Dopo gli scandali, Spacey è sparito senza lasciare più traccia. Espulso, cancellato, bloccato. E ora? Un’indagine sullo statuto della celebrità ai tempi del #metoo.
Nel liquido e aggiornatissimo mondo in cui viviamo, l’instagram @kevinspacey è fermo, congelato nella velina a social unificati del 30 ottobre 2017 con cui Spacey – evidentemente dopo troppe puntate di House of Cards – ha cercato di sfruttare il coming out per distrarre l’opinione pubblica dall’accusa di molestie che Anthony Rapp gli aveva rivolto in un’intervista su Buzzfeed. Molte cose sono successe da quel giorno; ma non si direbbe, almeno stando ai suoi profili social. Tutti, all’unisono, fermi a quel post disgraziato che inizia tributando grande rispetto e ammirazione per Anthony Rapp “as an actor”.
Il corpo social(e)
Sono finito per la prima volta sulle tracce social di Kevin Spacey dopo la serata dei Golden Globe a inizio gennaio, quando una sfilata di attrici e attori, registi, produttori, piccole e grandi stelle del firmamento hollywoodiano hanno sfoggiato abiti e vestiti rigorosamente neri, su cui spiccava talvolta la spilletta del movimento Time’s Up. Ci sono finito perché Spacey quella sera, ovvio, non era presente, e la sua assenza saltava all’occhio. Proprio lui che un Globe lo aveva vinto nel 2014 per il suo Frank Underwood, un ruolo su cui aveva ricostruito una carriera, diventando in qualche modo il testimonial illustre di Netflix, l’esempio virtuoso di come la piattaforma non abbia nulla da invidiare al cinema, anzi. Di come le serie tv non siano l’ultima spiaggia di attori in declino, ma un crogiolo di creatività e libertà. Proprio lui che aveva coltivato una celebrità diffusa, sulla soglia del meme, tra imitazioni e gag nei talk, autoironia sui social (il primo post su instagram lo ritraeva di fronte alla Casa Bianca, spacciata per casa sua) e la rispettabilità da attore shakespeariano. Ai Globe mancava la sua faccia iconica, quella che, mossa e interdetta, era rimasta impressa nelle retrovie del famoso selfie voluto da Ellen De Generes la notte degli Oscar 2014 – a sua volta diventata immancabilmente un meme.
Durante la serata il conduttore Seth Meyers non aveva risparmiato battute sugli scandali venuti a galla negli ultimi mesi, lasciando giusto lo spazio per una stoccatina a Spacey: «Sono felice che faranno un’altra stagione di House of Cards. Christopher Plummer è disponibile anche per quella? Spero che sia bravo a fare un accento del Sud, perché Spacey di sicuro non lo era». La battuta, come spesso succede, era cattiva a diversi livelli di lettura, perché improvvisamente dal piano morale scivolava su quello attoriale, fino all’altro ieri impensabile per uno come Kevin Spacey. Alla battuta avevano comunque riso con qualche imbarazzo tutti i presenti, una sala intera di colleghi con cui Spacey ha lavorato, dividendo set, ospitate, palchi, chiacchiere. La telecamera era poi scivolata su un Plummer sornione, che per il suo tour de force attoriale di sostituire in corsa Spacey a due mesi dall’uscita del film di Ridley Scott ha incassato la doppia nomination a Globe e Oscar (difficile capire quanto sia politica e quanto meritata).
Sono tornato sui suoi profili social mentre su tutte le testate rimbalzava la notizia tombale: Billionaire Boys Club, l’ultimo film girato da Spacey prima dello scandalo, è finalmente uscito negli Stati Uniti, dove è stato proiettato in sole dieci sale, incassando il primo giorno la cifra imbarazzante di 126 dollari. Non è insomma bastato tenere il film congelato per quasi un anno, né confezionare un trailer dove Spacey era inquadrato quasi sempre di spalle o di sfuggita. Non è servito neanche il piagnucoloso comunicato della casa di distribuzione: “Speriamo che le angoscianti accuse – ignote ai tempi della lavorazione, due anni e mezzo fa – riguardanti un singolo individuo che peraltro ha una piccola parte, non nuocciano alla distribuzione. Confidiamo che il pubblico tragga le sue conclusioni su queste accuse, ma non a danno di tutti coloro che hanno lavorato a questo film”. La damnatio memoriae sembra completa, e come molti giornali scrivono, la carriera di Spacey sembra finita per sempre.
