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Schermo delle mie brame/02

Dallo sfondo allo specchio

La pervasività delle immagini e dei dispositivi li rende parte del nostro quotidiano al punto da non renderci più nemmeno conto delle loro caratteristiche. Ci rispecchiamo, ma non ci fidiamo più.

Se c’è una presenza pervasiva, ubiqua, costante di cui non ci rendiamo più conto, tanto essa colma ogni orizzonte del nostro sguardo nella vita quotidiana, questa è lo schermo. Fino a qualche decennio fa, quando pensavamo alla parola screen, écran, pantalla, schermo ci veniva in mente anzitutto un rettangolo bianco che avrebbe potuto accogliere immagini proiettate o retro-proiettate. Ancor prima lo schermo aveva una consistenza materica, era un lenzuolo teso, la cui bianca presenza troneggiava nelle sale del cinema, nelle arene all’aperto, nei teloni nelle proiezioni familiari. La sua bianchezza si sostituiva negli intervalli delle proiezioni a ricordare che un supporto materiale ci separava da esse. Su di esso d’estate nelle arene dei posti di mare passeggiavano le lucertole. Il sogno, in molti film, di cui uno degli più rappresentativi fu negli anni Novanta, La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, era di poter entrare nello schermo e vivervi in mezzo agli attori. Lo stesso sogno del racconto de L’isola di Morel di Bioy Casares, un isola che era nient’altro che la resa in 3d (allora non si chiamava così) di una narrazione filmica in loop. Il naufrago che vi capitava si trovava dentro la narrazione ma non poteva prendervi parte. Da allora le cose sono cambiate alquanto. 

Chi guarda nello schermo del computer o del telefono vede il proprio sguardo, non riesce più a distinguere tra le immagini rappresentate e il fatto di guardarle. A un certo punto la familiarità è così spinta da indurci a pensare che lo schermo sia uno dei nostri sensi e allo stesso tempo, se dobbiamo soffermarci sulla sua materialità, la sola cosa che ci viene in mente è uno specchio.

Lo schermo familiare del computer ha realizzato una rivoluzione dello sguardo di natura radicale. Siamo passati da un uso dello schermo come lavagna luminosa dove scrivere testi e guardare immagini a qualcosa di molto più intimo. Attraverso l’interattività lo schermo è diventato qualcos’altro, molto più familiare dello schermo stesso. Non c’è stato più bisogno di perseguire il sogno dell’entrare nello schermo. È diventato uno specchio la cui natura misteriosa ha inglobato in sé il nostro sguardo, al punto da farci confondere con esso. Chi guarda nello schermo del computer o del telefono vede il proprio sguardo, non riesce più a distinguere tra le immagini rappresentate e il fatto di guardarle. A un certo punto la familiarità è così spinta da indurci a pensare che lo schermo sia uno dei nostri sensi e allo stesso tempo, se dobbiamo soffermarci sulla sua materialità, la sola cosa che ci viene in mente è uno specchio. Lo schermo dei device che oggi usiamo è anzitutto riflettente. Ci sono momenti in cui afferriamo pezzi del nostro volto, dei nostri occhi riflessi nei cristalli liquidi dei monitor. Il processo da schermo a specchio è diventato completo con Skype, Zoom e tutte le piattaforme che abbiamo usato nella pandemia. In esse abbiamo proiettato la nostra presenza per connetterla a quella lontana di altri. E nel farlo ci siamo specchiati doppiamente. Non solo nel riflesso sui monitor, ma nell’immagine di noi che possiamo vedere mentre viene vista. Siamo diventati non solo il nostro sguardo, ma lo sguardo che si posa su di noi. Questa sovrapposizione è talmente fitta e densa da farci dimenticare della sua potenza.

Attraverso lo specchio

La nostra immagine adesso è l’immagine riflessa da uno specchio che può essere vista “attraverso lo specchio” da altri. Lo sguardo dello sguardo dello sguardo, il riflesso del riflesso del riflesso. Siamo talmente abituati a questa operazione da privilegiarla – per alcuni, per moltissimi – alla presenza reale, alla visione, all’offerta della nostra immagine in carne e ossa allo sguardo altrui. È come se l’operazione che in passato veniva fatta, quando prima di uscire di casa ci ricomponevamo di fronte a uno specchio, fosse permanentemente in atto. Siamo disponibili allo sguardo altrui e nello stesso tempo al riflesso dello sguardo altrui su di noi. La differenza rispetto al passato è che lo sguardo altrui si confonde a tal punto con il nostro da illuderci si tratti di una sola cosa. In altre parole, e recuperando una riflessione che negli anni Settanta e Ottanta era elaborata da Baudrillard e da Flusser, c’è qui la questione di un simulacro che si sostituisce all’immagine di noi stessi. Come se privilegiassimo il nostro riflesso allo specchio sul soggetto che vi si riflette. Siamo il fantasma di noi stessi che prende corpo solo quando il nostro sguardo si fonde con quello altrui. In più lo siamo perché diventiamo parte di una narrazione continua il cui frame permanente è lo schermo. Lì appariamo, interagiamo, ci arrabbiamo, sorridiamo. Ma alcune azioni diventano impossibili. Guardarsi negli occhi, per esempio, è impossibile come lo è guardarsi nei propri occhi allo specchio. 

Siamo il fantasma di noi stessi che prende corpo solo quando il nostro sguardo si fonde con quello altrui. In più lo siamo perché diventiamo parte di una narrazione continua il cui frame permanente è lo schermo. Lì appariamo, interagiamo, ci arrabbiamo, sorridiamo. Ma alcune azioni diventano impossibili. Guardarsi negli occhi, per esempio.

Non è possibile quel double check che la realtà ci consente. Nella presenza di fronte a qualcosa o a qualcuno possiamo cambiare punti di vista, per mettere in dubbio o verificare se quello che vediamo sia vero. Quello che vediamo allo schermo è sempre vero, proprio perché non lo è mai. Non possiamo dubitare del riflesso del nostro sguardo nello schermo altrui, però c’è in tutto questo un regime di verità ambiguo. Anzi la questione non si pone, perché il regime di verità è costantemente sostituito da un regime di sguardo. Non so se è vero quello che vedo, sicuramente quello che accade nello schermo, su di esso, lo è, per il solo fatto che vi compare. Abbiamo sostituito a un regime di verità un regime di apparizione. Le cose, le persone, appaiono sullo schermo, e lì sono indubitabilmente vere della propria verità di riflessi. Oggi tale regime è talmente diffuso da avere incrementato la nostra insicurezza. Tutto è talmente verosimile da farci pensare che tutto è una messa in scena. Chi ci racconta di posti e avvenimenti lontani ci invia immagini che diventano immediatamente sospettabili perché credibili. Ma esse non sono garantite da niente. Può darsi che qualcuno le abbia alterate, può darsi che siano avvenute in tempi lontani spacciati per vicini.

Qualcuno vuole convincerci con evidenze, ma è l’insieme di tutto ciò a indurci a dubitare. La cosa incredibile è che il regime delle evidenze riflesso negli schermi oggi ci abbia posto in una situazione di incredulità e cinismo mai sperimentata prima dall’umanità.


Franco La Cecla

Antropologo, insegna in Naba a Milano Visual Culture e in Iulm Milano Arte e Antropologia. Ha pubblicato con Anna Castelli Scambiarsi le Arti, Arte & Antropologia (2022) e Tradire i sentimenti, rossori, lacrime, imbarazzi (2022).  Altri lavori recenti, Essere Amici (2019) e il documentario È assurdo per un bianco essere in Africa.

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