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Cinema

Questione di stile

Classico e post-classico, moderno e post-moderno. Se si parla di cinema americano, non si possono mai separare fino in fondo la creatività autoriale e l’apparato industriale.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017

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Da sempre, nel mondo del cinema, i paradigmi di business e i corrispondenti modi di produzione influenzano le forme testuali (generi, strutture narrative, stile). Sono stati proprio i fattori industriali a definire le linee-guida formali del cinema classico hollywoodiano, la sua grammatica e il suo linguaggio, come sempre i fattori industriali hanno incoraggiato il loro parziale stravolgimento nel cinema degli ultimi decenni.

Il periodo classico è quello dell’età d’oro del cinema americano, che si colloca temporalmente tra due sentenze della Corte Suprema statunitense: quella del 1915, che dichiara illegale il trust di Edison, e quella del 1948, che stabilisce che gli Studios configurano una situazione di oligopolio e concorrenza sleale e li obbliga ad abbandonare il settore dell’esercizio. Come scriveva il critico e teorico del cinema André Bazin, il primo a riferire l’aggettivo “classico” al cinema statunitense di questo periodo, il “genio cinematografico americano” andrebbe definito e analizzato secondo una “sociologia della produzione”. “Verso il ’38 [ma anche prima] i film erano montati secondo gli stessi principi”, e non solo montati, per la verità, ma anche scritti, diretti, fotografati. “In ultima analisi”, aggiungeva Truffaut, “noi amiamo il cinema americano perché tutti i film si somigliano l’un l’altro”. In effetti il cinema classico non è fatto primariamente di film rappresentativi o di autori particolari, perché è piuttosto un sistema, produttivo e culturale.

Il sistema narrativo e produttivo classico

Questo sistema si è distinto per particolari strategie di produzione, che a loro volta determinavano delle regole di organizzazione testuale. Partiamo, per esempio, dai 2-3 formati-tipo: i film di categoria A, che erano a loro volta divisi in top (i più costosi, con le star più quotate, ma pochi) e medium (la produzione standard, con star di secondo piano e budget medio); e i film di categoria B – i B-movie appunto – prodotti in batteria, con star poco note o poco pregiate, a basso costo. L’adozione di questi formati derivava dalla necessità di comporre un portafoglio di investimenti variegato ed equilibrato sotto il profilo del rischio di impresa. Non si potevano avere solo film A-top: troppo costoso e dunque rischioso. Bisognava dunque abbassare l’esposizione, puntando su una maggior consistenza del segmento di A-medium e della linea B, che garantiva le maggiori marginalità.

Riguardo ai generi, sappiamo che le case hollywoodiane erano specializzate ciascuna in alcuni di essi. Una scelta fatta primariamente per motivi economici-finanziari. L’idea stessa di specializzarsi era una diretta conseguenza della necessità di avere processi produttivi più standardizzati ed efficienti. Quanto poi a quali generi scegliere, era la forza finanziaria dei vari soggetti a guidare gli orientamenti (e così, la più povera Universal puntava su generi meno costosi come l’horror e il crime; le più ricche Paramount e Mgm avevano in portafoglio i film d’avventura e i musical più fastosi).