Però non tutto si cancella, e le tracce restano proprio dove non ce le aspettiamo. Perché se in apparenza la rete è il luogo dell’effimero, dell’impermanenza, è più vero il contrario: tutto resta, nel web, tutto si sedimenta e rimane a prender polvere finché qualcuno non si prende la briga di rimuoverlo. E così i social di Spacey sono rimasti, abbandonati come certe macchine scassate ai bordi delle strade in cui trovano riparo i barboni: l’ultimo post affisso sembra un manifesto in memoriam, mentre a turno passano fan recidivi a difenderlo ed ex fan indignati a dileggiarlo. Il corpo social(e) di Kevin Spacey è esposto, fatene ciò che volete. A oggi l’ultimo post su Instagram conta oltre 65mila like e 24mila commenti; il suo omologo su Twitter raggiunge 83mila like e 18mila commenti; su Facebook 59mila like e 14mila commenti. A scorrerli si trova di tutto: un utente chiede patetico “where are you my man @kevinspacey? the best”. Subito sopra, uno strilla “Perv ASSHOLE” e un altro sentenzia “Guilty AF”. Fate una prova, controllate, vedrete che ci sarà almeno una persona che ha lasciato un messaggio nell’ultima ora.
I più ossessivo-compulsivi non si accontentano e risalgono indietro, rileggendo con il senno di poi vecchie foto ricordo di Spacey con una bambina incontrata in un ristorante, visibilmente emozionata (commento LOL: “Fucking run he’s going to rape you!”), o vecchi selfie fuori onda di risate con Jimmy Fallon (commento retroattivo: “That laugh is sick and pervert”). Su un post che ricorda il suo primo Oscar, un pensiero e un augurio: “Dear Mr spacey I keep think about you these days and think about how hard it would be for you, I just think I must tell you how much I respect you and adore you unconditionally and truly, wish I could do more and wish you read this”. Unconditionally and truly. Mi colpisce l’accostamento tra i due avverbi; creano un piccolo cortocircuito semantico inconscio, tra l’abbandono fideistico e aprioristico del primo e il sentimentalismo del secondo, che mantiene però un ironico rimasuglio di “truth” nella sua radice. La verità è quella del sentimento, che prescinde incondizionatamente dalla verità dei fatti.
Per colpevolisti e innocentisti il punto non sembra essere stabilire una volta per tutta la verità dei fatti: quello che conta è schierarsi, prendere posizione, credere aprioristicamente alla versione preferita (più utile alla causa o meno perturbante) dei fatti. Believe.
I Believe You
Tra fede e verità si sta giocando anche un’altra carriera, da diversi mesi a questa parte: in risposta al fronte apparentemente compatto del Time’s Up hollywoodiano che si è visto ai Globe, si è alzata ancora una volta la voce di Dylan Farrow, accusando di ipocrisia gli attori che si ostinano a collaborare con il “sexual predator” Woody Allen, che abusò di lei quando era solo una bambina. La vicenda Allen-Farrow è ovviamente molto precedente a questi ultimi eventi, e tra le differenze c’è che è stata dibattuta in un tribunale ben prima che sui social.
