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Comedy

Come si Lol nel resto del mondo

Tante parole sono state spese su Lol, in una quantità persino inattesa. Ma dove stanno le radici del programma? E come si inserisce l’edizione italiana tra le molte versioni prodotte in tutto il mondo?

Tanti anni fa avevo la videocassetta di uno spettacolo di Aldo, Giovanni e Giacomo, I corti. Erano dieci sketch di durata decrescente, l’ultimo dei quali annunciato come “Lo zero comico”. In contrasto con il titolo altisonante, il dischiudersi del tendone svelava un saltellante Giacomo nelle vesti di Tafazzi, popolare personaggio di Mai dire gol che, ripetendo un coro da stadio a mo’ di mantra, si sbatteva ritmicamente una bottiglia di plastica sul pacco. Ho ripensato spesso a questo sketch nelle ultime settimane, durante la visione (ripetuta) di Lol. Chi ride è fuori, e ogni volta che mi sono imbattuto in uno dei tanti meme da questo ispirati. Perlomeno in Italia, definire questo reality comedy – o competition comedy, se vi piace di più – come un evento sarebbe riduttivo.

Ne hanno parlato un po’ tutti (ad Aldo Grasso non è piaciuto, a Daniele Luttazzi sì), ma aldilà di un hype giustificato almeno dal cast non si può negare che il format abbia un suo carisma. Il concept di base e le regole sono semplici e ben noti, ma l’altro aspetto che colpisce è la natura globale del programma, che nasce da un adattamento. Ideata dal comico giapponese Hitoshi Matsumoto, la versione originale si chiama infatti Documental, per enfatizzare sia l’aspetto reality sia il carattere psicologico della prova, ma nelle sue declinazioni estere (Messico, Australia, Italia, Germania, Italia, Francia, e presto altri) si è trasformato in un più intuitivo Lol. L’ambizione trasversale del format si intuisce già dal cambio di nome, evidentemente ispirato a un netspeak che è internazionale per definizione.

In gara, altrove

Lol è innanzitutto una gara, ma trattandosi di comicità aiuta molto conoscere i contendenti, i contesti da cui provengono, il loro senso dell’umorismo. Guardando l’edizione italiana non ho potuto fare a meno di fare speculazioni sull’incompatibilità tra alcuni comici e i loro linguaggi. In questo senso meta-comico, il confronto tra Caterina Guzzanti (ex Boris) e Pintus (alcune sue battute a tratti ricordavano la famigerata “linea comica” della serie culto) mi ha intrattenuto molto. Considerando poi i grandi dibattiti sul rinnovamento dei linguaggi comici in Italia, trovare esponenti della comicità Zelig e Colorado insieme a rappresentanti della più recente onda di stand-up come Michela Giraud e Luca Ravenna prometteva bene (anche poi il confronto ha un po’ deluso). A parte gli estremi, però, a far andare avanti il gioco sono stati principalmente gli sforzi continui di figure con grossa esperienza (Elio, Lillo), versatilità (Ciro dei The Jackal), ed evidente voglia di mettersi in gioco (Matano, Pintus). C’è anche un grosso lavoro di regia, che gioca molto sui conflitti menzionati sopra.

Guardando le edizioni straniere bisogna rinunciare a parecchi di questi livelli di interpretazione, ma si possono lo stesso apprezzare. Innanzitutto, visivamente tutte le edizioni successive a quella giapponese hanno parecchi elementi in comune: stesso logo, stesse regole, stesso mood. Variano i dettagli grafici, ma è evidente che c’è un allineamento atmosferico. Persino i props stipati nella stanzetta adiacente il soggiorno principale sono gli stessi: se da noi Elio sfoggia un completo da Gioconda e a un certo punto saltano fuori dei costumi da lottatori di sumo, gli stessi outfit li troviamo anche in Germania e altrove. La struttura di partenza e il pantheon di macchiette usa e getta sono quindi abbastanza standard, ma ci sono differenze significative sia a livello di umorismo sia di situazioni – ed è lì che si notano le differenti sensibilità culturali. Sicuramente l’esempio più eclatante è la prima edizione dell’originale giapponese, più hardcore delle sue derivazioni europee. Il cast è interamente maschile, con il risultato che l’atmosfera è da spogliatoio. I confronti fisici sono al limite del bullismo, non si risparmiano gag anali e genitali esposti (anche se pixellati), e l’unico concorrente nero innesca giocosamente reazioni di un razzismo casuale e cristallino che altrove imbarazzerebbero non poco. 