Anche la scelta dei temi e dei valori promossi dal cinema classico risente di pressioni economiche e politiche. Dobbiamo premettere che i film erano molto esposti ai dispositivi di censura perché in base a una sentenza del 1915 della Corte Suprema non godevano delle garanzie costituzionali circa la libertà di espressione, dal momento che erano considerati prodotti puramente commerciali. E per questo erano spesso colpiti da provvedimenti restrittivi emanati dalle numerose censure statali e regionali, che comportavano considerevoli inefficienze e diseconomie. Per mettere fine a questa situazione, nel 1934, gli Studios, tramite la loro associazione di categoria – la Mppda, guidata da Will Hays – si decisero ad applicare con rigore un Codice di autoregolamentazione che era stato già promulgato nel 1930, ma che fino ad allora era stato poco osservato. Il Codice richiedeva una chiara distinzione bene/male e una netta sanzione del male (punizione dei malvagi); prescriveva il divieto di portare la simpatia del pubblico dalla parte del male, del crimine, del peccato (per esempio facendo interpretare il villain da una star di richiamo); incoraggiava la rappresentazione e la promozione di standard di vita positivi e legalistici, con la sola eccezione di quanto strettamente richiesto dalle esigenze drammaturgiche (prevedendo l’introduzione di “compensating moral values” – punizioni e sanzioni per i malvagi, ma anche conversioni e riscatti – laddove le storie prevedevano personaggi che compivano azioni negative). L’applicazione rigorosa del Codice comportò dunque una rapida eliminazione di violenza, sesso, turpiloquio; e l’abbandono di tutti i soggetti più scabrosi – per esempio, il triangolo amoroso o l’ascesa dei signori del crimine. Ma soprattutto ebbe un impatto sulle strutture drammaturgiche della classicità. Se infatti il protagonista non poteva più essere un villain (come per esempio succedeva nel gangster film) o, comunque, non poteva più esserci la figura di un antagonista affascinante, come dar vita a una dialettica drammaturgica intensa e interessante? Fare film solo con protagonisti buoni, interpretati dalle star di richiamo, e antagonisti cattivi e interpretati da attori di second’ordine, non avrebbe portato molto lontano. Ecco allora che gli sceneggiatori di Hollywood, un po’ alla volta, iniziarono ad articolare il nuovo motore drammaturgico del conflitto attorno a due personaggi, entrambi protagonisti positivi (official hero vs. outlaw hero). Solo che uno incarnava le istanze dell’ufficialità, della regolarità, dell’istituzionalità, della comunità, della cultura; e l’altro le istanze dell’irregolarità, della spontaneità, dell’individualità e della natura. Due protagonisti assai diversi quanto a sistema di valori e a caratteri, che si trovano a vivere un duplice conflitto: il conflitto dell’uno con l’altro; e il conflitto di entrambi con il cattivo di turno, che comunque rimaneva, diventando il nemico comune dei due eroi. Una soluzione brillante, che ritroviamo in tutti i generi classici – dal western di Sfida infernale al dramma di Le due strade e Casablanca – e che ci chiama anche a una riflessione meno dogmatica circa i rapporti tra libertà creativa e vincoli posti dal contesto industriale, politico e sociale.

Soprattutto, però, è la continuity la chiave dello stile classico hollywoodiano, l’idea che l’ha fondato dal punto di vista linguistico, definendone le regole. Un’idea che nasce anch’essa da alcune necessità industriali e produttive. L’industria cinematografica statunitense, rilocatasi in California negli anni Dieci, aveva presto introdotto un’importante innovazione di prodotto, cioè il passaggio dal film a singolo rullo a quello a più rulli. Dall’aumento della durata derivava la possibilità di rendere giustizia a storie più lunghe – buona parte del cinema statunitense dell’epoca era costituita da adattamenti letterari, che in undici minuti risultavano decisamente sacrificati – e al contempo derivava la possibilità di affermare il cinema come una forma di intrattenimento più seria e rispettabile (dunque la possibilità di una ridefinizione del target). Il lungometraggio, assieme all’aumento della domanda e dunque del volume di output, comportò la necessità di efficientare la produzione razionalizzandone i processi. Lo strumento operativo che favorì tutto questo fu la continuity script, la sceneggiatura in continuità, che indicava e numerava ogni singola scena, specificava le inquadrature, i dialoghi, l’azione; permetteva di stimare il numero di giorni e il costo delle riprese prima di girare; e rendeva possibile la pianificazione della lavorazione, che non doveva più essere necessariamente “in sequenza” rispetto allo svolgimento della storia, ma poteva essere ottimizzata secondo criteri geografici (prima tutti gli esterni nello stesso luogo), fotografici (prima tutti i totali, poi i primi piani), o d’altro tipo ancora.