Il 13 agosto 1992, una settimana dopo esser venuto a conoscenza della denuncia per abuso sulla sua figlia adottiva Dylan, inoltrata dal pediatra alla polizia del Connecticut, Woody Allen con una mossa apparentemente controintuitiva presentava la richiesta di affido per Dylan, per Moses (adottato da Mia Farrow poco prima che iniziasse la loro relazione) e per l’unico figlio naturale del matrimonio, Satchel – forse figlio in realtà di Frank Sinatra. Le indagini della polizia, con l’ausilio della Child Sexual Abuse Clinic di Yale–New Haven, si conclusero nel marzo 1993 con il proscioglimento di Allen, lasciando tra le righe pesanti accuse a Mia Farrow, che avrebbe indottrinato la figlia sul falso abuso e in generale avrebbe fatto di tutto per mettere i figli contro Allen, nel tentativo di vendicarsi del tradimento con la figlia adottiva Soon Yi. Il giudice Elliott Wilk, data la difficoltà di dirimere tra verità e menzogne di tutte le parti in causa, aveva passato al vaglio l’indagine della polizia, il report del Child Sexual Abuse Clinic e le testimonianze dei vari psicologi e psicoterapeuti che avevano avuto in cura quella complicata famiglia. Risultato: il 7 giugno 1993 la sentenza negava l’affido dei figli ad Allen e, pur ammettendo che non era provabile nessun abuso sessuale, sollevava dubbi sui metodi delle indagini e concludeva che comunque verso Dylan Allen aveva mostrato un comportamento “inappropriato”, morboso ed esclusivo, che tagliava fuori tutti gli altri bambini, verso cui mostrava una certa infastidita indifferenza. La vicenda si era chiusa così, salvo tornare fuori periodicamente negli articoli di costume e in qualche intervista; nel 2014 Dylan Farrow in una lettera aperta aveva pubblicamente rilanciato le accuse, all’epoca senza sortire molti effetti, anche per l’intervento dell’altro fratello, Moses, che in un’intervista a People aveva sostenuto la versione di Woody, raccontando la triste e inquietante storia di una bambina plagiata da una madre vendicativa e senza scrupoli.
Perché stavolta sembra che la cosa vada diversamente? Forse perché è stato proprio Satchel Farrow, o meglio Ronan Farrow (gli venne cambiato nome da Mia per tagliare i ponti con Woody, che lo aveva chiamato così in omaggio a un giocatore di baseball), a scoperchiare nell’ottobre scorso il caso Harvey Weinstein con un lungo pezzo sul New Yorker. Dylan ha avuto quindi gioco facile a tornare all’attacco, sostenendo che quella passata agli atti non è la verità ma il volere di un acclamato regista, della sua fama e dei suoi costosi avvocati, che si sono crudelmente imposti su una donna infinitamente meno potente di lui: ed è così che il caso Allen inizia ad assomigliare per l’opinione pubblica al caso Weinstein.
Uno dopo l’altro, gli attori che svicolavano di fronte alle domande sull’opportunità di continuare a lavorare con Allen sono stati costretti a prendere le distanze. Soprattutto, com’è ovvio, gli attori più giovani e che hanno più da perdere: Rebecca Hall, Timothée Chalamet e Selena Gomez hanno annunciato di voler devolvere a Time’s Up il cachet ricevuto per la partecipazione al suo prossimo film A Rainy Day in New York; Greta Gerwig, in corsa agli Oscar con il suo Lady Bird, ha rinnegato la sua partecipazione a To Rome With Love, e così ha fatto Ellen Page. Hanno preso le distanze anche i più stagionati Colin Firth e Mira Sorvino, mentre chi (come Justin Timberlake) non ha voluto farlo è stato messo in croce. Alec Baldwin è stato l’unico a esporsi, dicendo che la crociata contro Allen è “ingiusta e triste”. Non proprio l’unico, in realtà. Diane Keaton ha linkato su Twitter una vecchia intervista di Allen a 60 Minutes, rilasciata nel 1992 poco dopo la denuncia, commentando “Woody Allen is my friend and I continue to believe him”. Curiosamente, ma non troppo, una decina di giorni prima Oprah Winfrey aveva tenuto su Cbs una tavola rotonda con alcune attrici (più Kathleen Kennedy, boss della Lucasfilm) sui risultati e le prospettive del Time’s Up. Quando l’argomento è scivolato sul nuovo appello di Dylan Farrow, Natalie Portman, dopo aver preso le distanze di rito da Allen (da ragazzina era in Tutti dicono I love you) aveva tagliato corto sulla questione: “I believe you, Dylan. I want to say that. I believe you Dylan”.
Per colpevolisti e innocentisti il punto non sembra essere stabilire una volta per tutta la verità dei fatti: quello che conta è schierarsi, prende posizione, credere aprioristicamente alla versione preferita (più utile alla causa o meno perturbante) dei fatti. Believe.
La caccia alle streghe
Per ora il caso Farrow-Allen non è stato riaperto, anche perché non sembrano esserci nuovi elementi, ma la questione non è giudiziaria: a questa altezza è giusto politicamente e forse anche narrativamente che Woody Allen cada. Se Weinstein è stato espulso dalla sua stessa società di produzione e Spacey è stato estromesso seduta stante da House of Cards, Amazon Studios ha infatti deciso di scaricare ufficiosamente Allen, dopo averlo usato come specchietto per le allodole autoriale della sua campagna acquisti. Pur senza dichiarazioni ufficiali, A Rainy Day in New York non verrà infatti distribuito nel 2018 (né mai?), e il prossimo film da contratto è slittato almeno al 2020. Data la situazione Woody ha deciso, per la prima volta dal 1981, di prendersi un intero anno di pausa.