La struttura di partenza e il pantheon di macchiette usa e getta sono abbastanza standard, ma ci sono differenze significative sia a livello di umorismo sia di situazioni – ed è lì che si notano le differenti sensibilità culturali. Nell’originale giapponese il cast è solo maschile e l’atmosfera è da spogliatoio.

Gli australiani sono anche loro molto espliciti: gli umori sono simulati ma copiosi, nudità e riferimenti sessuali non mancano, ma il cast è più misto e si avverte a tratti una sensibilità più politicamente corretta (a un comico di seconda generazione è chiesta la propria provenienza, lui risponde Melbourne, segue il silenzio). Quanto all’edizione messicana, si toccano vette scatologiche molto alte (a un certo punto salta fuori una torta a forma di ano defecante) e un sessismo abbastanza spinto (in un paio di gag ci sono incitamenti e appellativi decisamente più violenti del mignottone pazzo di giraudiana memoria). Contro ogni stereotipo nazionale, i tedeschi sono forse quelli che ridono più di gusto (e sono molto verbali, anche se come detto prima rivediamo la Gioconda e altri gimmick familiari). Senza conoscenze linguistiche si ha un po’ l’impressione di rivedere lo stesso programma più volte, ma scoprire dove si può spingere lo humour nazionale è un test antropologico che vale la pena.

Con moderazione

Contestualizzata a livello globale, l’edizione italiana è quella più moderata. Il linguaggio è soft e filtrato: mancano riferimenti veramente espliciti, e nel suo podcast Fedez ha raccontato di come una prolungata fellatio simulata da Matano sia stata tagliata in montaggio. Si rischia meno anche a livello psicologico e competitivo: mentre quasi tutte le altre versioni calcano molto la mano sul fatto che i soldi del montepremi arrivano da quote versate dai partecipanti (a volte con relativo sketch drammatizzato), da noi sono subito presentati come una generosa somma da donare in beneficienza. A rendere la pressione minore è infine lo studio: molto più grande e dispersivo rispetto ai set/soggiorno delle edizioni estere, lascia ai concorrenti più timidi ampio spazio per defilarsi ed evitare il confronto. Bisogna ammettere che lo svelamento di questa dicotomia antropologica tra comici aggressivi e vittime passive è uno degli aspetti più avvincenti del programma, ma da questo punto di vista la linea tra spontaneità e costruzione televisiva è molto sottile, e la formula italiana sembra quella più diametralmente opposta al “senza filtri” giapponese (ci sono un po’ più telefonate dalla cabina di regia e richiamini all’azione).

Tornando a Tafazzi, quello che sembra unire un po’ tutte le edizioni che ho visto è il fatto che, per quanto si tratti di comici professionisti, la risata non arriva necessariamente dalle battute più intelligenti o creative. Anzi, in questo una frase del creatore Matsumoto, pronunciata in uno dei primi episodi, è abbastanza emblematica: “Per anni ho cercato di essere il più divertente di tutti, ma la persona meno divertente resta comunque più divertente di me”. Questa frase da maestro zen si intona bene con la ricerca quasi mistica dello “zero comico” di cui si diceva all’inizio: se i comici cercano subito di fregare gli avversari esibendosi disperatamente in elaborati personaggi o sketch più o meno preparati (o ancora sfruttando intuizioni geniali), con il passare delle ore si assiste invariabilmente a un abbrutimento e alla familiare stupidera tipica delle nottate tra amici. Alla base della competizione c’è infatti un vuoto comico: il potere infettivo della risata, il suo aspetto sociale e trascinante, è totalmente sgonfiato. Non a caso i concorrenti finiscono spesso a ridere da soli delle loro battute, autoeliminandosi nell’indifferenza degli avversari. In questa situazione, il linguaggio a soffrire di più è quello della stand-up (che necessita di ambienti angusti e calore umano), mentre a premiare sono spesso lunghe ed estenuanti performance fisiche (il tip tap o i versi al microfono di Elio). Banalmente, la stanchezza mentale e muscolare sembra prendere il sopravvento sul senso dell’umorismo più cerebrale.

