspezione dei founder). Ma subito un altro competitor, Harry’s, era entrato nel mercato. I rasoi hanno margini molto alti, e raggiungere gli uomini attraverso l’online era l’uovo di Colombo. Parallelamente, nuovi brand al femminile potevano essere creati dal nuovo combinato disposto influencer-social-ecommerce. Lo schema è sempre il solito: trovare un “monopolista”, studiarlo, differenziare leggermente l’offerta posizionandola come dedicata a un segmento di mercato definito (eco-green, biologico), successiva guerra di prezzo e pressante promozione online. 

Il digitale era la parte luccicante dei loro business plan, da comparare alla polverosità dei brand bloccati nello scaffale tradizionale: niente di meglio per attirare capitali in cerca di nuove pepite d’oro che trasformare aziende produttrici – ma più spesso semplici re-packager – di comuni-ma-leggermente-diversi detersivi, rossetti, boxer e lamette, in startup da Silicon Valley. Tramite un influencer o direttamente loro espressione, nuovi marchi sono nati ogni notte. Non c’è mai stata tanta abbondanza di alternative sul mercato.

Startup in abbondanza

Il Guardian di recente ha censito almeno otto startup che puntano al mercato degli assorbenti, per rubare mercato al colosso Tampax. Ci sono assorbenti di cotone biologico (tre: Lola, Cora, Flo), slip assorbenti (due: Thinx, Modibodi) e un applicatore riutilizzabile (Dame). La differenziazione in questo caso è più legata all’imperante brand purpose (ogni brand vuole differenziarsi nel cambiare in meglio la società o parte di essa) che all’innovazione di prodotto, in genere facilmente replicabile, soprattutto per una multinazionale come Tampax. Flo destina il 5% dei suoi profitti a enti di beneficenza per donne, Freda ha una partnership Bloody Good Period, che fornisce parte degli assorbenti a donne rifugiate, e Dame sostiene di essere “l’unico marchio di assorbenti clima-positivo”, compensando il doppio delle emissioni che produce. Cambiare l’involucro e aumentare gli standard etici sembra il modo di fare oggi concorrenza ai brand consolidati. 

Alcune startup sembrano uscite più dalla serie Silicon Valley che dalla realtà. Tra queste si distinguono quelle che producono succhi, frullati, smootie congelati e li spediscono ai consumatori con pacchi refrigerati. Un percorso assurdo e dai costi sproporzionati, anche per i più pigri e ricchi. Altre nascono applicando un packaging diverso allo stesso prodotto. Boxed Water descrive così il proprio valore: “La nostra scatola è realizzata in cartone – un prodotto di carta. Ma non è realizzata in carta normale. La carta nelle nostre scatole proviene da foreste sostenibili, che non solo compensa la nostra impronta ecologica, ma assicura anche che gli alberi raccolti siano continuamente ripiantati”. Sempre di acqua imbottigliata si tratta. Ma quando un influencer da 1,5 milioni di follower come @jaime_king posta “stay hydrated” con il tuo prodotto, anche l’acqua nei cartoni del latte può diventare cool.

Un trend nel DTC di qualche anno fa vedeva alcune startup – come Blue Apron – spedire kit di ingredienti già “porzionati” mediante un abbonamento, per “cucinare” ricette a casa. Sembra più un tentativo di creare bisogni a cui applicare una soluzione digitale. Ma il buon senso non sembrava influire nelle scelte di investimento più di tanto, fino a qualche anno fa. I round di capitalizzazione erano assicurati, anche se le perdite finivano per aumentare in modo direttamente proporzionale al numero di clienti. Prima della quotazione nel 2017, Blue Apron ha raccolto 135 milioni di dollari di finanziamenti, su una valutazione stratosferica di due miliardi. Nel 2016 ha venduto kit per 800 milioni di dollari, ma con una perdita di circa 55 milioni. Circa 50 milioni di dollari all’anno erano spesi in marketing, per lo più digitale.

