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Flop digitali

Crowdfunding. Il cimitero dei flop

Ci sono flop scritti tra le righe del modello di business, che restano esposti a imperitura memoria: una fenomenologia del fallimento nel mondo del crowdfunding.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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C’era una volta il suono assordante del flop. La sua magnitudo era enorme, in grado di propagarsi come un fungo atomico sulle ambizioni mondiali dello sviluppo culturale, economico, tecnologico. Il fallimento del lancio dello Shuttle, il fallimento de I cancelli del cielo, il fallimento di Horcynus Orca. I flop del XX secolo erano speculari all’influenza seminale dei maxi-successi globali o nazionali: tragedie simboliche e commerciali insieme, in grado definire da sole l’intensità della crisi di un progetto politico, un settore industriale, un’azienda, un leader. Oggi, invece, all’epoca delle nicchie e della polverizzazione dei successi, il fallimento è diventato – sempre specularmente – un fatto ordinario.

La rete si è rivelata il nuovo grande catalizzatore dei flop, su scala ridotta ma con diffusione costante. E l’industria che applica una specie di fordismo alla produzione di piccoli sfracelli online è quella del crowdfunding. Perché se la sharing economy è la frontiera della progressiva democratizzazione dei mercati, alle sue radici pare proprio esserci la creazione seriale di flop.

Un cimitero di flop

Dalle più celebri piattaforme di crowdfunding reward-based alle iniziative di crowdlending o di equity crowdfunding, da Kickstarter o Indiegogo ad AngelList o CircleUp, il filo rosso delle performance non sta tanto – o non solo – nei capitali raccolti o nelle fortune create, ma nel tasso di fallimento. Un’evidenza sempre più banale nell’industria digitale, che ha abbracciato una “cultura del fallimento” (fail fast, fail often, recita uno dei tanti mantra della Silicon Valley) come dato naturale: non tutti i progetti, prodotti o imprese che siano, riescono a trovare il proprio posto al sole; e anche quelli che sembrano farcela possono facilmente bruciarsi nelle fasi successive.

Prendiamo l’esempio di Kickstarter. Le cifre chiave, dichiarate dal sito a beneficio dei data-enthusiast alla pagina stats del sito, raccontavano a settembre 2018 di ben 150 mila progetti finanziati, per un valore complessivo di 3,9 miliardi di dollari. Più sotto, il totale dei progetti lanciati: 418 mila. Il delta tra launched e funded era dunque 268 mila, ovvero il 64%. Quasi due terzi di flop. Breve storia triste: il 13% circa (55 mila) non era riuscito a raccogliere nemmeno un dollaro. Seguendo l’analisi di Mickaël Mouillé e Data Is Beautiful, disaggregata per le 15 categorie di Kickstarter, solo quattro aree progettuali (musica, teatro, fumetti, danza) avrebbero portato a casa, entro fine 2017, più successi che flop. Anche nel campo dell’equity crowdfunding i flop sono (molto più che) comuni. Seedrs, una delle principali piattaforme britanniche in questo settore, ha rivelato che il 41% delle aziende che avevano raccolto liquidità tramite la piattaforma da metà 2012, a fine 2015 avevano perso valore. A fine 2016 un’analisi più ampia, condotta da AltFi Data su un campione britannico di sei piattaforme, indicò solo 5 exit (ROI positivi) su 955 round di investimenti in 751 aziende.

Le metriche per valutare il successo di un’iniziativa crowdfunded, tuttavia, sono numerose. Il rapporto tra obiettivo e fondi raccolti è solo il primo e più macroscopico. Ma la vastità di cui è composto questo universo di insuccessi è tale da richiedere, ormai, l’osservazione di altri indicatori, relativi al post-funding. Nelle piattaforme online, cimiteri navigabili che conservano memoria di tutti i flop, giacciono milioni di fallimenti le cui forme, o le ratio, si potrebbero ricondurre ad alcuni grandi pattern: i quattro livelli del flop ordinario.

