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Cinema e tv

Dal cinepanettone a Checco Zalone

Cosa vediamo quando ci vediamo al cinema. O perché in fondo la commedia di Boldi e De Sica, I soliti idioti e i successi di Zalone dicono molto di noi.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 16 - Quel che resta del nazionalpopolare del 01 marzo 2014

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Il nazionalpopolare al cinema oggi non è il cinema, è la televisione. Com’è regola almeno dagli anni Ottanta, i casi più clamorosi del box office italiano sono stati quelli che hanno fondato il proprio successo sull’attrattiva di volti e nomi del piccolo schermo.
Checco Zalone con i suoi tre film e I soliti idioti con il loro botto (limitato a un target preciso ma devastante), ai quali si aggiunge anche Benvenuti al sud con la coppia Bisio/Siani, sono l’incarnazione più evidente del nazionalpopolare filmico odierno: quelle produzioni cinematografiche fatte per incontrare il gusto del pubblico cercando di rappresentare lo spirito nazionale, ovvero ciò che le persone già pensano/credono/sanno.

Non sono però tre esempi coerenti ma, anzi, emblematici di diverse tendenze. Non a caso è I soliti idioti l’unico di questi film a dire qualcosa di diverso a un pubblico diverso, il solo cioè a mettere in scena un pensiero che è proprio di una fascia ben identificabile (per età) della popolazione italiana, opponendosi con forza a quello del resto del Paese. Se Benvenuti al sud e i film di Checco Zalone rispondono a formule molto consolidate e reiterate (il film con la coppia e quello fondato su un’individualità, che ruotano intorno alla provincia italiana e alle sue difficoltà di relazione con la modernità), per I soliti idioti invece il meccanismo è differente da quello del cinema popolare, che solitamente non si oppone a nessuno ma cerca di accontentare tutti. Il film con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli sembra concepito per essere un piccolo cult, non un film di grande richiamo, e la sorpresa con la quale tale successo è stato accolto è sintomo di quanto siano ignorate (benché non certo sconosciute) certe istanze che crescono nel nostro Paese.

Dalla tv al cinema

Da quando in Italia è crollato il sistema dei generi (western, horror, poliziottesco…) è successo quel che Nanni Cobretti ha ben riassunto scrivendo: “Non capisco come accada che avendo a disposizione un mezzo con il quale è possibile far vedere alieni che si menano in parti remote dello spazio, in Italia si continui a scegliere di mostrare persone che parlano in cucina”. La nostra produzione di maggiore incasso ha rinunciato a complesse allegorie per parlare del presente, cominciando a rappresentare il pubblico in maniera diretta (e quindi più blanda e accomodante). L’incasso inaspettato di Cado dalle nubi con una cifra in linea con la media dei cinepanettoni di Boldi/De Sica (14 milioni di euro), quello devastante del film successivo, Che bella giornata (43 milioni), e ora il record assoluto di incassi del cinema italiano fatto segnare da Sole a catinelle (51 milioni), non sono una rottura ma la diretta evoluzione di quello che, almeno dagli anni Ottanta, è uno dei due già citati paradigmi del cinema nazionalpopolare italiano: avvolgere lo schema classico della commedia sentimentale intorno a un comico televisivo.

Se si volesse trovare un iniziatore di questo genere sarebbe Massimo Troisi, e qualora se ne dovesse cercare anche un padre putativo sarebbe Adriano Celentano con i suoi film a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Quella è la struttura ancora imperante: un comico già noto per il suo successo televisivo, preso in una storia sentimentale (quindi dai toni lievi, rassicuranti e blandamente commoventi), che contamini il gioco di situazioni e dialoghi della commedia con l’individualismo delle gag tipiche del film comico. Si passa cioè dal sistema di comprimari, caratteristi e situazioni a quello spalla/comico delle gag televisive, in cui la star attira nella sua orbita tutto l’umorismo che, a questo punto, non è quasi mai di situazione ma esclusivamente di parola. Mentre il contesto rimane quello romantico e spensierato della commedia. È lo schema sul quale costruiscono i loro esordi tutti i comici televisivi, e quindi quello dei successi di Pieraccioni, Benigni (sebbene con qualche complicazione di scrittura in più), e ora Siani (con Il principe abusivo, 14 milioni) e Zalone, quasi tutti sia attori, sia registi e sceneggiatori dei propri film.