Le storie delle accuse a Weinstein, Spacey e Allen sono molto diverse, e in realtà una implica l’altra: il caso Weinstein ha ovviamente generato il caso Spacey e molti altri simili (tra cui il per molti versi omologo caso Louis C.K.), secondo quello che è ormai è noto come “Weinstein effect”, e il dilagare del #MeToo ha gettato nuova luce sulle vecchie accuse che negli anni erano rimaste sepolte nel settore gossip di giornali e riviste, Allen incluso (complice il ruolo centrale di Ronan Farrow). Rispetto alla pletora di accuse e indagini su Weinstein, la macchina investigativa su Spacey si è mossa assai in ritardo: per ora ha collezionato sei indagini aperte nel Regno Unito, mentre negli Stati Uniti è in corso un’indagine sola (un’altra è caduta in prescrizione). Per lo più, a differenza di Weinstein e della sua imponente struttura coercitoria, quello di Spacey sembra rientrare nei banali “sexual misconduct”: per usare l’espressione di Guy Pearce, che divise il set con lui per L.A. Confidential, è il tipico uomo che allunga le mani. Certo non si può minimizzare, perché a quanto pare ogni qualvolta Spacey ha avuto ruoli di potere, all’Old Vic o sul set di House of Cards, ha pensato di poter allungare quelle mani come gli pareva e piaceva, creando di fatto un “ambiente tossico”; da qui l’inevitabile licenziamento da Netflix (che evidentemente non sapeva niente del clima sui suoi set).
Ma allora il boicottaggio di Allen? Come ha sarcasticamente dichiarato in una recente intervista, Woody potrebbe ambire al ruolo di “poster boy” del #MeToo, visto che a tutt’oggi, anche dopo le rinnovate accuse di Dylan, nessuna delle centinaia di attrici con cui ha lavorato l’ha mai accusato di nulla. Eppure anche nei suoi confronti è partito un meccanismo di rimozione che va al di là delle accuse e delle prove: abbiamo letto nei mesi scorsi articoli di giornalisti paranoici che scandagliavano gli archivi Allen alla Princeton University per dimostrarci che è sempre stato un maniaco misogino e pedofilo, e verbosi mea culpa di critici cinematografici americani che iniziavano a dubitare della sua effettiva grandezza come autore. Anche la filmografia di Spacey è stata passata al setaccio, perché già dai ruoli che interpretava si poteva capire che era un tipaccio, un omosessuale frustrato, un pedofilo e un manipolatore (anche se ancora non sembra aver spedito a nessuno teste muliebri in scatola).
Verrebbe voglia di derubricare queste letture ex post a casi di apofenia, la tendenza umana, tipica dei giocatori d’azzardo, a individuare pattern significativi anche dove regna il caso, ma la sovrapposizione di piani giudiziari, sociali e persino artistici ci dice una cosa semplice: ormai non conta il dettaglio giudiziario della colpevolezza, conta l’esemplarità rispetto al sistema. E infatti la classica obiezione a chi prova a difendere Spacey o Allen è che di fronte alla fogna che è stata scoperchiata a Hollywood poco importano le carriere di un paio di individui. Allen ha parlato in questo senso (prima ancora di venire travolto dal “Weinstein effect”) di caccia alle streghe, ed è stato linciato da giornalisti e social; dopo però è intervenuta in termini simili Margaret Atwood, sottolineando come il punto non sia tanto l’esistenza o meno delle streghe di un tempo (o di quelle attuali), ma di come nei processi alle streghe fosse ribaltata la grammatica giudiziaria: non era l’accusa a dover dimostrare che tu fossi una strega, ma tu a dover dimostrare di non esserlo. In fin dei conti in questo contesto non abbiamo bisogno di verità giudiziaria, ma di una verità superiore, utile a livello etico e sociale. La verità che ci aspettiamo.
