L’ultima serie Sky è un oggetto strano. È l’accumulo e la sintesi di tante tendenze della serialità italiana di oggi. Il male e i santi, il crime e l’umorismo, tutto mescolato. Nuovo e classico insieme.
Quando è arrivato Romanzo criminale, 15 anni fa, la sensazione era che la produzione italiana avesse trovato un anfratto in cui si annidava un pubblico che gli consentisse di evolvere il suo linguaggio. La serialità sulla televisione a pagamento, anche da noi, poteva sostenere una domanda di contenuti dal linguaggio più moderno e per certi versi audace. I successivi 15 anni hanno confermato e deluso al tempo stesso tali aspettative, convogliando tutte le energie nel crime, come se fosse l’unico genere in cui sia consentito dal pubblico osare un po’, portandolo a livelli ottimi, per veicolazione internazionale e soddisfazione del pubblico, ma lasciando indietro il resto della produzione (si pensi a quanto poco sì è lavorato sulla commedia, a fronte della quantità prodotta, per non dire sul comico, praticamente zero).
Christian, la serie andata su Sky, prodotta da Lucky Red e diretta da Stefano Lodovichi, è stato il primo esempio di serie crime di alto profilo a cercare di superarne il linguaggio tramite la contaminazione non più con modelli stranieri (ampiamente raggiunti) ma con gli altri modelli nazionali ritenuti più bassi e tradizionali. Nel farlo ha rimesso al centro del discorso anche le politiche dei network e chi sia, oggi, a parlare ancora a un pubblico di nicchia, potendosi permettere un lavoro più sperimentale.
Se le reti generaliste hanno inglobato molti cambiamenti di questi anni, commissionando anch’esse produzioni più strutturate per una veicolazione internazionale (L’amica geniale, I medici, Il nome della rosa), e soggetti internazionali a pagamento come Prime Video hanno stretto accordi con Mediaset per produzioni che puntano ad allargare il pubblico (Made in Italy), o altri come Netflix hanno preso un pezzo di Rai, cioè Tinny Andreatta, per dare una sterzata forte ai propri contenuti e promuovere film e serie in tutto e per tutto generalisti nella vocazione, solo vestite di una fotografia e un montaggio moderni, Sky è rimasto l’unico operatore in Italia a cercare ancora qualcosa di diverso, e se non sono bastate le produzioni di Ammanniti (Anna, Il miracolo) o le incursioni nel protolatino (Romulus), la sua rilettura della realtà in forma di commedia (Speravo de morì prima) è stato uno dei rarissimi casi di lavoro sulla commedia.
Gomorra ma anche i santi
Dentro Christian c’è innanzitutto Gomorra, la matrice più forte. E c’è nella maniera più diretta possibile, attraverso il Corviale, un’ambientazione sovrapponibile alle vele di Scampia, non solo per imponenza architettonica ma anche per degrado interno e capacità di animare una comunità che facilmente può essere raccontata come sottocultura, la “gente del Corviale”. Un micromondo autonomo dotato di sue leggi, una storia comune e un destino comuni, con i suoi reggenti (ovviamente malavitosi) e zone di competenza (dove stanno i drogati, dove i trans, dove la parte ecclesiastica). E come in Gomorra questo è un racconto di potere e presa del potere che, come sempre nella serialità italiana, ha a che fare con il conflitto generazionale. Un boss (padre) che è insidiato da criminali più giovani (figli).
Un criminale con le stimmate che non può più fare del male ma è condannato a fare del bene e a redimere è un Don Matteo che nasce dentro Gomorra e che, per poter vivere lì, deve adattare il suo linguaggio e ibridarsi con il crime. Non può più risolvere casi, quindi, ma affermare i valori positivi inserendosi nella lotta per il potere.
In questa cornice però la serie inserisce anche il racconto che più di tutti è stato praticato dalla Rai, quello dell’identità nazionale cattolica, dei santi e della tradizione e mitologia religiosa italiana. Il racconto del bene nella forma più pura, tradotto per incastrarsi con il mondo duro, violento e cinico di Gomorra. Un criminale con le stimmate che non può più fare del male ma è condannato a fare del bene e a redimere è un Don Matteo che nasce dentro Gomorra e che, per poter vivere lì, deve adattare il suo linguaggio e ibridarsi con il crime. Non può più risolvere casi, quindi, ma affermare i valori positivi inserendosi nella lotta per il potere. Quando è arrivato Romanzo criminale la grande novità, oltre al linguaggio, era la scelta di raccontare il nero senza sconti, cosa che nessuno faceva (nemmeno al cinema). Tornare a raccontare il bianco è un atto rivoluzionario, in un certo senso. Specialmente se poi lo si mescola con un terzo elemento, il meno praticato dalla nuova serialità e di fatto sconosciuto sia alle produzioni criminali sia a quelle di stampo religioso: l’umorismo.
L’industria che si mescola
Sky per prima programma una serie che ha nel suo linguaggio quel superamento delle differenze tra generalista e premium tv che già si può riscontrare altrove. Quando Prime utilizza i comici diventati noti con Zelig, Colorado, i programmi di Serena Dandini e Mai Dire Gol per una royal rumble come LOL (e ottiene il successo che ha ottenuto), quando Netflix di fatto sottrae le commedie romantiche al cinema italiano e insegue il gusto medio invece che cercare di orientarlo, non c’è troppa differenza con Rai o Mediaset. Rai che non a caso poi adatta una serie di Showtime (a sua volta un adattamento da un originale israeliano), cioè Your Honor, in Vostro onore con l’attore che più sì è speso per la serialità di nuova generazione, Stefano Accorsi. Talent e progetti sono in questa fase intercambiabili. Produzioni come Curon o Luna nera, che per scarsa conoscenza delle regole del loro genere e scarsa fiducia nel loro pubblico potevano sembrare perfette per le reti generaliste, sono invece di Netflix, attori come Accorsi che sembravano destinati alla premium tv vanno in Rai e Hbo collabora indifferentemente con Sky e con Rai Fiction. E andrebbe aggiunto il fatto che Enrico Vanzina, già al timone di diverse produzioni televisive per Mediaset ora è distribuito indifferentemente sia da Netflix (Natale a 5 stelle, Sotto il sole di Riccione) che da Prime Video (Tre sorelle).
Quando è arrivato Romanzo criminale la grande novità, oltre al linguaggio, era la scelta di raccontare il nero senza sconti, cosa che nessuno faceva (nemmeno al cinema). Tornare a raccontare il bianco è un atto rivoluzionario, in un certo senso. Specialmente se poi lo si mescola con un terzo elemento, il meno praticato dalla nuova serialità e di fatto sconosciuto sia alle produzioni criminali sia a quelle di stampo religioso: l’umorismo.
Christian segna allora in un certo senso la fine dell’ondata di Romanzo criminale, la mutazione di quel tipo di racconto in qualcos’altro, e sembra annunciare anche una nuova fase industriale, in cui la divisione prima netta tra produzioni per un pubblico largo e produzioni per un pubblico stretto è superata da prodotti ibridi che ballano nella medesima sala, al suono della stessa musica, sebbene con stili diversi. E non stupisce che, ancora una volta, una produzione così sofisticata che parla al tempo stesso della propria trama e dei cambiamenti nei meccanismi dell’industria televisiva venga da una piattaforma come Sky, già front runner nella corsa verso il nuovo e ancora impegnato in questa battaglia.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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