Quella della perfetta tracciabilità di ogni nostro comportamento è la chimera inseguita dall’intero comparto dell’advertising. Ma i dati continuano a non spiegare tutto.
Rimango sempre stupito di quanto poco i miei studenti di marketing all’università siano interessati alla pubblicità digitale “tradizionale”. Per alzata di mano, solo una persona ricordava di aver visto un banner nelle 24 ore precedenti. “Che brand era?”. “Non so, una macchina, mi pare”. Eppure, mentre sto scrivendo questo articolo rientro da uno dei principali eventi dell’industria della pubblicità digitale, in cui si è parlato prevalentemente di tracciamenti, di intelligenza artificiale, di machine learning e naturalmente di dati. Ogni campagna pare dover essere data-driven, per essere più efficace ed efficiente. Soprattutto nel fattore targeting: colpire il cookie giusto al momento giusto. Dividere gli italiani in 5.000 cluster, cose così.
L’advertising digitale ha prosperato in questi anni come attività di marketing diretto, rivolto a persone già convinte per molti versi dell’acquisto. Il ritorno sull’investimento pubblicitario è altissimo, con ricavi che spesso superano di molte volte i costi associati. In generale, che il marketing diretto abbia il ritorno più alto è accademicamente scontato. Il remarketing (quei banner che ti inseguono dopo aver abbandonato un acquisto a metà), per esempio, agisce su chi è già molto propenso ad acquistare, e statisticamente una parte di questi acquisterà comunque.
Efficacia percepita
Ma ogni marketer sa che un brand non può vivere a lungo solo di marketing diretto. Perché qualcuno arrivi a cercare, e mettere nel carrello, un prodotto è necessario che sia prima conosciuto e desiderato. Da alcune parti si alzano voci controcorrente sull’efficacia della pubblicità online nell’ottenere il desiderio – la parte più complicata dello spending pubblicitario, peraltro. Samuel Scott cita in articolo su Drum uno studio per cui i media “tradizionali” vincono sul digitale nella creazione di una persistente traccia nella mente delle persone. Come è possibile?
La proposta di valore del programmatic advertising (quello che seguendo l’utente nei suoi percorsi online incamera segnali su ciò che fa e adatta i banner di conseguenza) è che il targeting chirurgico e iperpreciso è l’arma vincente, in qualsiasi tipo di pubblicità, anche a quella più lontana dalla vendita: “possiamo tracciare e seguire il tuo consumatore dal primo contatto fino a dopo l’acquisto”, promettono gli operatori. E l’appetito per la torta globale della pubblicità di brand accade per un motivo ben preciso: storicamente, la stragrande fetta del budget non è impiegato nel marketing diretto ma nell’amplificare bisogni latenti a persone fino a quel momento semi-disinteressate, o nel creare pilastri di lungo periodo (“sport → Just do it → Nike”) nella mente del consumatore.
Attraverso una sofisticata campagna di relazioni pubbliche e white paper, gli operatori hanno dato ampio consenso a un sistema di attribuzione, che dietro al mantra del “in Dio abbiamo fede, gli altri portino dati” svilisce qualunque evidenza psicologica e comportamentale non rilevabile con cookie, impression e tempo di fruizione. Ciò che non è misurabile non esiste.
L’uomo immaginato dall’advertising digitale non ha emozioni, non è influenzato dal pensiero di altri, non ha momenti di umore variabile, è indifferente a situazioni in cui è attento o meno, non vive offline. Il suo esistere si fa tutt’uno con il suo cookie, e si cerca di attribuire (e di predire prima, e replicare dopo) un comportamento meccanicistico. È il corrispondente dell’homo oeconomicus degli economisti, l’essere perfettamente razionale ed egoista che acquista il prodotto sempre al prezzo più basso, che ha una piena conoscenza del mercato e che massimizza sempre il proprio soddisfacimento. Gli operatori del digitale si comportano come gli economisti: cercano di sistematizzare un modello che possa universalmente predire e giustificare i comportamenti di acquisto. Il problema non irrilevante è che l’uomo oeconomicus, come l’uomo digitalicus, non esiste nella realtà.