Si è parlato molto di dare voce alle vittime, alla loro verità troppo a lungo messa a tacere dal potere avvocatizio di attori, registi e produttori famosi. Una verità che è tale di per sé, perché è proferita da una persona che si presenta come vittima, e non ha bisogno di essere verificata in alcun modo (in epoca di fact checking!), perché si pensa che proprio nell’atto della verifica intervenga il potere dei soldi, della celebrità, del genere maschile. Ma una verità che non deve essere verificata è una verità biased, così com’è biased il meccanismo di rilettura a posteriori delle filmografie di Spacey o Allen. Di bias in bias dai casi personali, fatti spesso di zone grigie e ambiguità (dov’è il confine tra avances e violenza, in alcuni dei casi di Spacey? Fino a che punto si spingeva la morbosità del rapporto tra Allen e la piccola Dylan?) si passa alla nitidezza perentoria dell’esempio, che unisce memento morale e damnatio artistica.
Una verità che non deve essere verificata è una verità biased, così com’è biased il meccanismo di rilettura a posteriori delle filmografie di Spacey o Allen. Dai casi personali, fatti spesso di zone grigie e ambiguità si passa alla nitidezza perentoria dell’esempio, che unisce memento morale e damnatio artistica.
Capro! Capro! Capro!
Nel bel saggio Against Empathy, lo psicologo canadese Paul Bloom metteva in guardia sull’entusiasmo incondizionato per l’empatia che da qualche anno a questa parte infiamma un po’ tutti i progressisti del mondo. La coazione a mettersi nei panni degli altri, sosteneva, è meno utile di quanto si pensi, anche quando è in buonissima fede: a muoverci nelle nostre decisioni dev’essere il più possibile la ragione e non le emozioni (che siano nostre o quelle altrui, in cui ci immedesimiamo), perché ci sono già le destre ad appellarsi alla pancia delle persone, e lo fanno molto meglio di noi. Scriveva queste cose quando ancora c’era Obama, che ficcava la parola “empatia” in quasi tutti i discorsi pubblici, e Donald Trump era ancora solo un risibile candidato presidenziale. Sappiamo com’è andata a finire.
Non solo: Bloom riportava molti esperimenti scientifici sui meccanismi dell’empatia, dimostrando che ogni qualvolta nelle nostre decisioni mettiamo in mezzo l’empatia siamo meno obiettivi. L’empatia è insomma un bias, che anche con le migliori intenzioni ci sottrae al pensiero razionale e ci sospinge verso la parte più emotiva di noi. Quando ci immedesimiamo, smettiamo di ragionare e iniziamo a credere: “I believe you”, dicono all’unisono Diane Keaton e Natalie Portman. Eppure, abbiamo l’impressione che tutto questo sia inevitabile, e giusto. Dopo millenni di strapotere maschile, ci sembra di essere dentro un processo storico che travalica il destino dei singoli individui, agendo per modificare la struttura stessa della società e, si spera, migliorarla. Questo è vero, ma oltre alla macchina del progresso a ben vedere ci sono i segni dell’azione di un’altra macchina: una collettività si stringe, unendosi contro un singolo o un gruppo ristretto ritenuti colpevoli di crimini contro quella collettività, e ritrova coesione espellendoli. Che cos’è questo se non l’ennesima variazione del rito antropologico del capro espiatorio?
Qualcuno nei mesi scorsi ha provato a usare anche questa espressione, attirando le stesse ire di chi ha provato a usare “caccia alle streghe”, ma anche qui c’è un problema di scollamento tra il senso vero dell’espressione e l’uso comune: nella sua versione quotidiana e usurata, il “capro espiatorio” è colui che è accusato erroneamente, di solito un misero funzionario sacrificato per nascondere i veri colpevoli, grandi multinazionali, lobby o partiti politici che siano. Ma non è così. Il meccanismo del capro espiatorio, per come è stato delineato nei decenni da René Girard, ha tutt’altro presupposto: che il capro sia colpevole, e lo sia in modo manifesto, riconosciuto dalla collettività. Altrimenti il rito non funziona. Come scrive Girard, “una concezione troppo consapevole e calcolatrice di tutto ciò che sottintende l’espressione ‘capro espiatorio’ nell’uso moderno elimina l’essenziale, e cioè la credenza dei persecutori nella colpevolezza della loro vittima, la loro condizione di prigionieri dell’illusione persecutoria che, come abbiamo visto, non è una cosa semplice, ma un autentico sistema di rappresentazione”.