L’argomento generalista per antonomasia al cinema è sempre di più lo scontro tra ciò che ci piace pensare che eravamo e ciò che non ci piace di quel che siamo.

Come eravamo

Da questi successi emerge anche il carattere fondamentale del nazionalpopolare italiano degli ultimi anni. Intorno alle storie d’amore semplici e scontate di un bruttino divertente e della sua donna angelo c’è sempre la provincia, spesso meridionale, e il rapporto che questa stringe con la modernità. I tre maggiori incassi italiani del 2013 (escludendo La migliore offerta di Tornatore che ha tutti i caratteri del film internazionale) erano tutti centrati su questo contrasto, ovvero i già citati Sole a catinelle, Il principe abusivo e Benvenuto Presidente (8 milioni), in cui un montanaro diventa Presidente della Repubblica. Ma non è una novità di quest’anno: il piccolo centro, la sua proverbiale arretratezza e la maniera in cui mal si adatta a un mondo che viaggia a una diversa velocità, parla un’altra lingua e vive e lavora in un altro modo, sono infatti gli spunti di gag più frequenti e in assoluto i temi più rilevanti e premiati dal pubblico italiano.

Ciò che sappiamo essere vero e che in un certo senso ci piace continuare a sentirci dire è che, in un’epoca in cui il concetto di modernità si ridefinisce a velocità crescente e in cui la tecnologia modifica la nostra vita mutando di continuo le nostre abitudini senza assestarsi mai, esiste un’Italia che resiste a tutto questo e che, sebbene nel farlo sia molto ridicola, è in fondo quella parte del Paese che custodisce assieme alla tradizione anche la parte migliore dell’identità nazionale, quella composta dai più generici buoni sentimenti. Nonostante possa sembrare molto specifico, l’argomento generalista per antonomasia al cinema è sempre di più lo scontro tra ciò che ci piace pensare che eravamo e ciò che non ci piace di quel che siamo. I piccoli centri in cui è ambientata gran parte dei film di Pieraccioni (il quale, anche quando si sposta nelle città maggiori, replica in esse i meccanismi da paese), l’idiosincrasia per la complessità di Alessandro Siani, l’inadeguatezza dei personaggi di Benigni e la cialtroneria aspirazionale di Zalone hanno raggiunto i massimi incassi in tutti gli anni Ottanta, Novanta e Duemila, generando infiniti cloni e imitazioni di poco conto.

Anche Benvenuti al sud, remake del francese Giù al nord, giocando sulla fusione di tutti questi elementi (comici televisivi, contrapposizione nord/sud in cui il primo rappresenta la modernità e il secondo il suo rifiuto a favore dei valori nazionali di lentezza e piacere del vivere, unito a un romanticismo semplice) ha fatto segnare un incasso clamoroso, là dove l’originale aveva fondato il suo immenso successo sulla ferocia nei confronti del piccolo centro arretrato. Che questo modo di raccontare l’Italia e gli italiani sia di crescente centralità lo dimostra il contemporaneo tramonto del cinepanettone, che pure aveva cominciato a utilizzare i volti televisivi del momento intorno alla coppia Boldi/De Sica. Il cinepanettone ha infatti espresso fino a due anni fa un sentimento nazionalpopolare in decadenza, quello che era emerso dopo il ’68 e che rispondeva all’esigenza di venire a patti con il rinnovamento del rapporto con il sesso, la nudità e gli istinti basilari che vigeva nel nostro paese, sempre più libero dalla castrazione vaticana. I più grandi incassi degli anni Settanta ne sono stati espressione (Ultimo tango a Parigi, Malizia, Il Decameron), senza contare le commedie pierinesche e simili, meno clamorose negli exploit ma più costanti. Allo stesso modo il cinepanettone De Laurentiis è finito per un trentennio costantemente sul podio del box office attraverso la messa in scena di maschi, bianchi, italiani ed eterosessuali intenti a disprezzare di volta in volta stranieri, donne, omosessuali e neri finendone però regolarmente vessati. Dominati e spaventati dalle donne che cercano di ingannare e che concepiscono come oggetti sessuali, penetrati da muscolosi giganti di colore che parlano come Bingo Bongo, o inseguiti e minacciati da macchiette gay, i protagonisti dei cinepanettoni hanno rappresentato la parte più ancestrale e meno intellettuale dello spirito nazionale.