Ora, questa modalità produttiva richiedeva il rispetto di regole che alla fine permettessero il corretto e invisibile incastrarsi di ogni inquadratura: per questo vennero una volta per tutte codificati il movimento nello spazio, l’entrata e l’uscita dei personaggi, i raccordi ammissibili o vietati, dando luogo a vere e proprie “leggi” della messa in scena (come quella dei 180°) o “divieti” (come quello dello scavalcamento di campo). Il primo obiettivo, come rimarcano le pubblicazioni di settore dei primi anni del cinema classico, era il conseguimento di un ben preciso effetto sullo spettatore: la percezione di una “unbroken continuity or perfect cohesion of story unity”, della fluidità dell’azione, della sua perfetta connessione, in ragione di una stringente logica di causa-effetto e della continuità della linea dello sguardo (uno stile “perfino troppo ovvio”, com’è stato definito da Bordwell, Staiger e Thompson (1)D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Routledge, Londra 1988.). Ma un secondo fondamentale obiettivo era appunto quello di standardizzare le operazioni, in un contesto produttivo in cui il regista – ricordiamolo – era considerato più un operaio specializzato che un autore.

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Uno stile hollywoodiano opposto

E tuttavia che questo stile non fosse affatto “ovvio”, per quanto sia stato il mainstream del linguaggio audiovisivo per molti anni e anche per questo sia stato battezzato “classico” (perché ciò che è classico non passa mai di moda) – lo dimostra il fatto che da un paio di decenni siamo testimoni dell’emergere di uno stile hollywoodiano ben diverso (motivato anch’esso, guarda caso, da ragioni economiche e industriali). I “puzzle film”, i “mind-
game movie”, i “criss-crosser”, i film “modulari” o “forking path”, come sono chiamati, costituiscono una tendenza interessante del cinema contemporaneo che spesso gioca con storie intricate, complesse, narratori inattendibili, linee narrative multiple, punti di vista inusuali, loop narrativi, flashback non segnalati. Sono film che talvolta giocano con i propri protagonisti (anche in condizioni mentali estreme o patologiche di paranoia, schizofrenia, amnesia): personaggi che non capiscono tutto, che confondono realtà e immaginazione, che a un certo punto si accorgono di aver fondato la propria comprensione del mondo su premesse cognitive sbagliate. E sono film che allo stesso tempo giocano con il pubblico, che ha una difficoltà simile a seguire la storia, spesso perché gli sono negate informazioni fondamentali per venirne a capo.

È curioso infatti leggere alla luce del complex storytelling 
hollywoodiano contemporaneo la pubblicistica specializzata dell’era classica, che raccomandava caldamente di evitare flashback, pause, flashforward, “twenty years after stories”, per risparmiare allo spettatore complicati esercizi di ginnastica mentale per comprendere i personaggi e le storie; e che proibiva anche di adottare soluzioni stilistiche potenzialmente confusive come gli scavalcamenti di campo, i falsi raccordi, le angolazioni troppo marcate. Certo, specie negli anni Quaranta, anche il cinema classico si è alla fine misurato con questi espedienti narrativi e stilistici; ma è indubbio che molto cinema contemporaneo sembra aver dimenticato le raccomandazioni di chiarezza e limpidezza narrativa della tradizione. Sembra che si sia passati da un modello narrativo “excessively obvious”, fondato sul realismo, la trasparenza, la comprensibilità, la chiusura, la linearità, a un modello “excessively enigmatic”, fin troppo enigmatico. L’interpretazione più interessante di questo fenomeno, quella di Thomas Elsaesser (2)T. Elsaesser, “The Mind-Game Film”, in W. Buckland (a cura di), Puzzle Films: Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Wiley-Blackwell, Malden-Oxford 2009, pp. 13-41. , lo riconduce alla trasformazione del tradizionale rapporto tra cinema e spettatore e alla tacita stipulazione di un nuovo patto che ridefinisce le condizioni di visione. Film simili dovrebbero la loro difficoltà e la loro complessità al mutato scenario distributivo. Sono infatti film pensati per una distribuzione multipiattaforma: non devono esaurire il loro valore in sala, perché devono poter essere sfruttati anche in altri contesti e su supporti differenti, nei passaggi televisivi, in Dvd, eccetera. Devono poter essere visti più volte, e garantire allo spettatore la possibilità di godere della storia a più livelli nel tempo, per capirla meglio nel dettaglio, per guardare alla trama e a certi indizi con un’attenzione diversa. E questo è oggi fondamentale, dal momento che il mercato primario, quello della sala, ha ormai una rilevanza economicamente limitata (per quanto strategica) e inferiore rispetto a quella di tutti i mercati secondari, cioè alle finestre ulteriori di sfruttamento che prolungano la vita del film dopo la fine della sua programmazione nei cinema (o intorno a essa).