E a che cosa serve, questo sistema di rappresentazione? Semplificando, è un piano di emergenza che le società arcaiche avevano ideato in mancanza di un vero stato di diritto: ciclicamente era necessario spurgare la società dalla violenza che montava al suo interno, scaricandola unanimemente su una persona o uno specifico gruppo sociale o etnico, per rinsaldare la collettività e scongiurare il pericolo dell’autodistruzione. Tutta la mitologia greca, i libri sacri, le leggende e le fiabe sono popolati di capri espiatori. Ma questo meccanismo, lo sanno bene gli ebrei di ieri e i migranti di oggi, sopravvive anche nelle società moderne, le sostiene e le informa, scattando ogni singola volta in cui le tensioni violente montano oltre il punto di rottura. Ma a un patto: che i persecutori credano nella colpevolezza del capro, e che il capro sia scelto con cura. Ricorda Girard che il capro espiatorio deve essere contemporaneamente interno ed esterno alla società, deve farne parte ma non proprio, deve essere simile a noi ma in qualche modo diverso. Non a caso, quando dai sacrifici umani si passò ai sacrifici animali, le società arcaiche misero in atto tutta una serie di riti di apparentamento: montoni, capre o altri animali simili erano fatti alloggiare in una casa del villaggio, era dato loro un nome ed erano trattati da esseri umani a tutti gli effetti – il tutto poco prima di sgozzarli.
Nella declinazione moderna e senza sangue di questi riti collettivi i criteri di selezione sono sempre più importanti: Weinstein non era un capro giusto, perché in pochi sapevano chi fosse e perché il ruolo del produttore è oscuro ai più. La collettività aveva bisogno di trovare qualcuno di più adatto, qualcuno a cui rinunciare fosse effettivamente un sacrificio: Allen era quasi perfetto, ma la sua colpa non era strettamente legata al #MeToo; per fortuna è arrivato Spacey: negli ultimi anni amatissimo, non bello, intelligente e sottilmente ambiguo, proprio nel momento dello scandalo si rivela, perdipiù, omosessuale. Come dice Girard: “Quanto maggiore è il numero di segni vittimari che un individuo possiede, tanto maggiori sono le probabilità che egli attiri su di sé il fulmine”. E Spacey li ha tutti. E poi, se parliamo di Hollywood, il capro giusto non è un produttore e non è un regista, ma è ovviamente un attore.
L’attore ha uno statuto particolare: agisce come uno di noi ma finge, ci immedesimiamo in lui quotidianamente secondo un rito catartico vecchio quanto la tragedia greca, pensiamo di conoscerlo benissimo senza averci mai scambiato una parola. Come nei decenni hanno poi imparato un po’ tutti, da Cary Grant a Miley Cyrus, agli attori è richiesta una morale integerrima, più di quanto per esempio non sia richiesta a politici e statisti. In loro la sovrapposizione tra arte e vita (tutta finta) è talmente forte da renderci impossibile vedere un film con un attore senza tenere presente le sue colpe nella vita. D’altra parte, come si dice, ci mette la faccia. Negli ultimi anni, chissà perché, mi compariva spesso su Facebook la pubblicità del corso online di recitazione tenuto da Kevin Spacey per MasterClass. Costo: 90 dollari. Il giorno dopo lo scoppio dello scandalo, il 31 ottobre, MasterClass ha cancellato all’istante il corso dall’offerta del sito. Non l’ha solo rimosso, ha tolto ogni singola menzione del nome di Spacey, come se quel corso non fosse mai esistito.
Il wrestling e l’etica dell’hockey
Dopo quel primo comunicato via social, Kevin Spacey non ha più detto nulla. Probabilmente consigliato, ha capito che tacere, chiudersi nel silenzio stampa più netto, accettare il suo ruolo da capro espiatorio era l’unica soluzione. Nei giorni e nelle settimane successive si sono succedute continue notizie, continui aggiornamenti sul suo caso, ma erano tutti riferiti al suo torbido passato dalle mani lunghe. Se fate una prova a cercare nel settore Notizie di Google le chiavi “Kevin+Spacey”, troverete molte informazioni, anche se tutte, nessuna esclusa, riguardano il passato.