Se Blue Apron si poneva sull’estremo limite delle preferenze di un pubblico con disponibilità elevate di denaro, una startup denominata ironicamente Brandless faceva un tentativo verso il lato opposto dello spettro, quello dei consumatori sensibili al prezzo e ostili al “sovrapprezzo da brand”. L’idea? Eliminare il brand da tutti i prodotti per casa-cura, e fissare un unico prezzo per tutto: 3 dollari. Da The Drum: “La nostra missione è migliorare tutto per tutti. Ci impegniamo a rendere le cose migliori accessibili e convenienti per più persone. La nostra missione è profondamente radicata nella qualità, trasparenza e valori guidati dalla comunità”. Ma se il valore in un mercato è dato dal potere del branding sul prezzo può sopravvivere qualcuno che vende online un prodotto generico? Anche in questo caso, era più il gimmick che il modello di business a stare in piedi. Amazon, Walmart e perfino la più sgangherata catena di alimentari può produrre una sua linea “senza brand”, ma con almeno un brand, quello del rivenditore. Non c’è competizione possibile quando si combatte solo sui prezzi e sui costi: il più grande vince, soprattutto se i costi di spedizione sono rilevanti. Non c’è online che tenga, quando Amazon può vendere le sue private label a un prezzo minore e spedire a metà del costo. Secondo Fortune, Brandless nel 2018 ha fatturato circa venti milioni di dollari con una perdita di circa 50 milioni di dollari. 

Ritorno alla televisione

Le due storie sono, per vari aspetti, emblematiche: ci sono abbastanza soldi da poter scommettere contro i vecchi paradigmi del brand costruito attraverso una preferenza consolidata da decenni di promozione di massa. Blue Apron vuole diventare un brand, Brandless vuole eliminarli. In entrambi i casi, alla fine, i conti non tornano. Il marketing digitale non è più – se mai lo è stato – economico per acquisire nuovi clienti. Blue Apron spendeva circa 400 dollari per ogni nuovo cliente nel 2017. A questo ritmo, anche i più sostanziosi finanziamenti non possono durare nel tempo. Hanno scoperto a loro spese che il brand conta, se si tratta di costruire traffico e propensione all’acquisto, e che la brand awareness costruita in anni di televisione e spot non è poi così facile da rimpiazzare con influencer e video online. La risposta: tornare alla tv. Nel 2018, per uno studio di Video Advertising Bureau, i 125 DTC brand maggiori hanno speso quasi 4 miliardi di euro in spot televisivi. Ma questo cambio di strategia significa competere contro chi è già abituato a spendere da decenni in canali di massa, è come giocare in trasferta. 

Il bersaglio grosso è il triangolo della spesa frequente di tutti: cibo-casa-cura personale. Le persone si spostano ancora per comprare, e spesso non trovano ciò che cercano, o semplicemente non sanno se in negozio lo troveranno: per l’online, sempre alla ricerca dell’acquisto perfetto senza sforzo da proporre ai consumatori, significa che c’è margine aggredibile via ecommerce.

Inoltre, quando appare facile differenziarsi con elementi epidermici, il vantaggio competitivo non dura molto: Blue Apron si è trovata a competere con cloni dalle tasche colme di dollari come HelloFresh, Purple Carrot e Plated, sopravvissute solo per il tempo necessario a fallire e uscire dal mercato, ma dopo aver aumentato, per tutto il settore, i costi di acquisizione dei clienti attraverso le inserzioni su Facebook e Google. Per giunta, la gran parte di questi modelli di business finiscono per diventare puri servizi accessori per chi – come Amazon – può copiarli e monetizzare con un cross-selling ben più sostanzioso, o per chi come Walmart e altri retailer può fornire un’esperienza più coinvolgente al cliente, sul punto vendita.