È la continuity la chiave dello stile classico hollywoodiano, l’idea che l’ha fondato dal punto di vista linguistico, definendone le regole. Un’idea che nasce anch’essa da alcune necessità industriali e produttive.

Il cinema post-classico

In questo la situazione attuale è ben diversa, per esempio, da quella del cinema post-classico. Cioè da quella del cinema degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, che segue cronologicamente la sentenza Paramount. L’obbligo di abbandonare un assetto verticalmente integrato rendeva il business molto più rischioso, costringendo gli Studios a privarsi del settore dell’esercizio, che aveva garantito ammortizzazione e stabilità al sistema. E tuttavia tra gli anni Cinquanta e Sessanta è proprio alla sala che l’industria guarda come elemento insostituibile, costitutivo dell’esperienza cinematografica e irriducibile a forme “surrogate”. Non è solo la sentenza del 1948 a segnare l’epoca post-classica e le caratteristiche dei film prodotti in questo periodo. C’è un crollo verticale del pubblico, che dipende anche dal mutamento dello stile di vita americano rispetto agli anni della guerra, dalla de-urbanizzazione, dal baby-boom e dalla maggiore disponibilità di soldi e di tempo libero (se prima c’erano pochi soldi e pochi modi per spenderli, dagli anni Cinquanta il cinema non ha più il monopolio delle attività di divertimento). Soprattutto, c’è la minaccia competitiva della televisione, che esercita un’attrazione considerevole verso le fasce più adulte e familiari, e che inevitabilmente diventa un termine di riferimento: ciò da cui il cinema si deve per forza differenziare per riconquistare il proprio pubblico.

Viene dunque abbandonata la produzione dei film low-cost, i B-movie (poco adatti a quest’opera di differenziazione e assai difficili da piazzare in un mercato diventato molto selettivo); e viene viceversa enfatizzata la qualità festiva, “teatrale”, speciale dello spettacolo-evento cinematografico. È l’epoca del pattern produttivo e distributivo roadshow: sono prodotti meno film di prima, molto più costosi, più elaborati, più lunghi (attorno alle tre ore), divisi in atti, con tempi e modalità di proiezione disciplinati nel dettaglio. I film sono proiettati innanzitutto negli sfarzosi movie palace dei centri urbani, distanti almeno cento miglia l’uno dall’altro, con biglietti (cari) prenotabili con molti mesi di anticipo. Le storie sono tipicamente serie, epiche, mitologiche, di derivazione letteraria o teatrale. La differenza dell’esperienza cinematografica rispetto a quella televisiva, e semmai la sua parentela con il teatro, dev’essere evidente anche dalla qualità di visione superiore: a colori (nel 1949 l’85% dei film è in bianco e nero, solo il 40% sei anni dopo), con suono stereofonico e soprattutto in formato panoramico. È un periodo di sfondamento dei confini dell’immagine cinematografica: l’obiettivo è quello di restaurare l’originale potenza emotiva del medium, di permettere allo spettatore di entrare ancora di più nello spazio scenico – un po’ lo stesso concetto di Disneyland, che peraltro è aperto proprio nel 1955.

La rivoluzione dei formati panoramici è stata ben più che una questione puramente tecnologica, perché ha rappresentato una trasformazione importante nella nozione che l’industria cinematografica aveva del prodotto che stava offrendo al suo pubblico (3) J. Belton, “Glorious Technicolor, Breathtaking CinemaScope and Stereophonic Sound”, in S. Neale (a cura di), The Classical Hollywood Reader, Routledge, New York 2012, pp. 355-369.. Se poi molte ripercussioni estetiche sono macroscopiche, altre sono meno visibili, ma avevano risalto nel battage pubblicitario dell’epoca e contribuivano ad alimentare una particolare idea di prodotto cinematografico. Il cinema di questo periodo, per esempio, ha un montaggio meno rapido, ha molti meno stacchi del cinema precedente – non c’è bisogno di stringere sui primi piani, l’immagine è proiettata su uno schermo talmente grande che ogni dettaglio è perfettamente visibile. “Il close-up è una reliquia del cinema muto”, scriveva il presidente dell’Asc: il formato Academy del cinema classico obbligava a mostrare prima un’azione e poi il suo effetto in inquadrature successive, il CinemaScope può invece accomodare l’una e l’altro nella stessa immagine (e non per nulla incoraggiò la messa in scena orizzontale – “row staging” – e il venir meno di quella in profondità). Anche in questo sta la “qualità” del cinema di questo periodo, cioè nel fatto di rendere lo spettatore attivo e partecipe – come a teatro – e di permettergli di muovere l’attenzione liberamente nell’immagine, un’immagine dove succedono più cose.

