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Intervista a Edoardo Novelli

Dai talk show all’infotainment, la televisione è un tassello di una campagna elettorale permanente. Ma non è sempre stato così. E non sarà così in futuro. 

Me lo ridice un’altra volta?

Ancora?

Sì, se lo leggo non è lo stesso.

Uff… va bene: nel 1974, l’anno della consultazione sul divorzio, Tribuna referendum, una specie di antesignano del talk show politico, faceva 16 milioni di spettatori, con un indice di gradimento del 59%.

Mi sento male ogni volta.

E Tribuna politica negli anni Sessanta faceva anche di più. Ora posso buttare giù il telefono?

Si, grazie professore, ci sentiamo presto.

Il prof. Edoardo Novelli insegna Comunicazione politica a Roma Tre ed è una specie di mito per chi lavora nei talk politici. Il motivo è semplice: su questo disgraziato lavoro, che se la gioca con l’allenatore della nazionale di calcio per il numero di persone che pensano (erroneamente) di saperlo fare, ha scritto diversi libri. Oddio: non è che le sue pubblicazioni riguardino proprio gli autori. Piuttosto riguardano il genere, ma il solo fatto che esista una bibliografia sul tuo lavoro ti fa sentire meglio, diciamo, e per questo sta simpatico a tutti. Ora di libro ne ha scritto uno nuovo per Laterza, che si intitola Le campagne elettorali in Italia. Protagonisti, strumenti, teorie.

E pure qui c’entriamo noi dei talk show.

Beh, per forza. Viviamo una campagna permanente, praticamente dagli anni Ottanta. Una volta invece era una fase eccezionale della vita politica e anche per i partiti.

Ormai non mi ricordo neanche più quand’è che non ci siamo, in campagna elettorale.

Ora ci si mettono anche risorse in maniera continuativa, ci sono persone che fanno quello h24. Una volta non era così. La comunicazione è ormai una conditio sine qua non.

Diciamo pure, lo dico io, che la comunicazione si è proprio mangiata la politica.

È la risultante di una serie di cambiamenti sia sul fronte mediale che nella società.

Tipo?

Di sicuro la fine dei partiti di massa.

Questo cosa comporta?

È passato un principio: se non sei un buon comunicatore, non sei neppure un buon politico.

Questo incontro tra politica e comunicazione quando avviene?

L’incontro fatale fu nel 1960, alle amministrative.

Come funzionava all’epoca?

L’avvio della fase del centro-sinistra portò con sé anche un’apertura nell’accesso alla tv da parte dei partiti durante le campagne elettorali. D’altronde le opposizioni, sia di destra sia di sinistra, lo rivendicavano a gran voce, essendo la tv nata nel 1954.

Ah, vedi! E ai democristiani l’idea di mandare in tv Togliatti piaceva?

La cosa preoccupava molto alcuni di loro. Infatti dopo la prima edizione di Tribuna elettorale del 1960, il democristiano Guido Gonella in Consiglio dei ministri accusò la tv “di aver portato Togliatti e le ballerine nel cuore degli italiani”. Ma il vero obiettivo era far cadere il governo Fanfani, ritenuto troppo aperto a sinistra.

Quindi non era realmente pericoloso?

Affatto. L’obiettivo delle Tribune della Rai era allargare il circuito della partecipazione democratica, estendere la nuova cittadinanza repubblicana al maggior numero di italiani.

“Il politico smetteva di essere solo politico ma diventava anche persona. Alla figura istituzionale si affiancava quella privata. Dalla scena si invadeva il retroscena. E questo grazie alla tv, che cominciava a imporre il suo linguaggio”.

Taccio.

All’epoca Tribuna elettorale, che poi divenne Tribuna politica nel 1961, era un dispositivo scenico fatto per celebrare l’autorevolezza, la funzione imprescindibile dei partiti e l’importanza della loro parola. A partire dai setting degli studi tv che riprendevano un emiciclo del Parlamento o un’aula universitaria e dalle dinamiche verbali.

In che senso?

Che le domande le potevano fare solo i giornalisti di Montecitorio, non certo i cittadini in collegamento o il pubblico in studio, che non era nemmeno previsto.

Sarebbe perfetta anche per molti politici di adesso!

Scherzi a parte, era proprio una concezione diversa della politica, che all’epoca era considerata una cosa alta, da tenere sul piedistallo.

È passata una vita, proprio.

Sì, ma già all’epoca eravamo in grave ritardo.

In che senso?

Beh, negli Stati Uniti erano già al dibattito tra Kennedy e Nixon.

Regole diverse?

Pensiamoci: lì le carte le dava la tv.

E altre novità, per l’epoca?

Le tribune significarono anche l’emergere della componente visiva accanto a quella verbale. Per la prima volta gli italiani ascoltavano e, non dimentichiamolo, vedevano negli occhi i leader. C’era una forte componente di curiosità per dei personaggi che al massimo avevano visto da lontano nelle piazze dei comizi, che si univa al grande interesse per la politica. Gli iscritti ai grandi partiti di massa si contavano in milioni.

Tiro a indovinare: parlavano senza contraddittorio e con milioni di spettatori passivi, immagino non fosse difficile convincere i politici ad andarci…

No, certo. Avevano un ruolo dominante.

Però anche per loro doveva essere una novità.

Certo! Scelba si lamentò: “non possiamo avere le stesse caratteristiche degli attori”.

Che a sentirla oggi fa ridere.