E il presente? Non ha più un agente, un addetto stampa, la sua fondazione benefica ha chiuso i battenti, non ha film in programma, non rilascia dichiarazioni. Kevin Spacey sembra evaporato. O meglio: nessuno sembra chiedersi dove sia. Le sue tracce più recenti si trovano in un vecchio articolo del Daily Mail dei primi di novembre: neanche una settimana dopo il suo ultimo post sui social, Spacey si era già fatto ricoverare in una nota clinica per sex addicted dell’Arizona, la stessa scelta poco prima da (toh!) il caro vecchio Harvey Weinstein. La struttura, dal pittoresco nome di The Meadows, costa almeno 36mila dollari al mese e offre percorsi di disintossicazione fatti di yoga, equitazione, tai chi, agopuntura e meditazione, e sembra il non plus ultra per celebrità alla ricerca di riabilitazione pubblica da una vita di eccessi. Tra gli altri, la struttura ha spillato soldi a Tiger Woods, Whitney Houston e Kate Moss.
Su Google, ci sono molte recensioni del complesso di strutture (più e meno costose) The Meadows, tra cui alcune piuttosto inquietanti (“its the worst place i ever got in my life i went for healing and to get help and i got sexuality abused there they meesed up my life i suffer from trauma since i was there DONT GO TO THEM”), ma appare abbastanza evidente che per gente come Spacey o Weinstein il ricovero in cliniche simili sia più che altro una procedura standard per dimostrare pentimento e buona volontà. David Ley, autore di The Myth of Sex Addiction, sostiene che sia “spesso un modo per evitare che uomini ricchi possano prendersi la responsabilità dei loro comportamenti sessuali. Il trattamento della ‘sex addiction’ è un racket che protegge i privilegi sessuali maschili. Ed è una specie di espiazione pubblica, una versione aggiornata delle vecchie maschere della vergogna e dei cilici”. Non solo, è anche un ottimo posto dove sparire per un po’. US Weekly riportava, qualche giorno dopo la notizia del ricovero, quella che mi risulta essere l’ultima foto di Kevin Spacey: occhiali scuri, tuta sportiva e cappellino da baseball di ordinanza. Sono passati quasi dieci mesi da allora. Non lo vedremo mai più? Non credo. L’uscita in sordina di Billionaire Boys Club sembra né più né meno che un esperimento, ed è fallito. Ma forse è solo questione di tempo. D’altra parte ad Hulk Hogan non sembra siano bastati tre anni!
Nel 2015 il celebre wrestler era finito in una shitstorm epocale per via di uno scandalo doppio: in una vecchia sextape finita online, Hogan era ripreso mentre faceva sesso con la moglie di un amico; purtroppo, nello stesso video si lasciava andare a una serie di gag e battute razziste. Sono state queste ultime, più che il sextape in sé, a spingere la WWE a licenziare seduta stante il suo wrestler più famoso, cancellandolo dalla Hall of Fame, ritirando dal mercato tutto il merchandising e rimuovendolo persino dalla storia ufficiale della WWE. Per capirci, è come se provassimo a cancellare Maradona dalla storia del calcio. Eppure è successo. In questi tre anni, il wrestling ha fatto finta che Hulk Hogan non fosse mai esistito. È stata messa in atto quella che nel mondo nerd si chiama una “retcon”, cioè una rettifica della continuity: nel complicato mondo dei supereroi, dove per esempio le storie di Spider Man vanno avanti da più di cinquant’anni, gli autori che si avvicendano alla scrittura devono ogni tanto correggere il tiro, cancellare o modificare qualche vecchio evento o personaggio per sistemare la storia complessiva, la cosiddetta appunto continuity. La cancellazione di Hulk Hogan dalla storia WWE è credo il primo esempio di retcon nel mondo reale.
A luglio 2018 la WWE ha deciso di reintegrare Hulk Hogan nella Hall of Fame, dopo tre anni di sospensione in cui si è speso molto con il volontariato e la beneficenza, non perdendo occasione per rilasciare dichiarazioni pubbliche di pentimento. Ora d’incanto il wrestler ha di nuovo un profilo sul sito ufficiale, sono tornati online i suoi video e il medagliere. Non solo: sul suo profilo Twitter, Hulk Hogan ha lasciato intendere che potrebbe ritornare con un ruolo attivo dal 27 ottobre 2018. Queste ultime notizie hanno però scatenato reazioni contrastanti, con diverse lamentele di atleti afroamericani, per cui al momento la WWE non sembra voler confermare nulla.