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Fenomenologia del crowdfunding flop

Attention flop > Disinteresse. In un brillante e spassoso intervento per New Statesman, lo scrittore Will Self ha provato a ribaltare la teoria della “saggezza della folla” di James Surowiecki, raccontando la storia di un ordinary man che, una sera, postò su una piattaforma online una richiesta di fondi per un progetto patetico: preparare una torta per la madre. Dopo pochi giorni quell’uomo si ritrovò finanziato da ben 49.000 dollari. Altro che saggezza, le folle fanno idiozie, scriveva Self. Ma anche una rarità tale da meritare un pezzo letterario: la verità è che gran parte dei progetti proposti sono talmente irrilevanti, derivativi, inutili, brutti o mal proposti che non è difficile capire perché Kickstarter & C. sono pieni di flop. Nel 2015 Stephen Lauzatus lanciò Induratus, un complesso sistema di bunker sotterranei finalizzato a mettere in sicurezza gruppi di 500 persone. Il suo impegnativo obiettivo di budget era di 4,9 milioni di dollari canadesi; portò a casa un dollaro. La legge del disinteresse dei consumatori, all’origine di tanti flop storici – dischi invenduti, biglietti mai staccati – nel mondo del crowdfunding si esprime attraverso un deficit di attenzione che mette sullo stesso piano i progetti con richieste da pochi spiccioli e quelli con obiettivi multimilionari: non-mi-interessa moltiplicato per X. Punto. La rete è grande, ma non abbastanza per generare gratificazione economica per le ambizioni di tutti; in questo, forse, il crowdfunding non è che uno specchio della banale realtà sociale in cui tutti siamo immersi.

Timing flop > Obsolescenza. Il superamento della soglia della raccolta fondi è la forma di successo che le piattaforme amano raccontare. Ma in realtà il post-funding nasconde molte insidie, la meno “materiale” delle quali è, almeno in apparenza, il tempo. Realizzare un prodotto o un servizio, per quanto buono sembri al momento del lancio, può trovare un ostacolo nei mesi del go-to-market. E il settore delle tecnologie può soffrire molto per un timing sbagliato, come numerosi progetti hanno dimostrato. Fra i tanti esempi, come gli accessori per modelli di smartphone o tablet ormai superati, è emblematica la storia di Angel Sensor, un fitness tracker open source lanciato su Indiegogo nel 2013. I ritardi di produzione lo fecero però uscire a fine 2015, un anno dopo l’arrivo di Apple Watch. Il mercato, nel frattempo, era diventato ipercompetitivo e dotato di un’offerta di qualità superiore. Angel Sensor era stato progettato all’avanguardia, ma alla nascita era già vecchio; l’azienda ha chiuso a fine 2016. Un esempio differente è ZumZum Bike, bicicletta in legno pensata per i bambini fra 1,5 e 4 anni. Dallo splendido progetto ergonomico e dal design elegante, il progetto venne lanciato su Kickstarter a fine 2014. A oggi, però, non è stata consegnata. Forse non arriverà mai – l’ultimo update dei progettisti è di aprile 2016; nei commenti, i backers parlano ormai di truffa – ma non è questo il punto. Se anche il prodotto dovesse vedere la luce, il flop è assicurato da una forma particolare di obsolescenza: a essere invecchiato non sarà il prodotto, ma gli utenti per cui era stato pensato. Ipotizzando che un genitore l’avesse acquistata per un figlio nato al momento del lancio, sarebbe ormai fuori dal range di età previsto per il suo utilizzo.