Ma l’aspetto più rilevante del cinema post-classico è l’affermazione di una radicale irriducibilità dell’esperienza cinematografica, il suo carattere di spettacolo speciale, destinato alla visione collettiva. Un’irriducibilità che oggi facciamo più fatica a concepire, rivedendo quei film sul piccolo schermo (attraverso edizioni Dvd che spesso conservano sequenze di overture e cartelli di intermission del tutto incomprensibili per lo spettatore contemporaneo: sopravvivenze di un cinema perduto).

L’era post-classica è un periodo di sfondamento dei confini dell’immagine cinematografica: l'obiettivo è quello di restaurare l'originale potenza emotiva del medium, di permettere allo spettatore di entrare ancora di più nello spazio scenico.

Una nuova Hollywood

Il fallimento di Cleopatra, nel 1963, è spesso considerato simbolicamente come il momento in cui si chiude un certo modo di finanziare i film, di gestire le risorse creative, di concepire lo spettacolo cinematografico. Un film che non rientrò delle spese (folli, 40 milioni) nonostante fosse il più visto di quell’anno, cosa che quindi rivelò l’insostenibilità di un modello produttivo (ed estetico). Ma Cleopatra fu solo l’apice del problema. L’emorragia di pubblico era sempre più grave: dai 4,4 miliardi di biglietti venduti nel 1947 si era passati al miliardo scarso del 1964. E poi si registrava una crescente “scissione fra gli immaginari” di chi i film li produceva (executive e creativi di Hollywood erano sempre più vecchi) e di chi invece, il pubblico sempre più giovane, avrebbe dovuto andare a vederli (4)F. La Polla, Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio, Venezia 1978.. Il (relativo) successo degli economicissimi bike, campus, rock movie sensazionalistici di Roger Corman doveva mettere all’erta. È in questo contesto che si apre la stagione della New Hollywood.

Tutto iniziò quando alcuni grandi Studios (Paramount, Mgm, Warner, United Artists) furono assorbiti all’interno di grandi conglomerate multi-business interessate alla diversificazione degli investimenti e attratte dall’opportunità di rivalutazione delle library, manifestatesi con le prime consistenti vendite televisive. A valle di queste incorporazioni, avvenne l’auspicato ricambio generazionale degli executive: i nuovi padroni chiamarono manager giovani, che venivano dalla tv o da altre esperienze e che manifestarono ben presto la volontà di separarsi dagli aspetti realizzativi e produttivi, per concentrarsi su quelli finanziari e distributivi (cosa che diede enorme impulso al comparto della produzione indipendente), nonché sul presidio del business del filmed entertainment televisivo, in grandissimo sviluppo. Ciò favorì anche un clima irripetibile di disposizione al rischio e alla sperimentazione, e di ricerca della novità (formule, volti, temi, linguaggi), che fu alla base dell’apertura di credito verso progetti, a basso costo, che comunque fino a poco prima sarebbero stati giudicati inammissibili. Progetti che vedevano alla ribalta delle nuove leve artistiche: giovani registi (Nichols, Scorsese, Coppola, Lucas), e giovani interpreti (Nicholson, De Niro, Pacino: Warren Beatty produsse Bonnie and Clyde a 29 anni). Un fermento che diede il suo primo frutto nel 1967 con l’incredibile successo di Il laureato a valle del quale le case hollywoodiane presero a investire anche in film low budget, dedicati al pubblico più giovane e maschile.