Tanti format, momenti più o meno giusti

Lol è allora interessante a livello di format. Non tanto perché il concetto sia la cosa più innovativa del mondo, quanto perché incarna la convergenza di una serie di elementi nel posto e nel momento giusto. Di competizioni tra comici negli anni se ne sono viste parecchie: da quelle più strettamente talent (Last Comic Standing per la stand-up, da noi riproposto in chiave cabaret come Eccezionale veramente) a formati fantasiosi e ibridi. Già nel 2004 infatti Endemol aveva tentato un mix reality/comico in Inghilterra con Kings of Comedy, chiudendo vari esponenti di vecchia e nuova scuola in una casa alla Grande fratello. Non andò benissimo: ci furono problemi con il televoto, diversi comici espressero da subito il desiderio di abbandonare il programma, e l’esperimento di Channel 4 durò solo una stagione. Pochi anni dopo, dall’Australia arrivò Thank God You’re Here!, primo mix di successo tra comicità improvvisata e competizione. L’idea era: si prendono ospiti dal mondo dello spettacolo e li si mette (singolarmente) in uno sketch comico di cui non conoscono la trama. Alla fine, chi riesce a reagire e interpretare la situazione improvvisando al meglio vince. Il format ebbe successo soprattutto nel mondo anglosassone, dove la comicità improv è molto radicata, ma ci fu anche un adattamento italiano intitolato Grazie al cielo sei qui! su La7. Anche se l’esperienza non ebbe grande seguito (durò una stagione), il caso molto simile di Buona la prima! con Ale e Franz (sempre basato su comicità improvvisata, senza gara) è stato molto più fortunato e longevo.

Alla base della competizione c’è infatti un vuoto comico: il potere infettivo della risata, il suo aspetto sociale e trascinante, è totalmente sgonfiato. Non a caso i concorrenti finiscono spesso a ridere da soli delle loro battute, autoeliminandosi nell’indifferenza degli avversari. Banalmente, la stanchezza mentale e muscolare sembra prendere il sopravvento sul senso dell’umorismo più cerebrale.

Secondo Axel Fiacco, esperto di format, il successo di Lol viene più dal suo impianto competitivo che da quello comico. “Da dieci anni a oggi l’Italia è rimasta abbastanza indietro rispetto al panorama globale dei format, e Lol sicuramente è stato percepito come qualcosa di nuovo. Amazon ha voluto comunicare la differenza rispetto alla tv tradizionale e ci è riuscita in pieno. Se pensi agli ultimi format che sono stati adottati e sono andati molto bene in Italia – Pechino Express, Il collegio – erano stati lanciati all’estero più di una quindicina di anni fa. Con Lol invece siamo perfettamente sincronizzati con il resto del mondo”. Il carattere globale di Lol è infatti tale non soltanto dal punto di vista della risata. C’è anche una strategia distributiva, con implicazioni economiche ancora non del tutto chiare nemmeno agli addetti ai lavori. In questo il format può essere paragonato a un altro grande successo distribuito su una piattaforma SVOD: The Circle. Dopo averlo lanciato oltremanica su Channel 4, la casa produttrice ha venduto i diritti globali a Netflix, con un guadagno più immediato sul breve periodo. Nel caso di Lol, Amazon ha avuto da subito un maggior controllo sul prodotto di Matsumoto, riuscendo a ottenere un lancio internazionale quasi sincronizzato che fino a poco tempo fa sarebbe stato forse impensabile. Per Fiacco tali dinamiche potrebbero senza dubbio portare a un cambio di passo all’interno del settore, e dal punto di vista della diversità di offerta è un apporto positivo. “Una delle critiche che i format hanno sempre avuto è che portano omogeneità, ma personalmente penso il contrario. I format sono un prodotto globale, ce ne sono da tutte le parti del mondo, ed è bello poter prendere i migliori ovunque siano. In Italia la tendenza è stata sempre a chiuderci, mentre i format portano apertura, non chiusura”.

Ecco, Lol è perlomeno un esperimento interessante, un’occasione non solo per intrattenersi in modo (un po’) diverso, ma per visitare altre culture della risata e riavvicinarsi allo zero comico comune. In tempi di pandemia, non potendo viaggiare, anche queste forme di condivisione sono molto utili.


Nicola Bozzi

Giornalista e ricercatore. Ha scritto per diverse pubblicazioni internazionali, tra cui Domus, Frieze, Prismo, NOT e Wired Italia. Ha una newsletter su comicità, media e cultura che si chiama Letdown Comedy. Su Twitter è @schizocities.

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