Execution flop > Delusione. Crystal Wash 2.0 propose nel 2015 un sistema rivoluzionario per lavare capi in lavatrice: sfere in bio-ceramica che usano “proprietà antibatteriche e antiossidanti che non richiedono detergenti, prodotti chimici o profumi”, con una vita media di 1.000 (mille) lavaggi. Una volta consegnate, i tester di reviewed.com giunsero alla conclusione che “Crystal Wash non funziona in alcun modo meglio della semplice acqua calda”, ricordando come analoghi progetti erano stati già bollati, in passato, come fuffa priva di sostanza scientifica. Ben più celebre e chiacchierata di Crystal Wash, Ouya è una console rivoluzionaria (open source, orientata agli sviluppatori, dotata di molti giochi free to play, design ganzissimo) che raccolse 8,6 milioni di dollari – il nono progetto più finanziato di sempre via Kickstarter – e un notevole entusiasmo nella comunità dei gamer. Tuttavia la release nel 2013 presentò problemi: il controller non funzionava bene, c’erano difetti di connettività, i giochi funzionavano meglio su smartphone che sulla console e il catalogo in fin dei conti era limitato e privo di titoli killer. Il risultato è che nel 2015, dopo un cambio di proprietà, Ouya uscì di produzione. La distanza tra attese e realtà è una delle ragioni più emotivamente potenti nel determinare i flop post-funding. Poiché l’innesco di un processo di crowdfunding si fonda su una promessa, il patto tra proponente e sostenitore è basato sulla fiducia. E l’intensità dell’hype può diventare un presupposto per il suo tradimento. Al solito, il confine tra fiducia e illusione è labile, e di mezzo c’è la frizione delle dinamiche concrete, umane e organizzative, che possono essere non prevedibili o, nei casi più truffaldini, essere tenute nascoste o persino negate. Una cattiva progettazione o difetti di produzione, persino la mala gestione aziendale (è il caso della crisi di centinaia di piattaforme di crowdlending in Cina nell’ultimo anno), possono determinare un lancinante “danno simbolico” all’utente nella fase dell’uso: la delusione. Dispositivi tecnologici perfetti, abiti splendidi, accessori domestici essenziali, metodi di risparmio sicuri… sognare è sempre possibile, ma non è tutto oro quello che è crowdfundabile.

Scam flop > Illecito. I casi più estremi, che periodicamente emergono in gustose sintesi giornalistiche intitolate “Ten largest crowdfunding failures”, sono spesso misurati usando il criterio della “realtà” dei progetti rispetto al budget raggiunto: più grande è la somma raccolta, maggiore è la magnitudo degli attention/time/execution flop. Eppure le esperienze più negative andrebbero misurate parametrando l’output all’impegno dei sostenitori: cosa ha ottenuto ciascun finanziatore? La risposta più tragica a questa domanda è una sola: nulla. Nel 2016 il Financial Times e altre testate riportavano il caso di Rebus, start up del settore assicurativo (gestione dei sinistri) che aveva raccolto nel 2015, tramite Crowdcube, oltre 800.000 sterline. L’obiettivo dichiarato era vendere quote per finanziare il proprio sviluppo, con la promessa di interessanti profitti; se non che, sette mesi dopo avere raccolto i finanziamenti, Rebus finì in amministrazione controllata. Come era stato possibile? Gli investitori, scottati, scoprirono che Rebus aveva evitato di rappresentare nel proprio pitch una pesante situazione finanziaria, con enormi carenze nella gestione del cash flow. Rebus è rimasto alle cronache come il più grosso flop nel mondo dell’equity crowdfunding, ma non è certo il solo ad avere bruciato tutti i fondi degli investitori per via di probabili – o accertati – illeciti amministrativi. Una donna di nome Jennifer Flynn Cataldo lanciò due campagne su GoFundMe, nel corso del 2016, chiedendo aiuto finanziario con cui coprire le salate spese mediche relative alla sua malattia: un tumore in fase terminale. La piattaforma le permise di raccogliere 38.000 dollari, ma un anno dopo la donna venne arrestata per truffa. Non solo il cancro si era rivelato un’invenzione, perfetta per spillare quattrini da una piattaforma per il sostegno di cause personali, ma non era che un frammento di un più ampio raggiro che aveva coinvolto, per anni, anche amici e parenti. I sostenitori di Jennifer avrebbero perso inutilmente i propri soldi, se un tribunale non avesse imposto una confisca dei suoi beni per il risarcimento.