Conta anche che i politici dell’epoca disdegnavano il trucco, la famosa “passata” prima di entrare in studio.

E anche qui lasciamo stare. Andiamo avanti.

Negli anni Settanta la tv acquisisce autonomia e competenza, nasce un vero e proprio linguaggio.

Che cosa comporta?

Che una tv forte inizia ad imporre le proprie regole.

Facciamo un esempio.

Uno dei più noti riguarda una celebre puntata di Bontà loro, quello che è considerato il primo talk vero e proprio in Italia.

“Se ai tempi di Tribuna politica il sottotesto per il pubblico, nemmeno troppo sotto, era ‘siediti e impara’, ‘assisti’, ora invece l’invito è il contrario, ‘partecipa’, ‘clicca’, ‘condividi’”.

Maurizio Costanzo, giusto?

Lui, sì. Sul programma in generale ci sarebbero molte cose da dire, era davvero innovativo per l’epoca. In questa puntata era ospite Andreotti, presidente del Consiglio.

Con lui chi c’era?

Questa è una delle novità per cui dico che è la televisione a imporre il linguaggio: gli altri ospiti erano il press agent Enrico Lucherini e una balia.

Una balia?

Sì, una balia, cioè una persona “qualunque”. Per l’epoca era una novità, i politici parlavano solo tra loro o con i giornalisti, non si confrontavano con gli altri.

Mi racconti la puntata.

Costanzo parte con una domanda che oggi sembra innocua ma in realtà ha rappresentato la spaccatura di una consuetudine, l’imposizione di un nuovo linguaggio: “Presidente: stanno per riaprire le scuole, è vero che lei da studente era un po’ discolo e tirava anche i calci sotto il banco?”.

Beh, non l’ha proprio scorticato…

Ma il tema non è quello, non bisogna pensare come fosse oggi. Prima non era pensabile chiedere una cosa del genere a un politico, ad Andreotti poi.

E Andreotti si prestò?

Certo, come no. Fu in quella puntata che raccontò il famoso aneddoto della proposta di matrimonio.

Alla moglie?

Sì, gliela fece al cimitero, durante un funerale.

Ma certamente.

Sì, sì, è vera. Il tema è che il politico smetteva di essere solo politico ma diventava anche persona. Alla figura istituzionale si affiancava quella privata. Dalla scena si invadeva il retroscena. E questo grazie alla tv, che, appunto, cominciava a imporre il suo linguaggio.

È in questo periodo che nascono gli spot elettorali?

Sì, l’alleanza tra tv e politica, gli anni Ottanta. Diretta conseguenza dell’arrivo della tv commerciale.

Nei Novanta, invece?

Qui la tv è proprio centrale nel dibattito, arrivano i talk più o meno come li conosciamo ora.

L’epoca d’oro!

Sì: diventano più importanti dei comizi, danno la linea. Diventano quotidiani, anche questa una grande novità, il primo fu Milano, Italia, e costruiscono una piazza elettronica dove la politica inizia a svolgersi in diretta. Perfetta per mettere in scena una politica bipolare e contrapposta in due fazioni, centrodestra e centrosinistra.

Che meraviglia.

Sono centrali, l’oggetto del contendere, un campo di battaglia. I politici fanno la fila per andarci, ed è una prova importante per loro.

Ma poi a un centro punto questo bendiddio finisce.

Eh, bisognerebbe interrogarsi sul perché… ma senza dare giudizi tocca considerare l’arrivo di internet.

Vabbè.

I talk sono cambiati: l’interazione con Twitter, il fenomeno del second screen… E non dimentichiamo anche il superamento dello storico bipolarismo verso una condizione più difficile da sintetizzare all’interno di un salotto o una arena tv.

Dice che la rete ci mangerà?

Ma no! Però è interessante osservare “l’altra” discussione, il dibattito sui social, parallelo a quello che avviene nello studio televisivo. E anche i modi della tv di integrare la rete al proprio interno.

È cambiato il pubblico?

Beh, se ai tempi di Tribuna politica il sottotesto per il pubblico, nemmeno troppo sotto, era “siediti e impara”, “assisti”, ora invece l’invito è il contrario, “partecipa”, “clicca”, “condividi”.

Ma la tv è ancora dominante?

Certo, anche se con un ruolo diverso.

In che senso?

Torniamo al tema del libro, le campagne elettorali. Se in quella del 2013, cioè pochi anni fa, alcuni degli avvenimenti più importanti, che ne condizionavano l’esito, avvenivano in tv…

Tipo la famosa puntata di Santoro con Berlusconi, la sedia etc.?

Esatto. Nell’ultima invece, quella scorsa, la tv ha perso la sua centralità nella costruzione dell’agenda. Fatti giornalisticamente importanti quali l’inchiesta delle Iene sui rimborsi del M5S, e quella di Fanpage sui rifiuti in Campania, sono stati diffusi in rete e non tramite la televisione.

Quando butto giù con il professore torno alla mia scrivania, scelgo un leader politico a caso e vado a controllare: in una settimana ha fatto più di 40 post su Facebook, altrettanti tweet, diversi post su Instagram. E zero talk. Ma, mi chiedevo intanto, a Facebook cercheranno autori?


Francesco Caldarola

Inizia all'ANSA, poi ha scritto per i giornali e soprattutto programmi per la tv: La7, Mediaset, Sky e ora Rai. Porta spesso la cravatta.

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