Questi film “nuovi” risentivano più delle grandi produzioni mainstream del clima psicologico, simbolico e culturale dell’America di quegli anni. Anni animati da idealità, ma anche scossi dalla tensione (con la contestazione studentesca, il conflitto generazionale, la rivendicazione anche violenta dei diritti civili, le proteste per il Vietnam) che sfociarono poi nel disincanto, nella depressione, nella paranoia (la crisi economica e petrolifera, il Watergate). Una disposizione politica ed editoriale che fu esaltata da un nuovo regime espressivo. Sullo stile e la drammaturgia di Hollywood, infatti, incise profondamente la dismissione del Codice Hays, nel 1968, che fu sostituito dal sistema dei rating: una segnaletica che forniva indicazioni circa i contenuti dei film e la loro compatibilità con i diversi segmenti del pubblico. Così, si abbandonava definitivamente la codifica di vincoli preventivi alla produzione. Considerando questo mix di fattori economici, politici e culturali, non ci stupiamo nel trovare nei nuovi film temi molto controversi (come l’alienazione, la malattia mentale, la prostituzione, il crimine, la droga, la corruzione politica, il disagio giovanile); figure anti-eroiche; una forte pulsione di morte, con finale spesso tragico; una marcata insistenza su sesso e violenza (gli ex argomenti tabù, messi al bando per più di trent’anni dal Production Code); e una spiccata auto-riflessività.

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Ancora una ripartenza

Nella seconda metà degli anni Settanta, l’America si scuote dal clima di depressione e paranoia e prova a ripartire. E il cinema si fa al contempo specchio e agente di questo cambio di passo, riportando sugli schermi l’eroe performante, capace di prendere in mano il proprio destino, e parabole narrative destinate a chiudersi positivamente. Tutto questo ridà vigore al potenziale commerciale della produzione hollywoodiana, che torna a essere adatta sia alla sala che alla televisione (e al nascente home video), capace di affermarsi in tutti i mercati internazionali. Inizia insomma l’era dei blockbuster e del riflusso ideologico, segnata da titoli come Guerre stellari, Rocky, I predatori dell’arca perduta, Alien. Un’era che, sotto il profilo industriale, vide la piena maturazione di un nuovo modello di business e d’impresa: dis-integrato e multi-schermo.

Cambia anche la strategia distributiva: non si segue più il modello roadshow ma quello della distribuzione intensiva, saturation, per cui i film escono nel maggior numero possibile di sale contemporaneamente (è Lo squalo a inaugurarlo). I riflessi sul piano del prodotto sono evidenti, l’high concept movie nasce proprio da questa necessità. High concept sono film le cui storie possono essere riassunte in una sola frase, in trenta secondi, che ruotano cioè intorno a un’unica idea, diretta, facilmente comprensibile e comunicabile. “Se una persona mi riesce a dire un’idea in 25 parole o anche meno”, diceva Spielberg, “so che farà un buon film; mi piacciono le idee, specialmente quelle cinematografiche, che si possono stringere in una mano”. È, come è stato osservato, uno stile cinematografico in realtà plasmato da imperativi economici: “la tipologia di film più market-driven che sia mai stata prodotta” (5) J. Wyatt, High Concept. Movies and Marketing in Hollywood, University of Texas Press, Austin 1994.. Perché la motivazione profonda dell’high concept movie è la seguente: se le campagne pubblicitarie comportano sempre inevitabilmente una riduzione della complessità del contenuto dei film, allora può aver senso ribaltare la prospettiva, ridurre la complessità dei film, semplificarli e in sostanza adeguarli alle possibilità e ai limiti del loro marketing. Che quindi sarà molto più fedele ai film, necessariamente, e molto più efficace. Di qui la semplificazione della storia e dei personaggi, il ricorso a situazioni stock, a trame già conosciute, all’avviamento di format replicabili ed estendibili a piacimento. Sottolineando le costanti, quello che è già familiare rispetto a ciò che invece è originale, è esaltata la marketability, la vendibilità. L’aspettativa del pubblico è dunque alimentata dal precedente successo della storia in altre forme e su altri media, bestseller letterari, musical di Broadway, o anche dal precedente successo di altri film “simili”, se non proprio da quello di precedenti capitoli della medesima saga cui appartiene il nuovo film, nel caso delle serializzazioni. A questi aspetti è legata una delle caratteristiche più rilevanti – e maggiormente influenti per il cinema che seguirà – del cinema high concept a partire dalla metà degli anni Settanta, da Lo squalo e Guerre stellari. Sono film la cui esistenza va ben oltre i meri limiti testuali: è infatti accompagnata e prolungata da tutta una serie di elementi paratestuali, un ecosistema, un reticolo intermediale fatto di romanzi, musica, giochi, videogiochi, fumetti, vestiario, accessori di ogni tipo. Il rapporto con il pubblico non è più definito unicamente dal piacere narrativo, del testo, ma da un rapporto più interattivo ed extratestuale, che coinvolge spazi e tempi differenti – la stessa campagna promozionale dei film diventa in pratica parte integrante di una nuova e sempre più espansa esperienza cinematografica.