Attraverso una sofisticata campagna di relazioni pubbliche e white paper, gli operatori hanno dato ampio consenso a un sistema di attribuzione, che dietro al mantra del “in Dio abbiamo fede, gli altri portino dati” svilisce qualunque evidenza psicologica e comportamentale non rilevabile con cookie, impression e tempo di fruizione. Ciò che non è misurabile non esiste.
Una maggiore complessità
I modelli di acquisto creati dal digital advertising non possono essere – non lo saranno mai – una spiegazione completa delle dinamiche di acquisto, perché prendono in considerazione solo i segnali di una minima parte (quella misurabile) del percorso. Le persone sono irrazionali e imprevedibili nella loro normalità, immerse in migliaia di stimoli quotidiani. Una complessità degna della teoria del caos. Possiamo avere visto due volte un sito, ed essere stati convinti all’acquisto da un contenuto non tracciabile, come un messaggio Whatsapp. O da un nostro amico davanti a una pizza, o al suo telefonino. Ma nel modello dell’homo digitalicus l’acquisto sarà merito delle due visite al sito, e mi dirà di investire molto di più su quei due siti. Mentre, a ben guardare, forse dovrei puntare di più al passaparola. Stiamo accettando come ottimali degli “exit poll” molto parziali.
L’impression (la visione di un banner, di un video) è un indicatore comodo, ma molto approssimativo di misurazione dell’impatto e dell’attenzione sul consumatore, perché quantificabile. In un ecosistema pubblicitario in cui le esperienze sono estremamente differenti, confrontare un banner con un video di dieci secondi e con uno spot tv di trenta significa confrontare momenti che pesano sulla psiche del consumatore in modo estremamente diverso. La lunghezza di fruizione e il numero di contatti non rappresentano necessariamente maggiore attenzione o approvazione ed engagement del contenuto. Ma questo è dato per indiscutibile. “Colpiamo il target migliore più volte, in una determinata sequenza”: l’advertising digitale cerca di convincere tutti che questi sono i soli parametri che contano.
Evidentemente, qualcosa non torna. L’articolo di Scott citato sopra individua la debolezza dell’advertising digitale nel fenomeno studiato dallo psicologo Kevin Simler. La pubblicità di brand che lascia impronte è quella che agisce sul cambiamento dello scenario “culturale”, e di rimbalzo influisce su come siamo visti dagli altri se usiamo un certo prodotto. Che marca di birra beviamo è spesso un segnale più per gli altri che per noi. Per lasciare un segno culturale persistente, al brand serve necessariamente creare preliminarmente una base di significato condivisa. E per questo non è sufficiente che i singoli membri di un gruppo siano a conoscenza del messaggio. È necessario che ogni membro sappia che anche tutti gli altri del gruppo lo sono, e che sappia che gli altri sappiano che ognuno lo è. In pratica, la birra Corona non è diventata tale dicendo a ogni consumatore, singolarmente, chi è Corona. È diventata Corona perché chi beve Corona sa che comunica se stesso in modo condiviso da tutti. Ma, paradossalmente, solo con una pubblicità “condivisa” – non digital-targetizzata – è possibile arrivare a ottenere questo fenomeno.
Alla fine, una serie di bias intacca le basi della razionalità dell’utente su cui si muove il programmatic digitale. Anche il percorso progressivo è poco aderente alla realtà: il filosofo Alan Watts ha scritto che il processo che chiamiamo “decisionale” – andare passo a passo verso la scelta definitiva – non esiste effettivamente, ed è composto invece da una fase in cui varie opzioni si alternano per poi fare una scelta improvvisa spesso quasi casuale. L’economista Phillip Nelson scoprì perfino che un’abbondante e visibile quantità di pubblicità è essa stessa pubblicità, e produce sensazione di qualità. Più spendo in pubblicità visibile a tutti, più faccio capire che il prodotto è superlativo. Un annuncio digitale iper-personalizzato non trasmette “prestigio” perché non dà la visione di quanta pubblicità quel brand stia facendo. Al contrario, se posizionato su di un mezzo di scarsa fama, può addirittura abbassarne la reputazione. Eppure, la teoria di base del programmatic si fonda esattamente su questo: individuare l’utente singolo e inseguirlo via cookie con pubblicità nei mezzi a basso costo – che in genere significa siti poco conosciuti. Quantità di contatti a scapito della potenza psicologica del messaggio stesso.