La riscoperta del tradizionale negozio come fulcro dell’esperienza era in corso, appena prima che la pandemia la interrompesse bruscamente: a New York esistevano spazi temporanei per brand DTC, per “entrare in contatto” con i loro consumatori. Nati come pure-player online, si stimava a fine 2019 che negli Stati Uniti apriranno 850 negozi DTC nei prossimi anni. Ora il futuro è ancora più incerto. Casper – uno dei più famosi brand DTC, vende materassi e affini – aveva annunciato l’intenzione di aprire 200 negozi in tutto il Nord America, e Adore Me (produce e vende intimo femminile, lingerie, costumi da bagno, activewear) stava considerando di aprire 200 negozi in cinque anni. 

Se non può arrivare alla vetrina direttamente, il brand DTC cercava di essere presente nei retailer esistenti, come Sephora che ospita da tempo il minimalista brand cosmetico The Ordinary. “The Ordinary è un marchio funzionale di bellezza che offre tecnologie cliniche riconosciute ed efficaci, offerte a un prezzo equo e accompagnate da un pack trasparente. Nel settore della bellezza, l’integrità è rara. Alcune tecnologie ormai ‘ordinarie’ sono ancora presentate come rivoluzionarie e offerte a prezzi ingiustificati, il che disturba il consumatore. The Ordinary offre ‘Integrità improntata su formulazioni cliniche’”, si legge nel sito Sephora. Siamo diversi, ma usiamo lo stesso canale, perché sfuggire al negozio era (è?) difficile.

Dumping digitale

@shahinkhan su Twitter ha scritto che i brand DTC fanno digital dumping: “aggiungono una patina digitale a una catena di approvvigionamento esistente, fissano il prezzo al di sotto di essa, perdono denaro senza avere mai una possibilità realistica di fare soldi, quindi raccolgono ancora più denaro, aumentano la loro valutazione di Borsa, solo per danneggiare le attività esistenti fino a quando una di esse le compra per una valutazione non realistica, solo per sbarazzarsene”. “Gran parte dei DTC degli ultimi cinque anni, e molti dei successivi, non hanno letteralmente alcuna differenziazione del prodotto, nessuna unicità e stanno dando per scontato il presupposto che possono avere solo un bellissimo sito e un marketing interessante e ciò ne determinerebbe il successo”, dice David Rodnitzky, CEO dell’agenzia che lanciò Brandless.

Dollar Shave Club dopo varie iniezioni per un totale di circa 100 milioni di dollari nella sua rapida storia, e senza aver mai realizzato un utile, ha raggiunto il cinque per cento del mercato, con circa tre milioni di clienti. Nel 2019 è stata venduta a Unilever, per sottrarre quote di mercato alla rivale Gillette (che detiene il 50% del mercato), per un miliardo di dollari. I giornali italiani hanno intitolato “comprata per un miliardo la Netflix dei rasoi”. Certo, per chi voleva “cambiare il mondo” finire per vendere a chi quel mondo l’aveva creato non deve essere stato un gran successo morale.
L’Italia, con la sua perdurante scarsità di investimenti di rischio, rimane nel bene e nel male un mercato marginale nel fenomeno DTC. Abbiamo sì evitato i flop miliardari, ma – a memoria – non abbiamo creato nessun nuovo brand DTC nazionale con capitalizzazione davvero rilevante. L’assenza di pericolo percepito non sembra avere minimamente svegliato brand di massa e retailer dal torpore verso nuovi modi di fare branding e vendita. La pandemia cambierà le cose, spostando le lancette della storia bruscamente in avanti, e riconoscendo nel DTC il nuovo normale? O la depressione economica che plausibilmente seguirà la crisi sanitaria darà il colpo di grazia a un settore dalle dinamiche così fragili? E si farà avanti in Italia una nuova generazione di estetiste ciniche, svecchiando di colpo l’ingessato panorama italiano?


Gianluca Diegoli

Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.

Vedi tutti gli articoli di Gianluca Diegoli

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.