Vecchi contro giovani

Tramontata quest’era, ciò che oggi vediamo quando ci guardiamo al cinema è sostanzialmente la celebrazione di quel che eravamo, in una società in cui questo contrasta con ciò che siamo. O almeno questo è vero per un certo tipo di spettatore. Non è infatti quel che è accaduto nel caso de I soliti idioti, uno dei più clamorosi e isolati capovolgimenti di fronte registrati nella categoria del nazionalpopolare cinematografico italiano. Della serie tv omonima Biggio e Mandelli hanno portato al cinema diversi personaggi, in un film a episodi incrociati: dunque sempre una provenienza televisiva e sempre comici che piegano intorno a loro le dinamiche da commedia. Però sia in tv sia al cinema la forza e il successo maggiore appartengono al duo Ruggero/Gianluca, father and son sul piccolo schermo, ovvero il padre romano, violento, dominatore, scurrile, profittatore e opportunista che vessa, maltratta e tarpa in tutti i modi possibili un figlio passivo, positivo, civile e onesto. Quello che eravamo che maltratta quello che siamo.

In un paese in cui la classe dominante invecchia rimanendo comunque dominante, in cui lo strato economicamente più in difficoltà sono i giovani, che vedono nei più vecchi il loro principale ostacolo (sono loro che non li assumono, loro che non gli fanno posto, loro che sono inadeguati, loro che rubano, ingannano e non pagano le tasse determinando gran parte della situazione odierna), il fatto che sia stata proprio una commedia in cui un vecchio maltratta suo figlio ad aver realizzato il migliore incasso presso il pubblico giovane (con ragguardevoli 11 milioni) pare abbastanza azzeccato. Molto della comicità di Ruggero deriva infatti dalla violenza verbale e non dalla scurrilità, come amano invece sottolineare i detrattori. A far ridere è il fatto che tale eccesso volgare sia usato per insultare e umiliare il figlio, ovvero le mille forme assunte dal maltrattamento, l’esagerazione dell’atteggiamento profittatore o più in generale l’iperbole di un padre che finge di pensare al figlio ma che in realtà agisce per perpetuare il suo dominio e la propria eterna giovinezza (è solitamente Ruggero a finire con le donne con cui vuole obbligare Gianluca ad andare). Ed è curioso che tutto ciò sia solo la versione italiana di un pensiero che incontra successo anche all’estero, in film come Hunger Games (ambientato in un futuro distopico in cui la classe dominante obbliga con mezzi militari gli adolescenti a uccidersi in combattimenti mortali incitati da un pubblico di adulti), in storie come quella del giapponese Battle Royale (a cui Hunger Games si ispira) o in commedie iperboliche come Project X (in cui i classici adolescenti sfigati organizzano un grande party che però gli sfugge di mano, risultando in un’inedita e immotivata ribellione contro l’autorità, senza ragioni e senza organizzazione, solo per esprimere un’indeterminata voglia di autonomia).

Ma tornando all’Italia, la parte più interessante del successo de I soliti idioti è stata la campagna stampa (e non) portata avanti dall’altrettanto folta schiera di odiatori del film che l’hanno accomunato al cinepanettone più becero (sebbene non ci sia nessun elemento in comune) e che ha individuato in esso la periodica degenerazione dei costumi. Il racconto e le battute che hanno fatto ridere i più giovani non solo non hanno divertito i più adulti, ma li hanno indignati profondamente, scatenando strali sovradimensionati e confermando l’efficacia della violenta presa in giro. Nelle molte analisi, reprimende e tirate sociologiche sul film nessuno ha infatti sottolineato la componente più chiara, cioè che quell’orrido Ruggero, quella figura onnipresente e mostruosa (a partire dalla maschera invecchiante per finire agli atteggiamenti crudeli) che dà loro così fastidio, in realtà li rappresenta, o meglio rispecchia il modo in cui i giovani li vedono e ridono di loro, un sentimento che non è isolato ma nazionalpopolare, sebbene sia proprio di una sola fascia d’età e diretto contro un’altra.


Gabriele Niola

Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.

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