Possiamo avere visto due volte un sito, ed essere stati convinti all’acquisto da un contenuto non tracciabile, come un messaggio Whatsapp. O da un nostro amico davanti a una pizza, o al suo telefonino. Ma nel modello dell’homo digitalicus l’acquisto sarà merito delle due visite al sito, e mi dirà di investire molto di più su quei due siti. Mentre, a ben guardare, forse dovrei puntare di più al passaparola. Stiamo accettando come ottimali degli “exit poll” molto parziali.
Alla ricerca di consumatori poco razionali
Una diversa concentrazione mentale, il contatto fisico quotidiano e la condivisione dell’esperienza con altre persone, l’abitudine consolidata di acquisto, un diverso stato d’animo, un altro contesto spazio-temporale, perfino il fatto che il nostro consumatore abbia fretta o sia comodamente seduto in salotto: sono tutti fattori che possono influenzare la vendita molto più del perfetto targeting basato sui dati online. In The Choice Factory: 25 behavioural biases that influence what we buy, Richard Shotton colleziona una lunga serie di evidenze empiriche che smentiscono l’esistenza sia dell’homo oeconomicus che dell’homo digitalicus. La ricerca di Fred Bronner, professore di Media e Advertising Research ad Amsterdam, misura l’impatto dello stato d’animo individuale sull’efficacia pubblicitaria. Bronner chiese a 1.287 partecipanti di guardare il giornale e rispondere a domande sulla pubblicità che avevano visto. Il mood dei lettori fu decisivo: chi era rilassato notò il 56% degli annunci, chi era stressato solo il 36%, chi aveva avuto una pessima giornata solo il 26%. Dovremmo fare advertising online solo a chi è rilassato. Sfortunatamente, è molto difficile capirlo.
Il dubbio rimane: e se l’estremamente costoso (circa il 50% dei costi di pubblicità in programmatic finiscono in spese per intermediazione e targeting) sistema di erogazione non fosse, a tutti gli effetti, un meccanismo complesso, basato tuttavia solo su una parte minimale della sfera cognitiva del consumatore e perlopiù non applicabile a brand di largo consumo, cioè i prodotti che fanno più pubblicità? Più il brand ha ambizioni di massa, infatti, più parla a un consumatore che è attratto da una “cultura di brand condivisa”: la vendita di tonno in scatola – per esempio – non ha bisogno di targeting chirurgico, ma di un messaggio di posizionamento condiviso. “Non compro tonno non in linea con i principi della sostenibilità dell’ambiente marino, e voglio che gli altri lo sappiano e riconoscano il mio gesto”. Cosa determini l’effettivo acquisto è ancora un mistero, e probabilmente finirà per restarlo a lungo. Il targeting comportamentale basato sulla fruizione digitale dà informazioni fondamentali nel marketing contemporaneo ma, con un consumatore inserito in un sistema dei media sempre più complesso, proseguire nella ricerca di una previsione esatta (cioè, di un perfetto targeting), può portare strategicamente fuori strada.
Taleb ci ha spiegato – ne Il cigno nero e nei libri successivi – come sia impossibile realizzare stime probabilistiche ottimali di fenomeni complessi, e come soprattutto non sia conveniente. “È impossibile valutare la probabilità di periodici eventi rari utilizzando metodi scientifici, a causa della loro natura di eventi a bassissima probabilità”. Ogni singolo acquisto nell’ecosistema attuale – tra miliardi di messaggi e alternative infinite – è sempre più un evento statisticamente raro. Se Taleb analizzasse il mercato pubblicitario sarebbe d’accordo con me: è meglio occuparsi di creare un ombrello migliore che investire su previsioni del tempo ancora più accurate. Nel mondo del marketing significa accontentarsi di una versione “buona abbastanza” del targeting digitale ma adoperarsi incessantemente per creare un prodotto che le persone facciano di tutto per acquistare, qualunque sia il percorso – imprevedibile – che poi useranno.
Gianluca Diegoli
Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.
Vedi tutti gli articoli di Gianluca Diegoli