Che c’entra Hulk Hogan con Kevin Spacey? Apparentemente niente, eppure il meccanismo sembra lo stesso. Nel caso di Hogan si era forse nel momento di picco del movimento Black Lives Matter, nel caso di Spacey era appena esploso il #MeToo. Il rito del sacrificio del capro espiatorio, mondato del sangue di un linciaggio reale, si tramuta in un linciaggio mediale, nel licenziamento e nella rimozione dall’immaginario collettivo. O meglio: nella sospensione temporanea. Questo forse ha soprattutto a che fare con il mito americano della seconda possibilità, tanto fondativo da non permettere eccezioni: tutti ne hanno diritto. Più precisamente ricorda un principio tipico degli sport anglosassoni, a cui noi italiani calciomaniaci siamo un po’ restii: la penalty box. In base all’infrazione commessa, nell’hockey sei costretto a sedere per tot minuti sulla “panca della penalità”, in attesa di essere riammesso.
Dovunque sia in questo momento, nascosto in una clinica costosa o in una villa in riva al mare, Kevin Spacey ci guarda dai vetri rinforzati della sua penalty box, in attesa di comparire di nuovo alla chetichella, in qualche piccolo film Sundance o in un film d’autore europeo in concorso a Cannes. Meglio ancora, potrebbe fare capolino in una produzione Off Broadway, magari non segnalato in cartellone, un po’ come ha fatto nei giorni scorsi l’altro grande appestato, Louis CK, comparendo a sorpresa al Comedy Cellar per un monologo di appena quindici minuti che, pare, ha ricevuto applausi calorosi. A quel punto, quando la collettività avrà considerato conclusa la crisi e rientrata la tensione generale sotto la soglia consentita, potrà riammetterlo alla partita, tornare a considerarlo un grande attore e magari concedergli un Oscar o qualche premio alla carriera. D’altra parte si sa, il perdono è il lusso estremo che ogni società si concede nell’illusione di essere saggia, misericordiosa e giusta.
E infatti il rito del capro espiatorio non si conclude davvero con il sacrificio, come ci ricorda il solito Girard: “Vi sono due momenti, e gli interpreti non riescono a distinguerli. Il primo momento corrisponde all’imputazione di un capro espiatorio non ancora sacro, sul quale si addensano tutte le virtù malefiche. A esso si sovrappone il secondo momento, quello della sacralità positiva suscitata dalla riconciliazione della comunità. […] I persecutori mitologici, più creduli ancora dei nostri, sono posseduti dai loro effetti di capro espiatorio al punto di venire realmente riconciliati da questi e di sovrapporre una reazione di adorazione alla reazione di terrore e ostilità che la loro vittima aveva suscitato in essi”.
L’esempio canonico è nella storia di Edipo nella trilogia di Sofocle: tanto nell’Edipo re egli era il capro malefico, che ammorba la città con le sue colpe, quanto nell’Edipo a Colono, una volta riportato l’ordine e l’armonia a Tebe attraverso il suo accecamento ed esilio, questo cieco errante è venerato al punto che il suo cadavere verrà conteso, come una specie di talismano benefico, tra le due città. E proprio su un cadavere si concentra il furbesco teaser della nuova, ultima stagione di House of Cards, in cui Claire Underwood parla di fronte alla tomba di Frank Underwood, compianto 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Robin Wright, che quasi un anno fa aveva avuto parole dure per il collega, ha appena rilasciato un’intervista in cui alla domanda se meritasse di tornare a lavorare risponde così: “Non so bene come rispondere, davvero. Credo che tutti gli esseri umani possano tornare sulla retta via. Chiamala ‘seconda possibilità’ o come ti pare ma, ecco, io ci credo. Si chiama ‘progresso’.”
Il corpo di Spacey, dilaniato e linciato, è forse già pronto a ricomporsi e tornare, ormai santo, tra noi.
Dario Rossi
Editor della casa editrice Utet. Un suo saggio sul rapporto tra Il corpo e It si trova all'interno dell'antologia Dentro al nero. Tredici sguardi su «It» di Stephen King, a cura di Luca Cristiano ed Enrico Macioci (2017).
Vedi tutti gli articoli di Dario Rossi