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Memento flop

Fallire, si sa, è normale. Numerose statistiche dell’attività economica lo dimostrano: il 50% delle PMI statunitensi chiude entro 5 anni, il 70% entro 10 anni; il 75% delle aziende sostenute da venture capital è destinato al fallimento; eccetera. Il tasso di flop nel crowdfunding è dunque elevato, forse persino più dell’universo complessivo degli insuccessi imprenditoriali. Ma il vero nodo, in attesa di statistiche in grado di illustrare per bene la complessa specificità del failure rate ai tempi della sharing economy, è un altro: il crowdfunding ha reso questa verità visibile, a tutti e in ogni momento. Le piattaforme ci rendono tutti spettatori e testimoni di un qualche flop. Il loro più profondo ruolo sociale, in quanto database e archivi sempre disponibili a futura memoria, è quello di fare da memento dei tanti piccoli flop che popolano la nostra quotidianità online.

Forse una delle più tristi rappresentazioni della “banalità del flop” che il crowdfunding rende visibile viene dalla piattaforma Patreon. La sua logica differisce non tanto nel modello, un canonico reward-based, quanto nell’oggetto del funding: non un prodotto o un’azienda, ma un individuo. Patreon – da patron, “mecenate” – permette infatti di finanziare la creatività continuativa di singoli maker, con un contributo accreditato regolarmente sul conto del finanziatore. L’utopia in gioco è una specie di mecenatismo diffuso, e oltre 120 mila creativi – musicisti, giornalisti, videomaker, disegnatori – popolano ormai la piattaforma. Tuttavia la rivista Outline ha fatto qualche calcolo a fine 2017, scoprendo che solo il 2% dei creatori otteneva tramite Patreon un introito superiore al salario minimo statunitense. Un ulteriore bagno di realtà: se per un artista il punto, o quantomeno la tensione ultima, è quella di vivere della propria arte, Patreon offre la dura conferma di quanto sia vero, nonostante la “democratizzazione del mecenatismo”. Non solo: il suo rendere evidente il fallimento di decine di migliaia di maker produce una nuova asimmetria all’interno del mondo crowdfunding, fra chi “ce l’ha fatta” e chi invece si vede costretto a fare ricorso alle piattaforme non individuali ma project-based (come Kickstarter), spingendo ogni volta la carretta della singola campagna per ogni singola iniziativa. La sola esistenza di Patreon genera dunque un delta di credibilità che condanna un’infinità di creativi al flop definitivo, quasi esistenziale: la cristallizzazione di un valore artistico “inferiore” a qualcun altro, misurabile, aggiornato alle sue prosaiche variazioni quotidiane e visibile a tutti.

Il crowdfunding che ci rende tutti angel investor e/o mecenati illuminati, lascia dunque sul terreno una testimonianza spietata – perennemente consultabile – del fallimento diffuso, costante, trasversale delle aspirazioni umane. E siccome i finanziatori/backer siamo noi, ogni fallimento è in parte anche un fallimento della “folla”: l’inetto è lui che non è bravo/capace, o sono io che gli ho dato credito? Shame on you, shame on us.  Forse il crowdfunding è davvero il fiore all’occhiello della sharing economy. Ma è al contempo il più efficace sistema di rappresentazione delle sue premesse antropologiche. Il flop, c’est moi.


Matteo Stefanelli

Analista presso OssCom e docente di Linguaggi Audiovisivi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano, dirige il magazine Fumettologica.it. Fra le sue pubblicazioni: Il Secolo del Corriere dei piccoli (2013), La bande dessinée: une médiaculture (2012), Fumetto! 150 anni di storie italiane (2012).

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