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Oggi, e domani…

La storia del cinema hollywoodiano è un susseguirsi di modelli produttivi differenti, cui, si è visto, corrispondono sempre paradigmi rappresentativi un po’ diversi, o anche radicalmente diversi. È, certo, una storia talmente ampia e complessa che un approccio che cerchi perfetti equivalenti estetici di modelli economici e industriali è sempre rischioso. Ci sono inevitabilmente molti altri fattori che concorrono a definire le storie, le forme e gli stili dei film. Anche fattori tecnici o culturali, per esempio, appartenenti a dimensioni non del tutto estranee a quella economica, naturalmente, ma che potrebbero a loro volta rivendicare una priorità su di essa.

È però evidente che c’è sempre stata un’interferenza tra i modi di produzione e di distribuzione e le caratteristiche dei prodotti (in termini di linguaggio, composizione delle immagini, stile di montaggio, spettacolarità e modalità spettatoriali, temi, peculiarità narrative). E questa evidenza ci può portare a fare un’ulteriore esercizio di interpretazione su terreni di maggiore attualità.

Per esempio, visto che alla ribalta nel mediascape contemporaneo vi è la sempre maggior rilevanza dell’online streaming sulle piattaforme Vod, e che nella retorica promozionale di queste piattaforme hanno un ruolo fondamentale gli algoritmi e i sistemi di raccomandazione, perché non pensare che i contenuti più adeguati a questa nuova forma di distribuzione – e che dunque vedremo di più e che, di conseguenza, saranno maggiormente prodotti – sono proprio quelli che meglio si fanno raccomandare? Che cioè l’adeguatezza, o il successo, di un film (e anche di una serie) in questi nuovi ambienti di fruizione sia determinato (anche) dalla sua raccomandabilità, vale a dire dal fatto che secondo certi criteri esso sia considerato (dal sistema di raccomandazione) come simile a certi altri film; o che secondo altri criteri esso corrisponda bene a un certo tipo di pubblico, a un cluster di utenti, che si suppone interessati a certe caratteristiche di contenuto? Che non è come dire semplicemente che, per esempio, la produzione di un certo film o una certa serie di Netflix è motivata dall’analisi dei dati di visione di quella piattaforma, perché posta così sembrerebbe una questione del tutto a-problematica. Il punto è semmai che dietro a quelle analisi e a quei dati c’è qualcuno (e qualcosa) che ha definito in modo più o meno consapevole quali sono le condizioni e i criteri pertinenti, utili a correlare, raccomandare, interpretare e finanche a produrre. Alla base dei criteri che regolano le raccomandazioni, infatti, c’è sempre un’idea di ciò che è utile (o non lo è) a descrivere il prodotto audiovisivo (passato, presente e futuro) e ad associarlo ad altri prodotti e ad alcuni spettatori (e non ad altri). È forse proprio dalla delicata definizione di tali criteri di somiglianza e di corrispondenza che dipenderanno – o già dipendono – le caratteristiche di molto del cinema e delle serie che verranno.


Federico di Chio

Direttore Marketing strategico di Mediaset e direttore editoriale di Link. Idee per la televisione. Insegna Media Management all’Università di Bologna e all’Università Cattolica di Milano. È stato Ceo di Medusa Film e vicedirettore generale contenuti di Mediaset. Tra i suoi libri, Analisi del film (con Francesco Casetti, 1990), L’illusione difficile (2011), American Storytelling (2016) e Il cinema americano in Italia (2021).

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Giorgio Avezzù

Docente presso l’Università di Bergamo, ha scritto L’evidenza del mondo. Cinema contemporaneo e angoscia geografica (Diabasis, 2017).

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